RILEVATO IN FATTO
1. Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Brescia, con
sentenza 1° marzo 2004, applicava a D. O., sulla concorde richiesta delle
parti, la pena di mesi tre di reclusione ed € 600 di multa per il reato
continuato di illecita cessione a terzi di hashish pari a grammi 1,9,
tenuto conto della contestata recidiva specifica infraquinquennale; con lo
stesso provvedimento revocava la sospensione condizionale della pena
concessa, prima dal Tribunale di Bergamo, con sentenza 27 luglio 2001 (in
ordine al reato di cui all'art. 73, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n.
309), poi dal Tribunale di Brescia, con sentenza 11 marzo 2003
(relativamente al reato di resistenza a pubblico ufficiale).
2. I difensori di D. O. hanno proposto ricorso per inosservanza ed erronea
applicazione degli artt. 168 c.p. e 444 c.p.p. ed hanno chiesto
l'annullamento della sentenza nella parte in cui ha disposto la revoca
delle sospensioni condizionali precedentemente concesse, deducendo che la
revoca valica i limiti dell'accordo tra le parti e si fonda sull'erroneo
presupposto che la sentenza di patteggiamento implichi l'accertamento
della responsabilita’ dell'imputato; un principio contrastante con la
consolidata giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione
le quali hanno più volte statuito che la sentenza che applica la pena su
richiesta non è titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168, 1°
comma, n. 1, c.p., considerate le differenze formali, strutturali,
genetiche e funzionali rispetto alla decisione di condanna.
3. Con ordinanza 13 maggio 2005, la IV Sezione di questa Corte, cui il
ricorso è stato assegnato, ha rimesso il ricorso stesso alle Sezioni unite
perché riesaminino, anche alla luce della nuova disciplina introdotta
dalla legge 12 giugno 2003, n. 134, la questione concernente la revoca
della sospensione condizionale della pena, in forza dell'art. 168, 1°
comma, n. 1, c.p., a seguito di una sentenza di applicazione della pena su
richiesta delle parti.
Il rapporto tra i profili negoziali dell'accordo delle parti sulla pena e
i poteri del giudice nella valutazione di detto accordo sono posti a base
della questione sollevata, così da introdurre una tematica che travalica
la specifica questione, per incentrarsi sulla natura della sentenza che
applica la pena su richiesta.
Sono così evidenziati i momenti più significanti dell'evoluzione della
giurisprudenza costituzionale che mentre, per un verso, ha riconosciuto al
giudice il sindacato sulla congruita’ della pena (sentenza n. 313 del
1990) e, dunque, un potere di controllo nel merito; per un altro verso, ha
valorizzato il profilo negoziale dell'accordo, segnalando le peculiarita’
della sentenza di patteggiamento contrassegnata dall'assenza di un
accertamento pieno e completo di responsabilita’ (sentenza n. 155 del
1996; nonché sentenze n. 251 del 1991, n. 499 del 1995, n. 172 del 1998;
ordinanza n. 399 del 1997); pur non mancando di evidenziare che nella
sentenza che applica la pena su richiesta non sono assenti aspetti di una
pronuncia di merito e statuente sulla pena; in un quadro in gran parte
condizionato dalle proposizioni interpretative che si andavano profilando
nella giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione.
In questa stessa prospettiva critica, l'ordinanza di rimessione prende in
esame le pronunce delle Sezioni unite di questa Corte, delle cui pone in
luce quello che può definirsi, secondo i tracciati interpretativi percorsi
dalla IV Sezione, una sorta di sincretismo ricostruttivo
nell'individuazione del punto di rilevanza ermeneutica (accordo delle
parti o controllo giurisdizionale) da ritenere esponenziale.
Così il rapporto tra contenuto negoziale dell'accordo e poteri della
giurisdizione è stato esaminato in base al criterio della natura
discrezionale o vincolata delle determinazioni giudiziali, che vale a
discriminare i casi in cui l'accordo non è modificabile da parte del
giudice, dai casi in cui, essendo la determinazione giudiziale vincolata
alla legge, il profilo negoziale deve necessariamente soccombere (Sez.
un., 11 maggio 1993, Zanlorenzi).
Il contenuto volitivo dell'accordo, quale presupposto per accedere al
procedimento, è stato ritenuto, altre volte, elemento condizionante al
fine di verificare se le parti abbiano inteso vincolare o no il giudice a
determinate conclusioni: si è così affermato che l'accordo sulla
sospensione condizionale, a cui non sia subordinata la complessiva
richiesta di applicazione della pena, consente di pronunciare la sentenza
di patteggiamento senza concedere il richiesto beneficio (Sez. un., 11
maggio 1993, Iovine).
Entro i confini tracciati, da un lato, dai profili di negozialita’ e
dall'altro lato, dall'esercizio dei poteri della giurisdizione si muovono,
poi, altre sentenze delle Sezioni unite (in particolare, Sez. un., 8
maggio 1996, De Leo; Sez. un., 26 febbraio 1997, Bahrouni Makerem, attenta
a definire il controllo del giudice come “estrinseco”, riservando un ruolo
preminente all'accordo delle parti; Sez. un., 28 maggio 1997, Lisuzzo, che
nega la possibilita’ di dichiarare l'estinzione del reato per prescrizione
sulla base del giudizio di comparazione tra circostanze, affermando che,
in caso contrario, si utilizzerebbe solo una parte dell’accordo; ed
ancora, Sez. un., 21 giugno 2000, Franzo, che aggiunge come l'accoglimento
dell'accordo delle parti sulla pena, motivato anche con il riconoscimento
di circostanze aggravanti ed attenuanti, non implica un accertamento sulla
loro sussistenza, giacché esse sono valutabili solo per la determinazione
della pena).
Come conclusione provvisoria, tesa a giustificare le divergenti linee
interpretative, si assegna una significazione decisiva sia ai profili
processuali sia ai profili sostanziali dell'istituto, nell'ambito dei
quali l'accordo assume il ruolo di fonte di legittimazione della pena
patteggiata che, altrimenti, nonostante la statuizione contenuta nella
sentenza costituzionale n. 313 del 1990, “sarebbe caratterizzata da
un'incontrollabile irrazionalita’ distributiva”.
Si aggiunge, poi, e, ancora una volta, con valenza davvero significante,
che negli ultimi anni novanta è prevalso l'orientamento giurisprudenziale
che fa dell'atto di disposizione negoziale, e non nella decisione del
giudice, il presupposto per la soluzione del conflitto tra interessi
contrapposti, dal momento che, si afferma, il giudice non può sovrapporre
le sue valutazioni a quelle consacrate nell'accordo, dovendosi limitare ad
un controllo di tipo negativo per evitare l'applicazione di pene
incongrue.
Ma, relativamente a tale indirizzo ermeneutico, la Sezione rimettente si
dimostra fortemente critica. L'amplificazione del carattere negoziale e
l'accentuazione della crisi della pena, che stanno a fondamento di tale
indirizzo interpretativo, inducono a trascurare la natura prevalentemente
processuale del patteggiamento e l'importanza del principio della
soggezione del giudice soltanto alla legge, che può dirsi rispettato solo
se il ruolo dell'accordo delle parti è valutato esclusivamente in funzione
della collaborazione ad una rapida definizione del giudizio, con
conseguente riconoscimento di un penetrante controllo giudiziale
sull'accordo e sulla congruita’ della pena.
Si spiega così il diverso e contrapposto indirizzo interpretativo, per il
quale il patteggiamento risponde a finalita’ di semplificazione e di
speditezza, coniugando le esigenze di celerita’ con quelle
dell'accertamento attraverso il riconoscimento del profilo dispositivo
dell'accordo e l'attribuzione al giudice di penetranti poteri di
controllo.
In tal modo al giudice è consentito riempire l'accordo delle parti con
contenuti obbligatori pretermessi o addirittura esclusi, ordinando la
demolizione di cui all'art. 7, ultimo comma, della legge n. 47 del 1985
per il reato di costruzione abusiva (Sez. un., 27 marzo 1992, Di
Benedetto), di definire la gravita’ della violazione, l'entita’ del danno
e del pericolo per la circolazione ai fini dell'irrogazione della sanzione
amministrativa della sospensione della patente di guida (Sez. un., 27
maggio 1998, Bosio), di accertare la non rispondenza al vero dell'atto (Sez.
un., 27 ottobre 1999, Fraccari), di motivare sulla ricorrenza delle
condizioni per il proscioglimento immediato ex art. 129 c.p.p. ove dagli
atti risultino concreti elementi (Sez. un., 27 settembre 1995, Serafino),
anche quando non emerga la prova positiva dell’innocenza (Sez. un., 25
ottobre 1995, Cardoni), di dare una diversa qualificazione giuridica al
fatto (Sez. un., 19 gennaio 2000, Neri), di accertare l’intero fatto,
anche in riferimento ad un illecito amministrativo connesso (Sez. un., 21
giugno 2000, Cerboni), di rigettare l'accordo sulla pena allorché ne
derivi l’estinzione del reato per prescrizione sulla base di non certe
valutazioni comparative o riconoscimenti di attenuanti, dovendo invece
rilevare la causa estintiva ove le circostanze aggravanti appaiano
immediatamente inesistenti o le attenuanti emergano in modo inoppugnabile
(Sez. un., 25 novembre 1998, Messina).
Tutte le indicate decisioni ammettono, dunque, un potere di accertamento
del giudice, seppure non completo e definibile in termini di “semiplena
cognitio”.
In ordine alla questione specifica sono intervenute tre decisioni delle
Sezioni unite (Sez. un., 8 maggio 1996, Di Leo; Sez, un., 26 febbraio
1997, Bahrouni; Sez. un., 22 novembre 2000, Sormani), che hanno negato che
la sentenza di patteggiamento, in quanto priva della natura di sentenza di
condanna, possa costituire titolo per la revoca della sospensione
condizionale della pena.
A questa conclusione però, osserva l'ordinanza di rimessione, si è giunti
prima delle novelle normative introdotte con la legge n. 134 del 2003 sul
c.d. patteggiamento allargato, che ha rimodulato il rito alternativo con
le previsioni dell'applicabilita’ della misura della confisca c.d.
facoltativa e della possibilita’ di revisione per ogni sentenza di
patteggiamento.
La precedente novella che ha attinto l'art. 653 c.p.p. in forza della
legge n. 97 del 2001, attribuendo alla sentenza di patteggiamento
l'efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, poteva ancora non
essere ritenuta decisiva al fine di rivedere l'affermazione che sta alla
base delle decisioni che negano alla sentenza di patteggiamento l'idoneita’
a costituire titolo per la revoca della sospensione. La Corte
costituzionale, con la sentenza n. 394 del 2002, ha a tal proposito
riconosciuto la rilevanza dell'innovazione normativa, affermando che il
patteggiamento, pur in presenza di autonomi e consistenti poteri del
giudice, trova il suo fondamento nell'accordo delle parti; col rimarcare,
più specificamente, che il consenso dell'imputato, dopo l'entrata in
vigore della legge n. 97 del 2001, ha l'ulteriore significato di una
rinuncia alla difesa nel successivo procedimento disciplinare, posto che
l'efficacia di giudicato si estende a tutti gli elementi della
fattispecie.
Con l'introduzione nel sistema del c.d. patteggiamento allargato sono
state apportate alcune significative novita’, quali la condanna al
pagamento delle spese processuali, l'applicazione di pene accessorie e di
misure di sicurezza, l'esclusione dell'estinzione del reato, che hanno
indotto parte della dottrina e della giurisprudenza di merito a rinnovare
i dubbi sulla natura della sentenza di patteggiamento, riflettendo con
motivate perplessita’ in merito alla conclusione incentrata sull'assenza
in essa dei caratteri della statuizione di condanna.
Le pronunce della Corte costituzionale sul cd. patteggiamento allargato,
(sentenza n. 219 del 2004 ed ordinanze nn. 430 e 421 del 2004), non hanno
approfondito tale profilo, e non offrono spunti particolari per articolare
una risposta.
La Corte di cassazione ha affrontato tematicamente la questione una sola
volta (Sez. VII, 23 giugno 2004, Anizi Adel) ed ha ritenuto che la mancata
previsione di un'adeguata motivazione in punto di responsabilita’ della
sentenza di patteggiamento non meritasse la devoluzione al sindacato di
costituzionalita’, pur essendo la sentenza soggetta a revisione ex art.
629 c.p.p..
Due decisioni della Corte Suprema (Sez. I, 8 novembre 2004, Lacalamita,
Sez. I, 31 dicembre 2004 Sangermano), entrambe relative all'impossibilita’
di disporre la revoca della liberazione anticipata in seguito a sentenza
di patteggiamento (v. anche Sez. VI, 3 settembre 2004, Piampiano), hanno
recepito, senza motivazione sul punto, i tradizionali approdi
interpretativi.
Un rinnovato approfondimento della questione s'impone – prosegue la
Sezione - non potendosi accogliere la cd. teoria asimmetrica, che
distingue tra i due tipi di sentenza, l'una del patteggiamento ordinario,
l’altra del cd. patteggiamento allargato, per riconoscere natura di
condanna solo a quest’ultima. A tale teoria si oppone l'impossibilita’ di
procedere ad una differente valutazione di un rito unitario.
Né si può attribuire un ruolo decisivo al fatto che nella norma sulla
revisione il legislatore diversifichi con una disgiunzione le sentenze di
condanna dalle sentenze di patteggiamento, quasi fosse consapevole della
eterogeneita’ tra queste. La stessa disgiunzione è infatti utilizzata nel
menzionare le sentenze di condanna ed il decreto penale di condanna, che
indubbiamente partecipa della natura delle prime.
Ancora, la risposta al quesito sulla natura della sentenza di
patteggiamento non può fondarsi esclusivamente sulla norma che non
riconosce alla detta sentenza, sia essa emessa nel rito ordinario che in
quello del cd. patteggiamento allargato, effetti vincolanti nei giudizi
civili ed amministrativi. L'assenza di effetti vincolanti è una
caratteristica comune al decreto penale di condanna. Si tratta soltanto di
un effetto premiale, esteso alle sentenze di patteggiamento emesse in
esito a dibattimento, e di tanto è prova la deroga fissata per il
procedimento disciplinare.
Da qui la conclusione che contraddittorio ed accertamento di
responsabilita’ non sono sinonimi.
Parimenti insufficiente è il tentativo di rispondere facendo leva
unicamente sulla previsione normativa di estensione dei casi di
applicazione della misura di sicurezza patrimoniale della confisca, perché
numerose leggi speciali hanno stabilito alcune eccezioni.
Di particolare significato è, invece, la perdurante equiparazione della
sentenza di patteggiamento ad una sentenza di condanna per alcuni effetti
non disciplinati dalle norme, sicché le differenze potrebbero essere
qualificate come eccezioni ad uno schema unitario.
Una considerazione complessiva di tutti questi profili di disciplina, in
uno con l'impostazione della sentenza n. 313 del 1990 della Corte
costituzionale e con l'orientamento giurisprudenziale che valorizza il
ruolo del giudice rispetto al carattere negoziale del rito, inducono ad un
approfondimento della questione della natura della sentenza di
patteggiamento, nonostante siano rimasti immutati i presupposti del
consenso, le modalita’ dell’accordo, ed i parametri di controllo
giudiziale del patto.
4. Con provvedimento del 20 luglio 2005 il Primo Presidente di questa
Corte ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite “essendosi ravvisato un
contrasto di giurisprudenza”.
Osserva in diritto
1. L'ordinanza della IV Sezione penale, dopo aver ripercorso i tracciati
interpretativi di questa Corte circa la natura della decisione che applica
la pena su richiesta delle parti, ravvisa una sorta di antinomia latente
tra le singole statuizioni giurisprudenziali e che pare emergere solo
assegnando rilievo esponenziale ora al c.d. profilo negoziale (vale a
dire, l'accordo tra le parti) ora al c.d. profilo giurisdizionale (vale a
dire, i poteri di verifica dell'accordo ad opera del giudice), indicando
come proprio dalla consapevolezza dell'esistenza di tale antinomia è
possibile una scelta di più ampio contesto che consenta di pervenire ad un
assetto ermeneutico tale da divenire coerente con lo ius novum introdotto
dalla legge n. 134 del 2003.
2. Per il momento il Collegio ritiene necessario soprassedere dall'esame
di simili approdi soprattutto considerando che il quesito al quale queste
Sezioni unite sono chiamate a dare risposta riguarda esclusivamente – per
di più, in presenza di una vicenda contrassegnata dall'applicazione di una
pena nei limiti infrabiennali - l'operativita’ del regime della revoca
della sospensione condizionale della pena alla stregua del precetto
dell'art. 168, 1° comma, n. 1, c.p.
Sotto tale profilo non possono queste Sezioni unite omettere di constatare
che ben tre sentenze della Corte di cassazione nella sua composizione più
ampia abbiano risolto il problema in senso negativo.
Cosicché una rivisitazione dell'istituto che sia attenta a designare come
punto fermo – almeno nella sua ineludibilita’, ma non per questo
inaccessibile a rilievi di ordine metodologico – la pregressa
giurisprudenza, richiede che ad essa si pervenga soprattutto (se non
esclusivamente) sulla base dei decisivi interventi normativi che hanno
rimodellato il procedimento di cui all'art. 444 e seguenti c.p.p.
3. Come si è gia’ accennato, l'ordinanza di rimessione sembra richiedere,
in effetti, un revirement interpretativo in ordine alla natura della
sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, anche alla luce del
novum derivante dal regime del c.d. “patteggiamento allargato” introdotto
dalla legge 12 giugno 2003, n. 134.
Gli argomenti enucleati dal giudice a quo – pure utilizzando la ragionata
silloge giurisprudenziale riportata in narrativa - impongono a questa
Corte una accurata disamina sulla proposizione dialettica accordo delle
parti-poteri di controllo del giudice, alla luce della normativa
antecedente alla “novella”, per verificare poi l'incidenza dello ius novum
nel sistema congegnato dalla legge n. 134 del 2003.
Peraltro, una giurisprudenza ultradecennale circa la natura della
decisione che applica la pena su richiesta non esonera questa Corte – come
si vedra’, anche alla stregua dello ius novum - da un approfondito esame
in proposito. Semmai, il nodo problematico da sciogliere è
l'individuazione dell'effettivo significato del precetto (olim) contenuto
nell'art. 445, comma 1, ultima parte (ora nell'art. 445, comma 1-bis), in
base al quale “Salvo diverse disposizioni di legge, la sentenza è
equiparata a una sentenza di condanna”.
Il fatto stesso che il legislatore si esprima in termini di mera
equiparazione, omettendo, quindi, di istituire una vera e propria
identificazione, tra sentenza che applica la pena e sentenza di condanna
rende necessario ricorrere ad un modello interpretativo che non trascuri
le applicazioni giurisprudenziali che hanno coinvolto le conseguenze
direttamente derivanti da una sentenza di condanna e, di volta in volta,
ritenute riferibili anche alla sentenza che applica la pena su richiesta.
4. La prima decisione delle Sezioni unite che affronta uno degli snodi
cruciali della tematica circa la natura della sentenza di patteggiamento,
quella, cioè, relativa al preciso ambito del dovere di motivazione al
quale il giudice non può sottrarsi allorché adotti una pronuncia a norma
dell'art. 444 e seguenti c.p.p., muove dal presupposto che una decisione
di questo tipo contiene un implicito accertamento di responsabilita’; un
accertamento che non va espressamente motivato così come l'affermazione di
responsabilita’ non deve essere espressamente dichiarata; quel che è
certo, però, è che una simile decisione, non potendo qualificarsi una
sentenza di condanna in senso proprio, è solo equiparata ad una sentenza
di condanna. Se si trascuri per un momento il contrasto interpretativo che
le Sezioni unite erano state chiamate a comporre e ci si soffermi sul
reale contenuto della statuizione, si può verificare come l'inversione
della portata precettiva dell'ultima parte dell'art. 445, comma 1 (ora,
ultima parte dell'art. 445, comma 1-bis) è più apparente che effettiva. Lo
comprova la precisazione, contenuta nella stessa sentenza, secondo cui
l'ordine di demolizione delle opere edilizie abusive, previsto dall'art.
9, comma 9, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, può essere impartito
anche con la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, atteso
che detto provvedimento giurisdizionale è equiparato ad una sentenza di
condanna a tutti gli effetti diversi da quelli espressamente previsti
dall'art. 445, comma 1, c.p.p. (Sez. un., 27 marzo 1992, Di Benedetto).
Due proposizioni sembrano emergere con rassicurante perentorieta’ dalla
decisione adesso ricordata: la prima è che la sentenza che applica la pena
su richiesta delle parti non è una decisione di condanna, tanto è vero che
non sono ad essa applicabili disposizioni compatibili soltanto con una
sentenza di condanna, seguendo lo schema delineato, in negativo, dall'art.
445, c.p.p.; la seconda è che a tutti gli altri effetti la sentenza è
equiparata ad una sentenza di condanna. Un'equiparazione che non parrebbe
dare adito a eccezioni di sorta al di fuori di quelle espressamente
indicate da tale precetto. Più in particolare, conformemente al principio
secondo cui la sentenza di patteggiamento contiene un'implicita
affermazione di responsabilita’, non sembrerebbe residuare spazio alcuno a
limiti non derivanti espressamente dalla legge: limiti, questi, in qualche
misura, ontologici perché coessenzialmente incompatibili con la nozione
stessa di decisione di condanna e perciò tali da designare l'equiparazione
come corrispondente ad una vera e propria contradictio in adiecto; l'incompatibilita’,
cioè, non consentirebbe ad altri effetti tipici della sentenza di condanna
di operare anche in riferimento alla decisione che applica la pena. Il
tutto pure considerando che le eccezioni stabilite dall'art. 445, comma 1,
non sempre attengono ad ogni sentenza di condanna. Lo comprova il regime
dell'efficacia extra penale della decisione, una efficacia da qualificare
come simmetrica alla sentenza di condanna – ma, questa volta, secondo un
canone apprezzabile solo sul piano normativo - soltanto se questa sia
stata pronunciata a seguito di dibattimento. Una norma che, per la parte
non riguardante il patteggiamento “anomalo”, quello, cioè, in cui la
decisione viene adottata dopo la chiusura del dibattimento, sembrerebbe
dettata solo in funzione di tracciare un netto discrimine rispetto alla
parallela disciplina stabilita per gli effetti extra penali derivanti da
una sentenza pronunciata a seguito di giudizio abbreviato.
Nonostante le rationes decidendi siano parzialmente diverse da quelle
ricavabili dalla sentenza Di Benedetto, le ulteriori decisioni delle
Sezioni unite sembrano informate al postulato ermeneutico alla cui base è
l'equiparazione della sentenza che applica la pena alla sentenza di
condanna, con la precisazione però che gli effetti equiparabili sono
soltanto quelli che non risultino incompatibili con l'assenza di una plena
cognitio da parte del giudice del patteggiamento; ricollegando, dunque, ad
un rapporto di non compatibilita’ l'applicazione delle conseguenze
derivanti da una sentenza di condanna.
Ciò si è verificato, però, trascurando che talune di quelle escluse
dall'art. 445, comma 1, sono conseguenze che non possono derivare se non
da una sentenza di condanna. Cosicché, salva la necessita’ di affidare
all'interprete il compito di ricavare dalla legge (con una metodologia
tipicamente analitica) ogni sorta di esclusione “implicita”, è gioco forza
concludere che la natura della decisione di cui si discute non può essere
individuata richiamando quelle situazioni che presuppongono il pieno
accertamento di responsabilita’ o che espresse disposizioni di legge
escludono dalla equiparazione.
Quanto alle prime, è agevole ribattere che se la sentenza che applica la
pena implica un pieno accertamento di responsabilita’ ne potrebbe
discendere non un'equiparazione alla sentenza di condanna, ma una vera e
propria identificazione, diversificandosi le due sentenze solo per la
fenomenologia procedimentale che ne costituisce il presupposto e che va
apprezzata secondo rigorosi modelli normativi. Quanto alle seconde, se le
“diverse disposizioni di legge” vanno individuate al di fuori dell'art.
445, comma 1, utilizzando uno schema in grado di escludere che taluni
effetti delle sentenze di condanna possano trovare applicazione anche per
la sentenza di patteggiamento, l'operazione ermeneutica assume profili di
estrema difficolta’ ricostruttiva proprio considerando il precetto di
chiusura dell'art. 445, comma 1.
5. Non è un caso che, chiamate a decidere circa l'applicabilita’ del
regime di cui all'art. 168, 1° comma, n. 1, c.p., le Sezioni unite (Sez.
un., 8 maggio 1996, Di Leo, la prima decisione, che risolve lo specifico
contrasto giurisprudenziale ora riproposto), muovano dalla proposizione
dilemmatica incentrata sul quesito se la sentenza di patteggiamento abbia
o no natura di sentenza di condanna.
Le progressioni interpretative sono, sul punto, estremamente significanti.
La Corte delinea l'esistenza di un triplice indirizzo giurisprudenziale
alla cui base è proprio il tentativo di individuazione della natura della
sentenza che applica la pena su richiesta.
Secondo un primo orientamento, il giudice avrebbe dovuto revocare, ai
sensi dell'art. 168, 1° comma, n. 1, c.p., il beneficio della sospensione
precedentemente concesso, o perché la sentenza di patteggiamento
presuppone comunque un accertamento di responsabilita’ ed ha, dunque,
natura di sentenza di condanna, conseguendone l'effetto penale della
revoca del beneficio o perché in ogni caso, pure a prescindere
dall'accertamento di responsabilita’, la revoca della sospensione si
sostanzia in un effetto penale che consegue automaticamente alla sentenza
di patteggiamento, equiparata alla sentenza di condanna e, quindi,
produttiva di tutti gli effetti propri di una simile pronuncia, senza che
tali effetti possano essere neutralizzati dalla base negoziale che
costituisce il fondamento della decisione; stando ad un secondo
orientamento, la sentenza di patteggiamento non può contenere la
statuizione sulla revoca di diritto della sospensione precedentemente
concessa, sia in applicazione del principio della immodificabilita’
dell'accordo delle parti ad opera del giudice (un principio in ordine al
quale si avra’ occasione più avanti di soffermarsi), sia perché la detta
sentenza non implica alcun accertamento positivo e costitutivo di
responsabilita’ dell'imputato, dal momento che si fonda su un accertamento
incompleto, che non comporta una piena verifica cognitiva del fatto; un
terzo orientamento, nel tentare una mediazione tra le prime due linee
interpretative, afferma la necessita’ che la revoca della sospensione
condizionale si conformi alla particolare natura del rito premiale, con la
conseguenza che si dovrebbero ritenere sospesi gli effetti della revoca
disposta con la sentenza di patteggiamento sino al compimento dei termini
di cui all'art. 445, comma 2, c.p.p., sino, cioè, alla scadenza dei
termini per l'estinzione, a date condizioni, del reato per il quale era
intervenuta la sentenza di patteggiamento.
In presenza di tali differenziate opzioni ermeneutiche, le Sezioni unite
dovettero necessariamente incentrare ogni verifica su due profili, tra
loro, peraltro, complementari; vale a dire, la natura della sentenza ed i
presupposti di operativita’ della revoca della sospensione condizionale.
Sotto il secondo aspetto – si è affermato - la revoca di diritto della
sospensione non può prescindere dall'accertamento di una nuova
responsabilita’ penale, che fa venire meno la prognosi di ravvedimento ed
implica un giudizio di immeritevolezza rispetto al quale la revoca della
sospensione assume una funzione sanzionatoria. Una funzione che può essere
concretamente perseguita solo postulando un accertamento “completo” quanto
alla commissione del reato cui è connaturata l'esigenza che la
colpevolezza sia affermata in esito ad un giudizio designato da una plena
cognitio. In altri termini, la revoca è coessenziale al venir in essere
della fattispecie che ne costituisce il presupposto e che si identifica
nella pronuncia di una sentenza di condanna all'esito di un accertamento,
anche qui, “completo” della responsabilita’; senza, peraltro, definire, in
presenza di riti differenziati contrassegnati da modelli processuali
alternativi, quando tale “completezza” venga effettivamente a realizzarsi.
Quanto al primo profilo si è rimarcato come un simile evento non possa
realizzarsi in forza della sentenza di cui all'art. 444 e seguenti c.p.p.
che non presuppone un accertamento pieno ed incondizionato sui fatti e
sulle prove, perché essa ha a fondamento l'applicazione di una pena senza
giudizio, dato che non v'è dichiarazione di colpevolezza e la sua
struttura è connotata dal mero riferimento all'accordo tra le parti sul
merito dell'imputazione.
La conseguenza è, perciò, necessitata: dalla sentenza di patteggiamento
può derivare qualunque altro effetto penale che sia con essa compatibile;
che cioè non implichi l'ineludibilita’ dell'accertamento pieno della
responsabilita’ dell'imputato. Il giudice deve, pertanto, con la sentenza
di cui all'art. 445 c.p.p., ad esempio, applicare quei provvedimenti
sanzionatori di carattere specifico previsti da leggi speciali, che, data
la loro natura amministrativa ed atipica (tra questi, l'ordine di
demolizione della costruzione senza concessione), non postulano un
giudizio di responsabilita’ penale e seguono di diritto alla sentenza di
patteggiamento in virtù dell'equiparazione, nei limiti di compatibilita’,
alla sentenza di condanna. L'effetto penale della revoca della sospensione
condizionale precedentemente concessa è un effetto incompatibile con la
sentenza che applica una pena concordata dalle parti, perché essa non si
fonda sull'accertamento pieno di responsabilita’.
Anche a prescindere dalle argomentazioni critiche rivolte a tale sentenza
dalla dottrina, un dato ermeneutico – che subito si segnala, perché esso
implica notevoli perplessita’ - pare per la prima volta emergere dalla
decisione in esame; quello, cioè, secondo cui l'equiparazione della
sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna è proposizione
normativa non definibile in termini di stretta interpretazione; nel senso
che, pur avendo l'art. 445, comma 1, ultima parte, “equiparato”, salve
“diverse disposizioni di legge”, la sentenza che applica la pena su
richiesta ad una sentenza di condanna, tale equiparazione non è
incondizionata dovendo confrontarsi con la compatibilita’ degli effetti
della sentenza di patteggiamento con quelli propri della sentenza di
condanna.
A ben vedere, però, l'argomento di fondo per pervenire all'effetto
preclusivo è uno di quelli che, pur penetrando davvero in medias res,
sembra in gran parte discostarsi dai principi affermati dalla sentenza Di
Benedetto.
Presupposto per la revoca di diritto della sospensione condizionale è
l'accertamento della responsabilita’ che, facendo venir meno la prognosi
di ravvedimento a suo tempo espressa, comporta un giudizio di
immeritevolezza rispetto al quale la revoca della sospensione si pone come
misura di tipo sanzionatorio. Ma tale giudizio richiede necessariamente un
accertamento di responsabilita’ dotato di quelle caratteristiche di
completezza conseguibili solo a mezzo di una sentenza che sia pronunciata
a conclusione di un “giudizio, con plena cognitio del reato e della pena”.
La decisione richiama - per la verita’, ribaltandolo, con riverberi
ermeneutici agevolmente intuibili - il regime della equiparazione, tanto
da rendere eccezionale quella che l'art. 445, comma 1, definiva un assetto
configurato normativamente come immancabile, salvo diverse disposizioni di
legge. Ed è estremamente significativo riscontrare come la decisione in
esame, lungi dall'evocare trattamenti incompatibili con una pronuncia di
condanna non derivanti dal regime premiale delineato dall'art. 445, comma
1, faccia riferimento, per delimitare concettualmente l'equiparazione
dalla identificazione, proprio all'assenza di “alcuni effetti tipici della
sentenza di condanna, quali il pagamento delle spese processuali,
l'applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza”.
Ciò senza contare i profili teleologici che attengono, nello specifico, al
precetto dell'art. 168, 1° comma, n. 1, c.p. che - come è stato osservato
– sono speculari alla dinamica della sospensione condizionale della pena.
Tanto che, così come la concessione del beneficio presuppone un giudizio
di “meritevolezza” derivante da una prognosi di non recidivanza, la revoca
della sospensione è, a sua volta, funzionale ad una prognosi di “non
meritevolezza” destinata a demolire il giudizio precedentemente formulato.
Cosicché è ancora all'elemento normativo che occorre riferirsi al fine di
pervenire a quel giudizio di valore sopra rammentato. L'equiparazione non
può essere diversamente intesa se non considerando che all'esito della
procedura speciale viene applicata una pena; con la conseguenza che –
anche superando i profili definitori incentrati sulla natura della
sentenza – diviene costituzionalmente necessitato il giudizio negativo
insito nella decisione resa sull'accordo delle parti, non foss'altro alla
stregua del precetto dell'art. 27, secondo e terzo comma, della
Costituzione, secondo il modello gia’ disegnato dalla sentenza
costituzionale n. 313 del 1990.
6. Le medesime argomentazioni sono poste a base della immediatamente
successiva decisione, pronunciata in forza della rimessione,
significativamente vicina nel tempo, della medesima questione alle Sezioni
unite che ribadiscono – per di più ampliandone la valenza interpretativa -
i principi di diritto gia’ espressi nella precedente decisione (Sez. un.,
26 febbraio 1997, Bahrouni).
Proprio perché – si afferma - la sentenza di patteggiamento non è
preceduta da un accertamento pieno e completo sulla sussistenza del fatto
reato e sulla riconducibilita’ dello stesso all’imputato, essa non può
giustificare la revoca della sospensione condizionale che postula sempre,
anche quando segue alla doverosa ricognizione di una decadenza dal
beneficio ope legis, un accertamento completo in ordine alla colpevolezza.
Una sentenza che può intervenire in uno stadio iniziale delle indagini
preliminari, quando agli atti del fascicolo vi è poco più di una notizia
di reato o anche solo la semplice notizia di reato; e che, quindi, si
fonda solo su una “mera ipotesi”, con un’eccentricita’ evidente rispetto
alle ordinarie sentenze di condanna. Il giudice – è vero - dispone di
poteri di controllo sull'accordo delle parti, che non possono dirsi
“notarili”, ma gli è comunque precluso di indagare sulle determinazioni
che hanno indotto l'imputato ad una siffatta scelta.
Il controllo giudiziale è - si afferma - meramente estrinseco, limitato
alle risultanze disponibili e sempre condizionato dal contenuto
dell'accordo. La richiesta dell'imputato, o il suo consenso alla richiesta
di pena formulata dal pubblico ministero, non significano – anche qui - un
riconoscimento, sia pure implicito, di responsabilita’, perché
l'ammissione di non disporre, allo stato, di elementi utili per dimostrare
l'insussistenza del reato non equivale ad un riconoscimento della
colpevolezza, secondo un regime comprovato sia dall'assenza di ogni
effetto giuridico della richiesta di pena non condivisa dall'altra parte o
anche della congiunta richiesta poi non accolta dal giudice sia dalla
doverosita’ della verifica giudiziale dell'eventuale sussistenza delle
condizioni per un proscioglimento immediato, pur quando il giudice ritenga
che l'accordo tra le parti possa essere accolto. Nel vigente sistema
processuale, incentrato sul principio dell'obbligatorieta’ dell'azione
penale, la dichiarazione confessoria non può mai sollevare il pubblico
ministero dall'onere della prova; né, ancora, può affermarsi, data
l'attribuzione in via esclusiva al giudice dei poteri di accertamento del
reato, che la mancata contestazione del reato stesso da parte
dell'imputato tenga luogo dell'accertamento della responsabilita’.
L'equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna
rileva soltanto nell'ambito degli aspetti positivi dell'affinita’, e
quindi soltanto per l'applicazione della pena, dissolvendosi in
riferimento all'altra componente essenziale della sentenza di condanna,
che è l'accertamento della responsabilita’. Non a caso, infatti, l'art.
445, nell'indicare gli incentivi premiali, escludendone altri in deroga
alla disciplina generale degli effetti penali della condanna, si riferisce
soltanto a quelli che, correlati all'applicazione della pena, sarebbero
rientrati nell'ambito dell'equiparazione della sentenza di patteggiamento
alla sentenza di condanna, non potendo la norma prendere in esame effetti
che mai sarebbero potuti derivare per l'assenza nella sentenza di
patteggiamento della componente essenziale da cui promanano, e cioè
l'accertamento della responsabilita’. La revoca della sospensione
condizionale della pena non poteva essere compresa tra gli effetti penali
esclusi, in funzione incentivante, in caso di patteggiamento, perché essa
è un effetto estraneo alla previsione della norma dell'art. 445 c.p.p,
correlato non gia’ all'applicazione della pena ma all'accertamento di
responsabilita’.
Le Sezioni unite, ricordato che l'art. 445, comma 1, con l'indicare gli
incentivi premiali diretti a favorire l'accesso a quel tipo di
procedimento, escludendo alcuni di essi, “si riferisce soltanto a quelli
che, per essere correlati all'applicazione della pena e non gia’ al
riconoscimento di responsabilita’ dell'indagato, non potevano che
conferire, a pieno titolo, nell'ambito operativo di quel rapporto di
affinita’ che dalla stessa norma era stato riconosciuto tra il
provvedimento conclusivo di quel procedimento speciale e la categoria
della sentenza di condanna”, ne fanno derivare che “una deroga alla
disciplina generale concernente gli effetti di una pronuncia di condanna
in tanto poteva essere razionalmente ideata e organicamente disposta in
quanto quegli stessi effetti potessero avere una loro concreta
possibilita’ di attuazione e, quindi, potessero trarre origine dal
contenuto del provvedimento al quale si ricollegano”.
La conclusione è, dunque, nel senso che l'art. 445, comma 1, non può che
riferirsi ad effetti che sarebbero potuti derivare dalla sentenza di
applicazione di pena; così, da un lato, enucleando il regime delle deroghe
rispetto alla disciplina comune delle sentenze di condanna, dall'altro
lato, inferendone che l'inserimento, quale norma di chiusura, del
principio di equiparazione è da intendere “pur sempre nell'ambito di quel
rapporto di equiparazione che in tanto era giustificato in quanto poggiava
su una componente costante della pronuncia di condanna, e cioè
l'applicazione di una sanzione penale”.
L'assetto così congegnato ha avuto il merito di chiarire il valore
significante del regime di equiparazione, se intimamente ricollegato alle
identita’ piuttosto che alle diversita’ di contenuto fra sentenza di
applicazione della pena e sentenza di condanna. Con corrispondente
riduzione di tali effetti, pur indicati in via esemplificativa, a quelli
operanti nella fase esecutiva di una sentenza di condanna.
D'altro canto, appare forse esorbitante una eccessiva concettualizzazione
della natura della pronuncia al fine di risolvere lo specifico quesito
sottoposto all'esame delle Sezioni unite. Non va dimenticato che la regola
stabilita dall'art. 168, 1° comma, n. 1, c.p. sta a designare una revoca
caratterizzata da profili meramente formali perché tale norma prevede la
“revoca di diritto” qualora nei termini stabiliti il condannato (nel
processo che si è concluso con l'applicazione del benefici) commetta un
delitto per il quale venga inflitta una pena detentiva. Il che sta a
significare che la pronuncia si sostanzia in una decisione di mero
accertamento di un decadenza che si è verificata di diritto al momento
stesso della formazione del giudicato della sentenza di condanna per il
reato commesso nel termine di esperimento. Il tutto in sintonia con la
costante giurisprudenza di questa Corte che annovera la revoca della
sospensione condizionale della pena tra gli effetti penali della condanna
(cfr. Sez. un., 20 aprile 1994, Volpe) intesi come quegli effetti, dei
quali il codice penale non fornisce la nozione né indica il criterio
generale che valga a distinguerli dai diversi effetti di natura non penale
che pure sono in rapporto di effetto a causa con la pronuncia di condanna,
si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza
irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti come quelli
discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi nella
condanna il necessario presupposto, per la natura sanzionatoria
dell'effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello del diritto
penale sostantivo o processuale; con la conseguenza che la revoca della
sospensione condizionale della pena ha per presupposto necessario la
pronuncia di una sentenza di condanna, non il mero accertamento di un
fatto costituente reato.
Ne deriva allora che sia la decisione Di Leo sia la decisione Bahrumi
rischiano di enfatizzare a dismisura la lettera dell'art. 168, 1° comma,
n. 1, c.p., vale a dire l'accertamento della responsabilita’ penale che si
ritiene insito nell'espressione “commetta un delitto ovvero una
contravvenzione della stessa indole per cui venga inflitta una pena
detentiva”, così da trascurare che il nodo cruciale da affrontare non è
tanto l'accertamento di responsabilita’ quanto il regime di equiparazione.
6. Le Sezioni unite (Sez. un., 22 novembre 2000, Sormani) sono
intervenute, ancora una volta, sulla medesima questione, specificamente
nella prospettiva di una presunta contraddizione tra l'affermazione della
non revocabilita’ della sospensione precedentemente concessa in caso di
applicazione di pena patteggiata e l'affermazione della non concedibilita’
della sospensione in caso di successiva condanna una volta che lo stesso
soggetto sia gia’ stato destinatario della sospensione di una pena
applicata su richiesta, sempre che, ovviamente, siano superati i limiti di
pena previsti dall'art. 163 per la concessione della sospensione
condizionale.
Si ribadisce che la denunciata contraddizione non appare esistente, pur
potendo discutersi (ed è la prima proposizione problematica riferibile
alla specifica materia) se la sentenza di patteggiamento sia o non sia una
sentenza che accerta e afferma la responsabilita’. La natura della
sentenza di patteggiamento non incide, infatti, in alcun modo sul regime
dell'impossibilita’ di reiterazione del beneficio della sospensione,
avendo tale impossibilita’ il suo fondamento non nell'accertamento della
responsabilita’ ma nell'applicazione della pena, e quindi proprio nella
pena.
La diversa prospettiva ermeneutica, che potrebbe divenire davvero
dirimente, non va peraltro fraintesa, perché essa viene a profilarsi solo
successivamente all'effettiva enucleazione delle rationes decidendi alla
base della statuizione.
Ricordato che l'impossibilita’ di ottenere la sospensione condizionale in
conseguenza di una o più condanne precedenti costituisce un tipico effetto
penale della condanna, inteso come conseguenza negativa derivante de iure,
le Sezioni unite precisano che la previsione contenuta nell'art. 445
c.p.p., secondo cui in caso di estinzione del reato si estingue ogni
effetto penale, ivi compreso l'impedimento alla concessione di una
successiva sospensione se è stata applicata con la sentenza di
patteggiamento una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva - ripete il
contenuto dell'art. 178 c.p. in tema di riabilitazione, laddove prescrive
che la riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto
penale, salvo che la legge disponga altrimenti. E la legge dispone
altrimenti proprio in tema di sospensione condizionale della pena, nel
senso che, se con la sentenza di patteggiamento è stata applicata una pena
detentiva, di questa pena deve tenersi conto ai fini di una successiva
sospensione, anche nel caso di estinzione del reato, così come si verifica
in caso di riabilitazione.
Si ha così che l'effetto penale, per patteggiamento a pena detentiva,
dell'impedimento alla concessione della sospensione in caso di successiva
condanna non è attinto dall'eventuale estinzione del reato ed a maggior
ragione non può essere paralizzato prima dell'estinzione.
Dal momento poi che la sentenza di patteggiamento è equiparata dalla legge
alle sentenze di condanna, essa comporta la revoca della sospensione
condizionale nel caso regolato dall’art. 168, 1° comma, n. 2, c.p., ossia
quando è riportata un'altra condanna per un delitto anteriormente
commesso, con irrogazione di una pena che, cumulata a quella
precedentemente sospesa, supera i limiti previsti dall'art. 163 c.p. In
questo caso, infatti, presupposto della revoca non è - come nell’ipotesi
di cui all’art. 168, 1° comma, n. 1, c.p. - l'accertamento e
l'affermazione di responsabilita’, ma il mero superamento, per cumulo
delle pene, del limite imposto dall'art. 163 dello stesso codice. La
sospensione condizionale non muta natura e regime allorché sia concessa
con la sentenza di patteggiamento, tanto che potra’ e dovra’ essere
revocata quando, come nel caso contemplato dall'art. 168, comma 1, n. 2,
c.p., non è in rilievo la natura della sentenza di patteggiamento, ma
esclusivamente la misura, la quantita’, della pena inflitta.
Anche il contenuto della sentenza Sormani rivela una certa approssimazione
nel definire gli effetti derivanti dalla equiparazione rispetto a quelli
derivanti dall'identificazione; ciò che più importa, seguendo un modello
ermeneutico attento a valorizzare più le affinita’ che le differenze.
9. La conferma di una certa vischiosita’ interpretativa che contrassegna
le soluzioni ermeneutiche delle Sezioni unite di questa Corte è
riscontrabile solo alla luce di quella giurisprudenza che, proprio dalla
natura della decisione che applica la pena su richiesta, ricava
conclusioni, ancora una volta, in merito alla interpretazione del precetto
dell'art. 445, comma 1, ultima parte.
Chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale circa l'applicabilita’,
a seguito di sentenza di patteggiamento, di sanzioni amministrative
accessorie, quale la sospensione della patente di guida, le Sezioni unite,
dopo aver ricordato che il parametro per l'accertamento da cui consegue
l'applicazione e la determinazione della misura della sanzione, in
concreto non possono essere diversi da quelli previsti in generale per l'autorita’
amministrativa, hanno precisato che, poiché la formula “accertamento del
reato” adottata dalla legge per l'applicazione di sanzioni amministrative
accessorie in conseguenza di un reato deve intendersi nel senso che è
istituito un collegamento tra l'effetto automatico dell'applicazione della
sanzione accessoria ed un esito del procedimento penale “che presuppone un
fatto al quale accede la sanzione amministrativa”, ne hanno tratto la
conclusione che un simile accertamento non è escluso nella procedura
dell'applicazione di pena su richiesta solo considerando che il giudice è
tenuto a controllare la legalita’ dell'accordo tra le parti, con
l'apprezzamento nella verifica di corrispondenza del fatto alla
fattispecie, degli aspetti che “la norma speciale tiene in considerazione
ai fini dell'applicazione della sanzione amministrativa” (Sez. un., 27
maggio 1998, Bosio).
Al di la’ del richiamo alla tipologia di accertamento, non è difficile
riscontrare come l'effettiva ratio decidendi che è a fondamento di tale
pronuncia risulti accentrata proprio sull'equiparazione alla sentenza di
condanna della sentenza che applica la pena. Secondo un canone, del resto,
perseguito pure dalla statuizione stando alla quale anche nel procedimento
di applicazione della pena su richiesta, in caso di connessione tra reato
e violazione non costituente reato, il giudice competente a conoscere del
reato è competente a decidere sulla violazione non costituente reato e ad
applicare la sanzione per essa stabilita; in tale procedimento, infatti,
il giudice accerta l'intero fatto, pur nei limiti della sua cognizione
allo stato degli atti (Sez. un., 21 giugno 2000, Cerboni).
Pare evidente che le statuizioni della sentenza Di Benedetto quanto
all'interpretazione da assegnare all'art. 445, comma 1, ultima parte,
risultino decisamente sfumate da tali decisioni, a cui fondamento sembra
inserirsi l'endiadi sentenza di condanna-sentenza equiparabile ad una
sentenza di condanna, non tanto in relazione alla natura della decisione
quanto con riguardo alla tipologia di effetti compatibili con la semiplena
cognitio che contrassegna la sentenza di patteggiamento.
10. Entro la medesima prospettiva viene superato anche l'ostacolo
derivante dall'assenza di un contenuto di accertamento proprio della
sentenza che applica la pena rispetto alla dichiarazione di falsita’ di
documenti ex art. 537 c.p.p.
Questa Corte aveva pressoché costantemente statuito che con la sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti il giudice è tenuto a
dichiarare la falsita’ di atti o documenti accertata nel corso del
giudizio (Sez. V, 22 aprile 1998, Chessa; Sez. V, 9 marzo 1993, Di Russo;
Sez. VI, 4 luglio 1992, Cinque; Sez. VI, 4 luglio 1992, Cognoli; Sez. VI,
4 luglio 1992, Lucaferri), trattandosi di sentenza equiparata ad una
sentenza di condanna; e ciò indipendentemente dalle pattuizioni delle
parti (Sez. V, 26 aprile 1999, Marciante; Sez. V, 13 febbraio 1996,
Strali) e dal riconoscimento della penale responsabilita’ dell'imputato (Sez.
V, 23 giugno 1998, Di Sarno; Sez. V, 19 marzo 1992, Galoppo). Un simile
orientamento interpretativo costituiva, dunque, l'espressione di un vero e
proprio diritto vivente, nonostante i problemi di compatibilita’ con la
giurisprudenza delle Sezioni unite penali sopra rammentata, secondo cui la
sentenza pronunciata a norma dell'art. 444 c.p.p. non è una vera e propria
sentenza di condanna.
In presenza di un virtuale contrasto giurisprudenziale e di profonde
perplessita’ da parte della dottrina, attenta a rimarcare come il
patteggiamento rappresenti comunque un giudizio allo stato degli atti, un
modello del tutto incompatibile con la decisione di cui all'art. 537
c.p.p. che postula una pronuncia – sia di condanna sia di proscioglimento
- che accerti la falsita’ del documento, le Sezioni unite hanno enunciato
il principio di diritto in base al quale con la sentenza di applicazione
della pena su richiesta delle parti, che è decisione equiparata ad una
sentenza di condanna, il giudice è tenuto a dichiarare, ai sensi del comma
1 dell'art. 537 c.p.p., l'accertata falsita’ di atti o di documenti,
precisando che la dichiarazione di falsita’ prescinde dall'affermazione
della penale responsabilita’ dell'imputato, essendo fondata esclusivamente
sull'accertamento - che si rende possibile anche nel giudizio speciale di
patteggiamento, pur nei limiti di una cognizione "allo stato degli atti" -
della non rispondenza al vero dell'atto o del documento (Sez. un., 27
ottobre 1999, Fraccari).
La giurisprudenza di questa Corte fa, dunque, ritenere incontrastata la
possibilita’ di dichiarare la falsita’ di documenti anche in conseguenza
di una sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti, se e
sempreché al summatim conoscere che designa una simile procedura faccia da
riscontro l'avvenuto accertamento della falsita’ che il giudice è – come
per ogni altra statuizione – tenuto a motivare, così da consentire il
sindacato sulle sue statuizioni accessorie.
La decisione non consente alternative. Per un verso, infatti, la legge non
prevede strumenti che tendano a risolvere le (solo apparenti) antinomie
derivanti dalla statuizione del giudice investito della cognizione del
reato (in una logica assolutamente antitetica a quella corrispondente
all'accertamento della responsabilita’, che presuppone comunque, in tema
di falso, proprio l'accertamento della non rispondenza al vero dell'atto o
del documento); per un altro verso, la soppressione dell'incidente di
falso ha relegato i compiti di accertamento della falsita’ ad un ruolo
meramente incidentale (cfr. art. 241 c.p.p.) al di fuori dell'orbita
dell'art. 537 c.p.p.
Ma il richiamo all'assoluta compatibilita’ tra una sentenza che non
pronuncia la condanna dell'imputato e l'accertamento di non rispondenza al
vero dell'atto o del documento appare davvero dirimente; per di più, in un
regime che consente l’applicazione della norma adesso ricordata anche nel
caso di proscioglimento.
La decisione sembra contenere, però, un ulteriore significativo argomento:
quello, cioè, relativo al potere attribuito al giudice, nell'ambito della
procedura di cui all'art. 444 e seguenti c.p.p. di accertare i fatti e di
valutare il merito – sia pure, almeno così sembra di comprendere, non per
la via del mero accertamento incidentale – senza che ciò comporti la
necessaria finalizzazione all'affermazione di colpevolezza dell'imputato e
alla pronuncia di condanna (in tali termini, Sez. un., 27 ottobre 1999,
Fraccari).
10. Una difformita’ di indirizzi interpretativi si è registrata in merito
alla questione della sottoponibilita’ a revisione delle sentenze di
patteggiamento, ad ulteriore conferma di come l'eccentricita’
dell'istituto abbia generato non pochi problemi alla ricerca di una
difficile compatibilita’ con i principi di fondo dell'ordinamento
processuale.
Alla luce delle acquisizioni in punto di ontologica diversita’ tra la
sentenza di patteggiamento e la sentenza di condanna, per l'assenza nella
prima di un accertamento del reato e di un giudizio di colpevolezza, oltre
che della giurisprudenza costituzionale che le ha espressamente negato la
natura di sentenza di condanna, le Sezioni unite (Sez. un., 25 marzo 1998,
Giangrasso) hanno escluso che la sentenza con la quale viene applicata una
pena su richiesta possa essere assoggettata a revisione, sul presupposto
che sono soggette a revisione solo le pronunce di condanna con
accertamento pieno ed incondizionato dei fatti e delle prove.
È apparso allora ragionevole negare la revisione delle sentenze di
patteggiamento rispetto alle quali è strutturalmente impossibile. In
assenza di un conflitto di prove non può darsi luogo ad un raffronto tra
un nuovo significativo materiale probatorio e l'inesistente acquisizione
probatoria che ha preceduto l'adozione della sentenza di patteggiamento,
pronunciata, per espressa previsione di legge, sulla base degli atti, che
appunto non sono prove. Una volta che l'imputato rinuncia al diritto alla
prova in cambio di un vantaggioso trattamento penale, non è possibile che
sia posto in condizione di sottrarsi ai rischi della sua scelta con un
indebito trattamento di favore rispetto al pubblico ministero che, formato
l'accordo sulla pena, non ha più possibilita’ di articolare la prova per
contrastare l'iniziativa di revisione. Sarebbe poi fortemente
contraddittorio che il sistema consentisse un giudizio, con la revisione
della sentenza, dopo avere con l'accordo delle parti impedito il giudizio.
L'utilizzazione dell'endiadi sentenza equiparabile-sentenza non
equiparabile a una sentenza di condanna - e sotto tale profilo la ratio
decidendi si rivela solo in parte analoga a quella a base della decisione
in tema di revoca della sospensione condizionale della pena ex art. 178,
1° comma, c.p. – viene a collocarsi in una posizione di diretta antinomia
con la norma complementare che prevede la revisione. Quel che è opportuno
ricordare è che in tale caso il criterio della “incompatibilita’
ontologica”, latente in numerose decisioni delle Sezioni unite che non
hanno ravvisato nella disposizione dell'art. 445, comma 1, una norma di
stretta interpretazione – viene utilizzato, questa volta in malam partem,
inibendo l'accesso al mezzo straordinario di impugnazione per non potersi
definire la sentenza che applica la pena su richiesta una decisione di
condanna. Per la verita’, dalle statuizioni delle Sezioni unite emerge
soprattutto la preoccupazione di rendere compatibile il regime della
revisione con una sentenza fondata sul summatim conoscere che caratterizza
la procedura designandola di aspetti assolutamente peculiari, considerata
l'assenza di una plena cognitio condizionante ogni possibilita’ di
qualificare la sentenza ex art. 444 e seguenti c.p.p. come una sentenza di
condanna. Sarebbe stata, forse, molto più agevole una lettura della norma
sulla base delle coordinate costituzionali che sono a base del giudizio di
revisione per pervenire ad una soluzione di diverso tipo, peraltro
corrispondente all'interpretazione seguita dalla giurisprudenza allora
prevalente. Ciò anche considerando che il modello procedimentale risulta
in gran parte ridimensionato ai fini sopra indicati solo riflettendo sulla
possibilita’ di accedere alla revisione nei confronti del decreto penale
divenuto esecutivo. Tanto da inferirne che solo apparentemente è il
modello procedimentale a precludere il ricorso alla revisione e ad
individuare l'effettiva ratio decidendi a fondamento della linea seguìta
dalle Sezioni unite e che può sintetizzarsi nella ravvisata esistenza di
una costruzione legislativa di un regime di equiparazione “a determinati
fini”, così assegnando una ridondante valenza ermeneutica al modello
ontologico pur in presenza del chiaro regime di equiparazione. Del resto,
la demolizione di quel che si è definito sistema di “incompatibilita’
ontologica” (presupposto per la equiparazione circoscritta “a determinati
fini”) sara’ destinata a rivelarsi la risultante di scelte normative –
assunte, per di più, nonostante il chiaro precetto dell'art. 445 comma 1 –
come è dimostrato dall'introduzione della disciplina della revisione anche
con riferimento alla sentenza che applica la pena su richiesta, in forza
dell'art. 3 della legge n. 134 del 2003.
E'evidente, allora, come la sentenza delle Sezioni unite in tema di
revisione assuma valenza interpretativa ancor più significante rispetto
alla decisioni della Corte di cassazione nella sua più ampia composizione
sulla problematica ora all'esame della Corte. Le conseguenze afflittive
(prima fra tutte l'applicazione della pena) sono sottratte al mezzo
straordinario di impugnazione, nonostante l'attenzione da parte della
dottrina e della giurisprudenza alla necessita’ di plasmare l'istituto
della revisione alla stregua delle peculiarita’ del rito, contrassegnato
da una verifica di procedibilita’ legata esclusivamente al precetto
dell'art. 129 dello stesso codice.
Quel che, peraltro, occorre qui rimarcare è che in tema di revisione le
Sezioni unite hanno esplicitato il rifiuto del principio di equiparazione,
per giunta direttamente ricollegandolo al profilo negoziale, quasi che il
corredo di incentivi premiali conseguenti alla “rinuncia a contestare
l'accusa” implichi la forzata rimozione all'accesso ad ogni strumento
impugnatorio in grado di restituite la verita’ dei fatti nella sua
concreta effettivita’. Una soluzione di davvero poco agevole comprensione
e che si rivela doppiamente contrastante con i principi costituzionalie
sopra ricordati; per un verso, perché il regime convenzionale non può,
nell'ottica della Corte, costituire il presupposto per una decisione “in
ipotesi”, ontologicamente incompatibile con il mezzo straordinario di
impugnazione; per un altro verso, perché è l'assetto negoziale a supplire
– salvo i limiti derivanti dal controllo da parte del giudice della
cognizione – a verifiche postume rigororosamente procedimentalizzate in
grado di dissolvere il patto e di ricondurre il giudicato alla realta’
probatoria accertata nel postgiudicato.
12. Passando ad esaminare ora lo ius novum, va subito rammentato che le
prime vere e proprie innovazioni del quadro normativo riguardanti
l'istituto dell'applicazione della pena su richiesta si devono alla legge
16 dicembre 1999, n. 479. E si tratta di interpolazioni prescrittive di
non trascurabile rilievo; pur dovendosi convenire che struttura e funzione
del patteggiamento restino, nel loro nucleo essenziale, apparentemente
indifferenziati rispetto alla precedente disciplina.
Nonostante le “novellazioni” derivino direttamente da statuizioni
demolitorie ultranovennali della Corte costituzionale (più in particolare
dalle sentenze 313 del 1990 e 443 del 1990), è significativo rimarcare
come le varianti apportate al testo originario, che hanno rimodellato il
precetto dell'art. 444, comma 3, con l'introduzione della previsione
espressa del giudizio sulla “congruita’ della pena” e della condanna
dell'imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte
civile assumamo valenza molto più significante rispetto a quanto la
corrente interpretazione dell'istituto lasci intravedere. E ciò, non tanto
per il contenuto del detto rimodellamento, quanto perché esso viene in
essere in presenza di quel – più volte evidenziato – sincretismo
interpretativo che aveva contrassegnato, negli anni successivi al 1990,
l'individuazione della misura e dei limiti del controllo del giudice
sull'assetto predisposto dalle parti; così, quasi da ricondurre il punto
di rilevanza ermeneutica – con intuibili riverberi anche sulla natura
della sentenza di applicazione della pena – al contenuto delle
affermazioni di principio incentrate sul “primato” del controllo
giurisdizionale rispetto alla regolamentazione negoziale che costituisce
il presupposto del procedimento. Una canonizzazione legislativa –
soprattutto quella riguardante la congruita’ della pena - che, per lo
stesso contesto in cui veniva ad assumere valenza esponenziale,
rappresentava, proprio per il momento in cui era stata introdotta, un dato
ineludibile per il legislatore futuro; un punto fermo in grado di
condizionare ogni ulteriore rimodulazione dell'istituto. Senza voler qui
anticipare i complessi profili problematici cui dara’ vita la “novella”
del 2003, il “ritorno al passato” alla base della legge n. 479 del 1999
esprime una scelta assolutamente significante, rispetto ad una
giurisprudenza costituzionale ed ordinaria oscillante sulla prevalenza del
metodo interpretativo, assegnandola - quale condizione per la stessa
validita’ dell'accordo - ora all'assetto negoziale ora al momento
giurisdizionale. Il giudizio di congruita’, divenuto da criterio
eccezionale operante solo in forza di un accertamento di responsabilita’
secondo lo schema delineato dall'art. 448 c.p.p., diviene così lo
specimen, legislativamente predisposto, di ogni controllo del giudice,
secondo un schema costituzionalmente obbligato.
Si deve, inoltre, alla legge n. 479 del 1999, attraverso l'interpolazione
di alcune disposizioni del titolo II del libro VI, in grado di imporre la
definizione consensuale del procedimento seguendo un disegno analogo a
quello previsto per il giudizio abbreviato, allo scopo di evitare tardivi
mutamenti di rotta in limine iudici, l'accentuazione dei profili in grado
di accomunare maggiormente il regime dei riti di risoluzione anticipata.
In più, le disposizioni, marcatamente deflattive cui si ispira
l'intervento del legislatore, hanno suggerito la contestuale
predisposizione di un meccanismo di recupero postumo dell'applicazione
della pena proprio nella fase introduttiva del giudizio dibattimentale per
l'imputato che sia intenzionato a rinnovare la richiesta di
patteggiamento, anche diversamente articolata, prima della dichiarazione
di apertura del dibattimento. La peraltro alquanto epidermica,
rimodellazione del rito non ha prodotto gli effetti sperati; tanto – sia
detto per inciso - da far dubitare che il congegno così predisposto sia in
grado di attuare quella ragionevole durata del processo alla base delle
varianti adesso rammentate.
13. Come è noto, il testo originario dell'art. 445, comma 2, c.p.p.
prevedeva che la sentenza di applicazione della pena, anche quando è
pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei
giudizi civili o amministrativi. Un precetto interpretato ora come
istitutivo di un premio-incentivo per la scelta di un modello deflattivo
ora come conseguenza “naturale” di tale tipo di sentenza considerato che
la decisione non contiene un'affermazione di responsabilta’; pure se
nell'ipotesi prevista dall'art. 448 diviene difficile giustificare la non
identificazione di una simile pronuncia, adottata all'esito del
dibattimento, con una sentenza di condanna. Sennonché, il modello
prescelto dal legislatore sembrerebbe propendere per la ratio premiale,
come pare dimostrato dalla prescrizione secondo cui quando la sentenza è
pronunciata nel giudizio di impugnazione, il giudice decide sull'azione
civile a norma dell'art. 578 c.p.p.
D'altro canto, il regime previsto dall'art. 651 c.p.p. ha riferimento alla
sola sentenza pronunciata in esito a dibattimento (o a giudizio
abbreviato, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia
accettato il giudizio abbreviato); seguendo un modello che, peraltro, va
valutato in chiave di esclusivo diritto positivo, da non ricollegare
necessariamente alla definizione del procedimento in contraddittorio. Lo
comprova la circostanza che il codice di procedura penale del 1930
prevedeva l'efficacia del decreto penale di condanna anche nei giudizi
civili o amministrativi per le restituzioni o il risarcimento del danno.
Ne discende, dunque, che – così come per il decreto penale (art. 460,
comma 5) – la scelta del legislatore prescinde da dati sistematici (o,
addirittura, da profili ontologici) per predisporre, invece, una
disciplina-incentivo (come sembra desumersi dall'art. 651, da
interpretare, sul punto, in stretta correlazione sia con l'art. 445 sia
con l'art. 460).
A confermare univocamente le considerazioni che precedono diviene davvero
pertinente il richiamo alla legge 27 marzo 2001, n. 97, che ha modificato
il regime dei rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo
disciplinare – per quel che qui direttamente interessa – sotto un duplice
ordine di profili. A parte l'equiparazione della sentenza di assoluzione
pronuciata a seguito di dibattimento a quella pronunciata in esito a
giudizio abbreviato o di non luogo a procedere, nell'art. 653 c.p.p. è
stato inserito un comma 1-bis che sancisce l'efficacia di giudicato delle
sentenze penali irrevocabili di condanna nel giudizio per responsabilita’
disciplinare davanti alle pubbliche autorita’ quanto all'accertamento
della sussistenza del fatto, della sua illiceita’ penale e
all'affermazione che l'imputato l'abbia commesso. A sua volta, l'art. 2
della legge n. 97 del 2001 aveva inserito nel secondo periodo dell'art.
445, comma 1, riguardante gli effetti extra penali della sentenza di
patteggiamento, le parole “Salvo quanto previsto dall'art. 653” (v., ora
l'art. 445, comma 1-bis).
Da ciò è dato rilevare, dunque, che – almeno ai fini disciplinari - il
combinato disposto dei precetti ora ricordate lascia ampi spazi di
riflessione sul tema della natura della sentenza di patteggiamento anche
ai fini del quesito ora al vaglio della Corte.
Si vuol dire, cioè, che l'efficacia extra moenia della sentenza che
applica la pena su richiesta (sia pure circoscritta all'ambito della sola
responsabilita’ disciplinare) travalica lo stesso ambito dell'efficacia
extra penale della sentenza penale, tradizionalmente limitata (v. artt. 3,
21, 27 e 28 c.p.p. del 1930) alla sentenza pronunciata in esito a
dibattimento; con in più seguendo lo schema corrispondente all'efficacia
della sentenza penale di condanna nel giudizio di danno derivante da
reato. Il contenuto di “accertamento” ricavabile dal precetto dell'art.
653, comma 1-bis, appositamente richiamato dall'art. 445, comma 1-bis, non
potrebbe mai designare una decisione in ipotesi di responsabilita’,
rivelando invece l'intento del legislatore di sottrarre dalla disciplina
derogatoria (ma secondo canoni che eccedono lo stesso ordinario assetto
degli effetti extra penali della sentenza di condanna, che avrebbe
giustificato l'avverarsi dell'effetto extra penale della sola sentenza
“pronunciata dopo la chiusura del dibattimento”) gli effetti della
sentenza che applica la pena su richiesta delle parti. Con ciò confermando
la stretta interpretazione del precetto dell'ultimo periodo dell'ora
ricordato art. 445, comma 1-bis ed il contenuto di accertamento che
contrassegna anche la decisione che applica la pena su richiesta.
Il valore innovativo della disposizione – che rappresenta, quali che
possano essere state le finalita’ perseguite dal legislatore, il vero
punto di passaggio verso una effettiva rimodulazione del patteggiamento –
non pare in alcun modo scalfito dalla sentenza costituzionale n. 394 del
2002, che ha dichiarato l'illegittimita’ dell'art. 10, comma 1, della
legge n. 97 del 2001, nella parte in cui prevede che gli artt. 1 e 2 della
stessa legge si riferiscono anche alle sentenze di applicazione di pena su
richiesta pronunciate anteriormente alla sua entrata in vigore.
Tale decisione, infatti, nel suo riferirsi al solo regime intertemporale,
gia’ resta designata da limiti intrinseci alla sua stessa valenza
demolitoria; ma è la ratio decidendi che ne costituisce la base
argomentativa a rivelare come la Corte non abbia mancato di cogliere il
valore addirittura dirimente della innovazione; una caratteristica che,
certo, avrebbe – a regime – determinato, come è dato inferire dall'assetto
complessivo della statuizione, conclusioni di diverso tipo.
La Corte, infatti, pur insistendo sulla “componente negoziale” tipica del
patteggiamento, ha dichiarato illegittima la detta disposizione per avere
escluso il “beneficio” anche successivamente alla sentenza di
patteggiamento, tanto da modificare in peius “effetti salienti
dell'accordo suggellato” dalla sentenza di applicazione di pena su
richiesta; così seguendo un modello che assegna valenza esponenziale al
profilo dell'accordo tra pubblico ministero e imputato sul merito
dell'imputazione. L'imputato, cioè, è posto di fronte ad un'alternativa
che investe principalmente il suo diritto di difesa: concordare la pena ed
uscire rapidamente dal processo ovvero esercitare la facolta’ di
contestare l'accusa. Cosicché, in forza della normativa denunciata, viene
attribuito al consenso prestato l'ulteriore significato “di una rinuncia
alla difesa anche nel successivo procedimento disciplinare”.
Una decisione, dunque, che pur accentuando ancora una volta il profilo
negoziale, sembra lasciare integra – anzi, pare rafforzare la percezione
di un mutamento di fondo del regime della sentenza che applica la pena su
richiesta - ogni riflessione sulla tipologia di accertamento giudiziale e
sugli elementi, di merito, cui si riferisce l'art. 653, comma 1-bis, e
sulle modalita’ attraverso le quali è possibile al summatim cognoscere che
circoscrive i poteri di controllo del giudice del patteggiamento, una
efficacia extra moenia così penetrante. Senza contare la natura
esclusivamente “premiale” – quindi non intrinseca alla tipologia del rito
– da riconnettere all'assenza di efficacia della sentenza che applica la
pena nei giudizi civili e negli altri giudizi amministrativi.
14. Come è noto, in forza della legge 11 giugno 2003, n. 134, l'istituto
dell'applicazione della pena su richiesta delle parti ha decisamente
cambiato pelle. Lo schema negoziale rimasto apparentemente illeso, sembra
però, in certo senso, bilanciato dall'elevazione della pena massima per
accedere al procedimento nella misura di anni cinque di reclusione soli o
congiunti con pena pecuniaria.
Dall'esame dell'assetto normativo una prima considerazione appare davvero
pertinente: se si vuole mantenere – come sembra necessario – una perfetta
simmetria fra patteggiamento minor e patteggiamento maior, è necessario
inferirne che è a quest'ultimo che occorre riferirsi come lo specimen del
patteggiamento, pure perché le novazioni più significanti concernono
entrambi gli istituti (si pensi al nuovo regime della confisca e della
revisione); cosicché non pare che il sistema degli incentivi apprestati
per il solo patteggiamento infrabiennale (si allude al regime delle
sanzioni sostitutive, all'esenzione dal pagamento delle spese processuali,
all'inapplicabilita’ delle pene accessorie e delle misure di sicurezza
personali, all'estinzione del reato) valgano a delineare un sistema in
cui, prevalendo le differenze sulle affinita’, ci si trova in presenza di
fenomeni profondamente differenziati; al contrario, sono proprio le
affinita’ che designano i due istituti, non soltanto per il comune schema
negoziale che ne è alla base, ma per l'applicazione della riduzione di
pena, per l'irrilevanza della costituzione di parte civile salvo il
pagamento delle spese di costituzione e difesa della parte civile, per la
non menzione della sentenza nel certificato del casellario giudiziale, per
l'inefficacia della sentenza nei giudizi civili e amministrativi diversi
dai giudizi disciplinari, per l'azionabilita’ della revisione e per il
regime più rigoroso riservato alla confisca.
15. Fatte queste prime precisazioni, va – ancora una volta – ricordato
come il trasferimento dall'art. 448 all'art. 444, comma 2, del criterio di
congruita’ della misura della pena rappresenta un elemento che, per quanto
direttamente scaturente dalle statuizioni della sentenza costituzionale n.
313 del 1990, viene ad acquistare una valenza davvero designante proprio
se preordinata a collegarsi all'elevazione della pena condizionante
l'accesso al procedimento in esame.
L'apparente omogeneita’ del “nuovo” patteggiamento sembrerebbe restare
subito compromessa dalla previsione di talune esclusioni oggettive e
soggettive perché possa essere instaurata la procedura; il tutto se e
sempreché la pena applicata superi i due anni di reclusione.
L'elevazione del tetto di pena per l'introduzione del rito previsto
dall'art. 444 e seguenti c.p.p. non sembrerebbe, infatti – come è stato
rilevato in dottrina – assumere una designazione meramente quantitativa se
posta in relazione con l'art. 111, quarto comma, della Costituzione, solo
osservando che l'elusione del principio del contraddittorio nella
formazione della prova rischia di ribaltare il rapporto regola-eccezione
per una parte da definire addirittura prevalente delle regiudicande
penali. Una constatazione che, peraltro, non inficia in modo decisivo la
tenuta costituzionale dell'istituto nel suo complesso. Non a caso,
infatti, la Corte costituzionale, chiamata a decidere della legittimita’,
in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dell'art. 444 c.p.p.
ha dichiarato non fondata la relativa questione, precisando come la
sottrazione al giudizio ordinario della cognizione di diversi reati di
notevole gravita’ e la paventata riduzione del sistema penale e
processuale “a un luogo di negoziazione che svilisce la funzione
giurisdizionale”, non integra l'elusione del canone della formazione della
prova nel contraddittorio tra le parti, trasformando in principio generale
l'eccezione prevista dall'art. 111, quinto comma, della Costituzione. Ha
osservato la Corte che il sistema protettivo predisposto dal legislatore
nel delineare la disciplina del nuovo patteggiamento, mediante la
predisposizione di preclusioni oggettive e soggettive in relazione alla
gravita’ dei reati ed ai casi di pericolosita’ qualificata dell'imputato,
oltre che in considerazione della non operativita’ di importanti effetti
premiali, consentono di ritenere che la scelta di dilatare l'area di
incidenza dell'istituto rappresenta la risultante della discrezionalita’
del legislatore, certo non esercitata in modo irragionevole (Corte
costituzionale, sentenza n. 134 del 2003).
16. Dalla lettura del complessivo sistema normativo risultante dalla legge
n. 134 del 2003 ne emerge comunque un assetto unitario, contrassegnato da
talune varianti non decisive per inferirne una sorta di asimmetria del
rito, solo considerando la prevalenza delle identita’ piuttosto che delle
divergenze, secondo un modello entro il quale il concomitante profilo
teleologico costituisce la conferma (pure al di la’ della significativa
sistemazione topografica, non a caso caratterizzata da un'accentuata
unitarieta’) dell'esigenza di una unitaria qualificazione assiologica
della procedura speciale dell'applicazione di pena su richiesta.
Le varianti, in ogni caso, non incidendo né sulla struttura né sulla
funzione della pena patteggiata, non paiono dotate di valore così
esponenziale da comportare una lectio strettamente condizionata alla
misura dei “benefici” apprestati dal legislatore. Del resto, pur dovendosi
assegnare all'innalzamento della pena “patteggiabile” una valenza non
esclusivamente quantitativa se rapportata alla normativa complementare che
costituisce parte di predominante rilevanza ermeneutica del novum, la
struttura negoziale ed i modelli di controllo sono identici sia per l'editio
minor (olim, la sola disciplinata) sia per l'editio maior.
Né l'elevazione della pena patteggiabile può determinare decisivi
squilibri rispetto al patteggiamento delineato ante riforma salvo a cadere
in suggestioni interpretative, come tali sprovviste di effettiva forza
ermeneutica, utilizzando criteri di verifica basati esclusivamente sulla
misura della pena; anche se, proprio a tale elevazione – che pure non è in
grado di rendere disomogenee le due editiones – non può corrispondere una
qualche presa di distanza da linee interpretative che assegnano
all'applicazione della pena un contenuto negoziale prevalente rispetto
alla funzione giurisdizionale in cui si concretizza l'opera di controllo
sulla “legalita’” (intesa l'espressione in senso ampio) dell'accordo pure
alla stregua del precetto dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione,
al quale l'art. 444 fa ora – sia pure implicito – richiamo.
17. Come si è accennato, il patteggiamento consta di un regime premiale
comune ad entrambi gli istituti e di un regime premiale conseguente al
solo patteggiamento da cui derivi l'applicazione di una pena non superiore
a due anni di reclusione soli o congiunti con pena pecuniaria.
Quanto al primo, gli snodi cruciali sono rappresentati dalla riduzione di
un terzo della pena indicata dalle parti, dall'irrilevanza della
costituzione di parte civile salvo il pagamento delle spese sostenute
dalla parte civile stessa, dall'inefficacia della sentenza nei giudizi
civili o amministrativi, con esclusione del giudizio disciplinare, a norma
dell'art. 653, comma 1-bis, c.p.p.
Ferma, quindi, l'unitarieta’ dell'istituto e l'incidenza delle “novelle”
del 1999 e del 2001, non può, in primo luogo, sfuggire come l’innalzamento
della pena patteggiabile ad anni cinque di reclusione (con in più, le
preclusioni della possibilita’ di accesso al rito cui si è or ora
accennato) imponga una verifica dell'effettiva portata precettiva dello
ius novum, proprio muovendo dal modello di equiparazione ora trasferito
nel precetto dell'art. 445, comma, 1-bis. L'aspetto qualitativo sembra,
infatti, precedere, secondo l'opzione simmetrica cui queste Sezioni unite
ritengono di uniformarsi - in un panorama entro il quale valore
complementare assumono, da un lato, la disssoluzione degli approdi
giurisprudenziali in tema di accesso alla revisione e, dall'altro lato, il
nuovo regime della confisca, peraltro gia’ introdotto da talune leggi
speciali – il profilo concernente il tetto di pena per accedere alla
procedura.
Ma, per restare ad un tema del tutto intrinseco alla disciplina
dell'applicazione di pena su richiesta, assume subito rilievo dirimente la
prosecuzione dell'assetto normativo rimodellato gia’ nel 1999, laddove ci
si riferisce alla pena “irrogata”; un'espressione che, tecnicamente
intesa, lungi dall'esprimere un mero dato nominalistico, sembra
coordinarsi strettamente al regime di equiparazione ed ai modelli
complementari che rendono la sentenza di applicazione della pena una
sentenza di condanna, salvo il regime derogatorio di cui all'art. 445,
comma 1-bis, c.p.p.
Può dirsi così che mentre la pena “applicata” esprime il contrassegno
della specialita’ del rito, la pena “irrogata” designa la risultante del
principio di equiparazione reso palese – nell’ineludibile unitarieta’
dell'istituto - dall'applicazione, nell’editio maior, di un regime che non
può che conseguire da una sentenza di condanna, e che si concentra nella
condanna alle spese del procedimento e nell'applicazione delle misure di
sicurezza.
Il quadro che ne discende, anche in forza dell'elevazione della pena che
legittima l’accesso al rito, induce, dunque, ad assegnare valore
esclusivamente normativo al principio di equiparazione ed impone di
ritenere la stretta interpretazione delle varianti che compongono il
regime derogatorio.
18. Nel nuovo sistema decisamente più consistenti sono gli incentivi che
rendono accattivante il ricorso all’editio minor, considerata l'applicabilita’
delle sanzioni sostitutive (secondo i ritocchi apportati dall'art. 4 della
legge n. 134 del 2003), l'esenzione dal pagamento delle spese processuali,
l'inapplicabilita’ delle pene accessorie e delle misure di sicurezza con
eccezione della confisca nei casi previsti dall'art. 240 c.p.,
l’estinzione del reato se nel termine di cinque anni, quando la condanna
concerne un delitto ovvero di due anni quando la condanna concerne una
contravvenzione, l'imputato non commette un delitto ovvero una
contravvenzione della stessa indole. Conseguendone l'estinzione di ogni
effetto penale e, se è stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione
sostitutiva, l'applicazione non è comunque di ostacolo alla concessione di
una sospensione condizionale della pena.
Ne consegue che l’editio maior comporta l’obbligo del pagamento delle
spese processuali, l'applicazione delle pene accessorie (interdizione dai
pubblici uffici, interdizione da una professione o da un'arte,
interdizione legale, interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle
persone giuridiche e delle imprese, l'incapacita’ a contrattare con la
pubblica amministrazione, la decadenza dalla potesta’ dei genitori e la
sospensione dall'esercizio di essa, la sospensione dall'esercizio di una
professione o di un’arte, la sospensione dall'esercizio degli uffici
direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, la pubblicazione della
sentenza di condanna, secondo i modelli rispettivamente indicati dagli
artt. 28, 30, 32, 32-bis, 32-ter, 34, 35, 35-bis, 36, c.p. oltre ad alcune
ipotesi extravaganes) e delle misure di sicurezza, compresa la confisca
nei casi previsti dall'art. 240 c.p.
19. Come si è gia’ fatto cenno, tra le prescrizioni in peius derivanti
dalla “novellazione” (altri effetti dello stesso tipo saranno presi in
esame analizzando il complessivo assetto normativo derivante dalle
innovazioni introdotte dalla legge n. 134 del 2003) è l'eliminazione di
ogni limite all'applicazione della confisca (un effetto comune alla editio
minor ed all’editio maior) circoscritta, nel sistema originario del c.p.p.
1988 alle ipotesi indicate nell'art. 240, 2° comma, c.p.p.. Cosicché al
verificarsi del presupposto per la confisca obbligatoria o di quella
facoltativa il giudice è tenuto ad applicarla, a prescindere
dall'intervenuto accordo delle parti sul punto; così uniformandosi la
disciplina dell'ablazione della res a quella stabilita per il giudizio
ordinario e per gli altri giudizi speciali.
La soppressione dell'effetto premiale sancito dalla normativa abrogata in
tema di misure di sicurezza non può giustificarsi altrimenti che in
funzione di una più penetrante assimilazione della sentenza di
patteggiamento alla sentenza di condanna, tale comunque da imporre il
regime di equiparazione in termini di stretta interpretazione, solo
considerando che il prodotto il profitto e il prezzo del reato sul piano
dell'accertamento sono assoggettati, per la ontologica derivazione dal
fatto commesso, ad una decisione dalla quale è, con una qualche
difficolta’, possibile intravedere una verifica corrispondente a quella di
una sentenza in ipotesi di responsabilita’. Il tutto, peraltro, in
presenza di un diritto vivente decisamente contrario ad un'interpretazione
“estensiva” dell'art. 445 ante riforma e di significativi approdi
normativi raggiunti – anche in materia di confisca disposta a seguito di
sentenza di applicazione della pena su richiesta – da leggi speciali.
20. Come si è gia’ detto, le Sezioni unite di questa Corte, sul
presupposto della ontologica diversita’ della sentenza che applica la pena
su richiesta rispetto alla sentenza di condanna, per l'assenza nella prima
di un accertamento del reato e di un giudizio di colpevolezza, hanno
escluso che la pronuncia emessa a norma dell'art. 444 e seguenti c.p.p.
sia assoggettabile al giudizio di revisione, sul presupposto che sono
soggette a tale mezzo di impugnazione solo le sentenze di condanna con
accertamento pieno ed incondizionato dei fatti e delle prove (Sez. un., 25
marzo 1998, Giangrasso).
Proprio alla stregua di tale pronuncia, la legge 12 giugno 2003, n. 134,
ha interpolato l'art. 629, comma 1, c.p.p. assoggettando a revisione anche
le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti.
Se l'inserimento nel “pacchetto” riformulatorio dell'istituto del
patteggiamento pare la risultante della elevazione della pena che può
essere oggetto di accordo e delle conseguenze derivanti dall'utilizzazione
del modello che si è denominato editio maior, il fatto, però, che il mezzo
straordinario di impugnazione abbia coinvolto l'intero istituto - una
soluzione da ritenere necessitata non solo per intuibili ragioni
sistematiche, ma anche per mantenere un'intrinseca razionalita’
all'istituto stesso - ha riproposto le problematiche circa la natura della
sentenza che applica la pena soprattutto considerando l'incidenza sul
postgiudicato della revisione.
Ed a tale stregua non può che concludersi nel senso che il ricorso a tale
mezzo straordinario di impugnazione – il cui effettivo perimetro di
operativita’ non ha ancora trovato un rassicurante assestamento -
rappresenta il sintomo più chiaro della necessita’ di un ritorno al regime
della equiparazione in termini di assoluto rigore ermeneutico.
Una tale conclusione, peraltro, non implica un processo di vera e propria
identificazione tra i due tipi di pronuncia, ma sta univocamente a
significare che il regime di equiparazione, ora codificato alla stregua
della normativa complementare più volte menzionata, non consente di
rifuggire dall'applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza
di condanna che non siano categoricamente escluse.
Gia’ i primi apporti ermeneutici di questa Corte Suprema sembrano
sottrarsi dalla qualificazione della decisione che applica la pena come
sentenza di condanna, con conseguenti riverberi quanto alla motivazione,
dovendosi ritenere sul punto ancora pienamente operanti gli approdi
interpretativi della sentenza Di Benedetto. E'chiaro che proprio l'accesso
alla revisione costituisce, per i casi previsti dall'art. 630 c.p.p. e per
meccanismi operanti soprattutto in sede di ammissibilita’ dall'art. 634
dello stesso codice, uno dei profili che potrebbero indurre ad una
soluzione debordante dai precedenti risultati interpretativi di queste
Sezioni unite.
In proposito, una recente decisione, ha dichiarato la manifesta
infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale dell'art. 629
c.p.p. (forse, peraltro erroneamente chiamato in causa alla stregua del
petitum perseguito dal ricorrente) eccepita sul presupposto che la
sentenza che applica la pena su richiesta, in forza della novella
normativa che consente la revisione, va qualificata come vera e propria
sentenza di condanna, alla cui base deve, dunque sussistere un pieno
accertamento di responsabilita’.
La Corte ha considerato una forzatura l'intepretazione proposta
evidenziando un dato letterale esplicitato dalla disposizione dell’art.
629 c.p.p., ritenendolo decisivo. Tale precetto disgiunge, in riferimento
alla revisione, le sentenze di condanna dalle sentenze emesse ai sensi
dell'art. 444, comma 2, perché le menziona raccordate dalla particella
“o”, mostrando di avere ben presente che la sentenza di applicazione della
pena su richiesta non è una decisione “di condanna”, ma è soltanto ad essa
equiparata. L'equiparazione alle sentenze di condanna giustifica
l'assoggettamento alla revisione e non fa della sentenza di patteggiamento
una sentenza di condanna in senso proprio. Anche qui l'affermazione che la
sentenza di patteggiamento non afferma la responsabilita’ in ragione della
struttura negoziale del rito, nel quale l'imputato esonera l'accusa dalla
prova dei fatti addebitati nell'imputazione assume valore dirimente, con
la conseguenza che la motivazione è sufficientemente formata con
l'indicazione delle valutazioni sulla sussistenza del consenso delle
parti, sull'insussistenza delle condizioni in presenza delle quali deve
essere pronunciata sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., sulla
correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell'applicazione e
comparazione delle circostanze, e sulla congruita’ della pena (Sez. VII, 4
marzo 2004, Anizi).
Una soluzione, quella ora ricordata, che sembra però trascurare le
effettive caratteristiche distintive della sentenza di patteggiamento
rispetto alla sentenza di condanna alla quale la prima è, pur sempre
(soltanto) equiparata. Cosicché il dato letterale, vale a dire, l’uso
della disgiunzione “o” nella giustapposizione delle sentenze di condanna
alle sentenze di patteggiamento all'interno della previsione dell’art. 629
c.p.p., è assolutamente irrilevante sia perché la stessa particella
disgiuntiva era utilizzata per legare la sentenze di condanna al decreto
penale che è anch'esso provvedimento di condanna sia perché il legislatore
del 2003, inserendo le più volte richiamate innovazioni, tra le quali la
revisione, sembra assegnare proprio a tale mezzo di impugnazione una
rilevanza davvero esponenziale. Così ancorando il disposto dell'art. 445,
comma 1-bis alla sua effettiva valenza precettiva sia perché
l'interpolazione dell'art. 629 c.p.p. viene a configurarsi come una sorta
di interpretazione autentica del previgente art. 445, comma 1, ultimo
periodo, alla stregua delle conclusioni delle Sezioni unite circa l'inapplicabilita’
al patteggiamento dell'istituto della revisione sia perché l'accesso a
tale mezzo di impugnazione, rappresentando una vicenda costituzionalmente
obbligata, si giustifica solo alla stregua delle prese di posizione di
questa Corte. Resta, peraltro, aperta la problematica - in ordine alla
quale il Collegio non è stato chiamato a pronunciarsi - circa i criteri di
adattamento della revisione ad un regime che, almeno in sede cognitoria,
mantiene quale regola di giudizio, ai fini del proscioglimento, la
disposizione dell'art.
129
c.p.p.
21. Le
considerazioni che precedono conducono conseguentemente a ritenere che il
regime di equiparazione, ricondotto al suo rilievo letterale, oltre che
alle esigenze teleologiche perseguite dal legislatore, che ne
costituiscono il necessario momento complementare, impediscano a queste
Sezioni unite, per tornare al quesito interpretativo sottoposto al vaglio
della Corte, di proseguire nella linea ermeneutica delineata dalle tre più
volte richiamate decisioni, stando alle quali la revoca di diritto della
sospensione condizionale della pena, nell'ipotesi in cui il condannato
commetta un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole per cui
venga inflitta una pena detentiva, non opera nel caso in cui al condannato
stesso sia stata irrogata una pena in forza di una sentenza pronunciata a
norma dell'art. 444, e seguenti, c.p.p
Ai sensi dell'art. 173, comma 3, delle norme di attuazione del codice di
procedura penale va, dunque, enunciato il seguente principio di diritto:
“la sentenza emessa all'esito della procedura di cui agli artt. 444 e
segg. c.p.p. poiché è, ai sensi dell'art. 445, comma 1-bis, equiparata,
"salvo diverse disposizioni di legge a una pronuncia di condanna"
costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell'art. 168, 1° comma,
n. 1, c.p., della sospensione condizionale della pena precedentemente
concessa”.
22. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato ed il ricorrente
condannato al pagamento delle spese processuali.
Per questi motivi
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali. |