LA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE
PENALI
composta
dagli Ill.mi Sigg. Magistrati
1. Dott.
Giuseppe VIOLA - Presidente;
2. Dott.
Brunello DELLA PENNA - Componente;
3. Dott.
Luciano DI NOTO - Componente;
4. Dott.
Mariano BATTISTI - Componente;
5. Dott.
Carlo COGNETTI - Componente;
6. Dott.
Giuseppe COSENTINO - Componente;
7. Dott.
Giovanni SILVESTRI - Componente relatore;
8. Dott.
Pierluigi ONORATO - Componente;
9. Dott.
Adalberto ALBAMONTE - Componente;
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso
proposto da <M. R.>, nato a <L.> il <1. 2.1.>,
avverso
l'ordinanza emessa dal Tribunale di Milano in data 19.8.1999; Visti gli atti,
l'ordinanza impugnata ed il ricorso;
Udita la
relazione fatta dal Consigliere dott. Giovanni SILVESTRI;
Sentite le
conclusioni del Procuratore Generale presso questa Corte, nella persona
dell'Avvocato Generale dott. Umberto Toscani, il quale ha chiesto il rigetto del
ricorso;
Sentiti i
difensori dell'imputato, avv.ti Alfredo Biondi e Pasquale Misciagna;
1. - In data
24 luglio 1999 il difensore di Musitano Rosario presentava richiesta di
scarcerazione deducendo che costui era stato condannato alla pena di diciotto
anni e sei mesi di reclusione e lire 150.000.000 di multa con sentenza del 25
luglio 1996 del Tribunale di Milano e che la sentenza in data 23 ottobre 1997
della Corte di Appello di Milano, con cui la pena inflitta all'imputato era
stata ridotta ad undici anni e sei mesi di reclusione e lire 81.000.000 di
multa, era stata annullata con rinvio dalla Corte Suprema di Cassazione con
pronuncia del 13 gennaio 1999. L'istante assumeva che, in relazione ai delitti
per i quali il Musitano aveva riportato condanna, era trascorso il limite
massimo di fase della custodia cautelare, che, a norma dell'art. 304 c.p.p.,
comma 6, non poteva essere superiore a tre anni e doveva necessariamente
decorrere dal 25 luglio 1996, data della sentenza di primo grado.
In data 28
luglio 1999 la Corte di Appello di Milano, quale giudice dinanzi al quale
pendeva il giudizio di rinvio, respingeva la predetta richiesta.
Con ordinanza
del 19 agosto 1999 veniva rigettato l'appello proposto, a norma dell'art. 310
c.p.p., nell'interesse del Musitano. Il Tribunale escludeva che fossero scaduti
i termini di custodia cautelare relativi alla fase del giudizio di appello,
negando la fondatezza della tesi difensiva con cui era stato sostenuto che dalla
sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 292 del 18
luglio 1998 deriva che nel computo del limite massimo del doppio del termine di
fase deve essere incluso anche il periodo di carcerazione subita durante il
giudizio di legittimita’: al contrario, il Tribunale riteneva che, stante il
precetto di cui all'art. 303 c.p.p., comma 2, ai fini del calcolo del limite ex
art. 304 c.p.p., comma 6, rileva, oltre alla custodia cautelare in carcere
subita nel pregresso giudizio di appello, soltanto il periodo detentivo
successivo alla sentenza di annullamento pronunciata dalla Corte di Cassazione e
non anche quello attinente al giudizio di legittimita’.
Il difensore
del Musitano proponeva ricorso per cassazione chiedendo l'annullamento
dell'ordinanza per violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) sul
rilievo che la decisione gravata e’ in palese contrasto con la sentenza
interpretativa n. 292 del 1998 della Corte Costituzionale per il fatto che il
Tribunale aveva disatteso il principio di diritto enunciato in tale pronuncia,
dal quale inequivocamente consegue che in caso di regresso del processo, ai fini
del calcolo del limite finale di fase previsto dall'art. 304 c.p.p., comma 6,
deve farsi esclusivo riferimento alla data di inizio della fase alla quale il
processo e’ regredito, sicche’ nel computo di detto limite devono essere inclusi
i periodi di carcerazione relativi a tutte le fasi e i gradi successivi,
compreso quello relativo al giudizio di legittimita’ conclusosi con la sentenza
di annullamento.
2. - La
Quarta Sezione Penale di questa Corte ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite
ai sensi dell'art. 618 c.p.p., rilevando che nella giurisprudenza di
legittimita’ sono intervenute pronunce di segno opposto con le quali e’ stata
intesa in modo differente la portata della sentenza interpretativa di rigetto n.
292 del 1998. In particolare, nell'ordinanza di rimessione e’ stato segnalato
che un primo indirizzo esclude che l'interpretazione della disposizione di cui
al sesto comma dell'art. 304 c.p.p., fatta propria dalla Corte Costituzionale,
abbia fatto venire meno il dettato dell'art. 303 c.p.p., comma 2, sicche’, in
caso di regresso del processo, i termini di custodia cautelare non possono
essere computati sommando tra loro tutti indistintamente i periodi riguardanti
fasi o gradi diversi: l'indirizzo contrario, invece, ha tratto dalla sentenza
interpretativa n. 292 del 1998 la conseguenza che, nell'ipotesi di regresso, nel
calcolo del limite finale del doppio del termine di fase deve tenersi conto
tanto del periodo di custodia cautelare sofferto nella fase presa in
considerazione quanto dei periodi relativi a tutte le altre fasi, precedenti e
successive alla pronuncia che ha causato il trasferimento del processo ad altro
giudice.
Il Primo
Presidente Aggiunto ha assegnato il procedimento alle Sezioni Unite, fissando la
trattazione del ricorso all'udienza in camera di consiglio del 19 gennaio 2000.
3. - Per
dirimere il contrasto giurisprudenziale devoluto all'esame delle Sezioni Unite
e’ indispensabile individuare l'esatto ambito applicativo della sentenza n. 292
del 1998, da cui il contrasto stesso ha avuto origine, ponendo in luce le linee
argomentative attraverso le quali la Corte Costituzionale ha inteso coordinare
le disposizioni di cui agli artt. 304 c.p.p., comma 6, e 303 c.p.p., comma 2, in
modo da adeguarne l'interpretazione ai principi della Carta fondamentale: con la
precisazione che una piena comprensione della reale portata della sentenza e
della novita’ dei risultati, ai quali essa conduce, richiede preliminarmente una
ricognizione delle posizioni sulle quali era attestata la giurisprudenza di
legittimita’ precedentemente a detto intervento interpretativo.
La
giurisprudenza di questa Corte ha costantemente attribuito alla disposizione ex
art. 303 c.p.p., comma 2, l'effetto di far decorrere un nuovo termine di fase
del tutto svincolato da quello gia’ trascorso nella fase o nel grado in cui il
processo e’ regredito, nel senso che non e’ stato mai posto in dubbio che la
predetta norma ha la specifica funzione di far derivare dal provvedimento di
annullamento o di regresso il decorso ex novo di un distinto termine, privo di
qualsiasi connessione con quello della fase o del grado corrispondente, e,
dunque, a questo non cumulabile (Cass., Sez. VI, 21 ottobre 1998, Pacini
Battaglia; Cass., Sez. I, 20 ottobre 1998, Accardo ed altri; Cass., Sez. I, 14
luglio 1998, Accardo,; Cass., Sez. I, 6 luglio 1998, Todesco; Cass., Sez. I, 5
giugno 1997, Esen e altri,; Cass., Sez. V, 25 ottobre 1996, Trubia; Cass., Sez.
III, 30 luglio 1993, Soracco).
Inoltre, piu’
volte sono state dichiarate manifestamente infondate le eccezioni di
illegittimita’ Costituzionale del secondo comma dell'art. 303 c.p.p. - formulate
con riferimento ai parametri degli artt. 3, 13, 24 e 111 Cost.- per la ragione
che la disciplina degli effetti della regressione del processo sulla durata
della custodia cautelare corrisponde ad una precisa scelta del legislatore, il
quale, conformemente a criteri di ragionevolezza e ai principi costituzionali,
ha inteso realizzare un equilibrato bilanciamento tra esigenze di tutela della
collettivita’ e favor libertatis, da un lato assegnando prevalente rilevanza
alle prime con riguardo ai termini di fase e dall'altro riconoscendo la
priorita’ della liberta’ individuale per cio’ che concerne il termine massimo
complessivo di cui al quarto comma dell'art. 303 c.p.p. (Cass., Sez. V, 26
maggio 1998, Giacalone; Cass., Sez. I, 19 giugno 1998, Todesco; Cass., Sez. VI,
30 marzo 1993, Esposito).
L'interpretazione giurisprudenziale consolidata, strettamente aderente alla
lettera dell'art. 303 c.p.p., comma 2, e’ stata considerata, anche in dottrina,
come diretta e lineare applicazione del principio di autonomia dei singoli
termini di fase, in puntuale correlazione con la direttiva di cui all'art. 2, n.
61, della legge-delega, in cui e’ contenuta la "previsione, per ciascuna fase
processuale, di termini autonomi di durata massima delle misure di coercizione",
ed in sintonia con le precise indicazioni della Relazione al progetto
preliminare, nella quale e’ specificato che «in coerenza con questa scelta di
"segmentazione" dei termini massimi di custodia, e’ stato altresi’ previsto
(sempre in armonia con la legislazione vigente) che, nel caso di regresso del
procedimento ad una diversa fase o di rinvio ad un diverso giudice, dalla data
del relativo provvedimento, ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della custodia,
decorrano nuovamente i termini stabiliti dal comma 1, in relazione a ciascun
stato e grado del procedimento» (p. 76).
Pertanto, il
meccanismo della nuova decorrenza dei termini di custodia cautelare in tutti i
casi di regressione o di rinvio del procedimento ad altro giudice ha determinato
-nella logica della regola della segmentazione- lo sbarramento e il totale
isolamento di ciascuna singola fase, ditalche’ per la fase aperta dal
provvedimento di annullamento o di regressione ricomincia a decorrere un
distinto ed autonomo termine, sulla cui ampiezza non rilevano ne’ la durata
della custodia cautelare nelle precedenti fasi ne’ le sospensioni in esse
eventualmente intervenute, restando questi periodi cumulabili unicamente ai fini
della durata massima complessiva stabilita dall'art. 303 c.p.p., comma 4, e art.
304 c.p.p., comma 6.
L'uniforme
panorama giurisprudenziale non ha subito alcuna incrinatura neppure dopo
l'introduzione del sesto comma dell'art. 304 c.p.p. ad opera dell'art. 15 della
L. 8 agosto 1995, n. 332, che ha sancito termini massimi invalicabili, riferiti
sia alle singole fasi che alla durata complessiva. E’ stato ritenuto, infatti,
che l'innovazione legislativa non ha intaccato il principio della decorrenza ex
novo dei termini di fase nelle situazioni previste dall'art. 303 c.p.p., comma
2, e che tale disposizione, anche dopo la L. n. 332 del 1995, ha mantenuto
intatto il proprio autonomo ambito normativo, con l'effetto di impedire che, per
la determinazione del termine finale di fase, possano sommarsi tra loro periodi
di custodia cautelare riguardanti fasi e gradi diversi, dovendosi escludere, di
riflesso, anche le precedenti sospensioni, la cui rilevanza resta circoscritta
all'interno del limite massimo complessivo (Cass., Sez. I, 16 febbraio 1996,
Sarno).
Identico
principio e’ stato affermato per l'ipotesi di regresso derivante da
dichiarazione di incompetenza, in riferimento alla quale e’ stato chiarito che,
decorrendo di nuovo i termini di fase, quello finale di cui all'art. 304 c.p.p.,
comma 6, deve calcolarsi senza tenere conto della custodia gia’ sofferta in
forza del provvedimento del giudice incompetente (Cass., Sez. V, 20 novembre
1996, Cavallo).
4. -
Completamente diverse risultano le linee argomentative della motivazione della
sentenza n. 292 del 1998, la cui nuova prospettiva interpretativa ha avuto
l'effetto di porre parzialmente in crisi - nei limiti appresso specificati- la
regola dell'assoluta autonomia delle singole fasi e dei periodi di custodia
cautelare a ciascuna di esse corrispondenti, che rappresentava il cardine delle
posizioni della giurisprudenza di legittimita’.
L'analisi
ricostruttiva della normativa sui limiti finali, di fase e complessivo, compiuta
dalla Corte Costituzionale muove dall'inquadramento storico e sistematico della
evoluzione della disciplina dei termini di custodia cautelare, a partire
dall'art. 272 del codice abrogato fino alla L. 8 agosto 1995, n. 332, per
approdare alla conclusione che «l'unica soluzione ermeneutica enucleabile dal
sistema e che si appalesa in linea con i valori della Carta fondamentale»
corrisponde a quella che attribuisce alla previsione dei predetti limiti finali
una «portata autonoma», indipendente dalle sospensioni intervenute nelle singole
fasi o gradi, in attuazione del canone di proporzionalita’, nel senso che gli
stessi limiti hanno la funzione di meccanismo di chiusura della disciplina dei
termini e valgono ad individuare il confine estremo, superato il quale il
permanere dello stato coercitivo si presuppone essere «sproporzionato» in quanto
eccedente gli stessi limiti di tollerabilita’ del sistema. A base della
soluzione ritenuta «l'unica conforme a Costituzione» la Corte ha indicato
ulteriori argomenti ermeneutici testuali e logico-sistematici: principalmente,
ha sottolineato che il richiamo fatto dall'art. 304 c.p.p., comma 6, all'art.
303 c.p.p., comma 2, che regola non la durata ma la decorrenza ex novo dei
termini di fase, implica che «il superamento di un periodo di custodia pari al
doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, determina la
perdita di efficacia della custodia, anche se quei termini sono stati sospesi,
prorogati o -per stare al caso che qui interessa- sono cominciati a decorrere
nuovamente a seguito della regressione del processo».
Di fronte
alle resistenze della giurisprudenza di merito ad accogliere la soluzione
interpretativa indicata nella sentenza n. 292 del 1998, la Corte Costituzionale
ha ribadito la propria linea di pensiero con l'ordinanza n. 429 del 19
novembre1999, con cui sono state dichiarate manifestamente infondate, in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, le questioni di legittimita’
costituzionale dell'art. 303 c.p.p., comma 4, nella parte in cui non prevede
che, oltre al superamento del termine complessivo, possa essere causa di
scarcerazione anche il superamento del doppio del termine di fase, allorche’ si
verifichi la situazione descritta nel comma 2 dello stesso art. 303 c.p.p.
5. - Non e’
dubbia la natura di sentenza interpretativa di rigetto della pronuncia n. 292
del 1998, con cui e’ stata dichiarata non fondata «nei sensi di cui in
motivazione» la questione di legittimita’ costituzionale dell'art. 303 c.p.p.,
comma 4. - In alcune recenti decisioni delle Sezioni Unite di questa Corte sono
stati messi a punto i risultati della elaborazione della giurisprudenza
costituzionale e della dottrina sul tema delle sentenze interpretative e sul
valore delle stesse sia nel medesimo giudizio nel quale fu sollevata la
questione di legittimita’ dichiarata non fondata sia negli altri giudizi,
nonche’ sul vincolo che ne deriva per i giudici chiamati ad applicare la stessa
disposizione nell'ipotesi in cui la Corte abbia ritenuto la propria
interpretazione come «l'unica compatibile» con le norme e con i principi della
Costituzione (Cass., Sez. Un., 16 dicembre 1998, Alagni; Cass., Sez. Un., 13
giugno 1998, Gallieri; Cass., Sez. Un., 13 dicembre 1995, Clarke).
Va precisato,
tuttavia, che nel caso in esame il contrasto giurisprudenziale, che ha
giustificato la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, non e’ determinato
dal rifiuto della soluzione ermeneutica indicata dalla Corte Costituzionale come
l'unica conforme a Costituzione, essendo accomunati entrambi gli orientamenti
dalla dichiarata adesione all'interpretazione dell'art. 304 c.p.p., comma 6, e
art. 303 c.p.p., comma 2, accolta nella sentenza n. 292 del 1998:
interpretazione che e’ pienamente condivisa da questo Supremo Collegio per la
ragione che soltanto la lettura e il coordinamento delle predette disposizioni
nei termini prospettati dal Giudice delle leggi permette di assegnare alla
previsione del termine massimo di fase la funzione di rigido meccanismo di
chiusura e, quindi, di insostituibile presidio dell'effettivita’ del canone di
proporzionalita’, cosi’ assicurando - nell'ottica del favor libertatis - «uno
sbarramento finale ragguagliato anche alla durata dei termini di fase comunque
modulata e, infine, alla stessa logica dell'art. 13 della Carta fondamentale, la
quale impone di individuare, fra piu’ interpretazioni, quella che riduca al
minimo il sacrificio della liberta’ personale».
Il dissenso
insorto nella giurisprudenza di legittimita’ attiene, invece, alle conseguenze
derivanti dall'adozione della linea ermeneutica su cui poggia la struttura
logico-giuridica della predetta sentenza, nel senso che il contrasto investe il
modo in cui opera la disposizione ex art. 303 c.p.p., comma 2, rispetto al
termine finale di fase e la scelta dei criteri di computo di tale termine in
caso di regressione del procedimento.
Con un primo
indirizzo e’ stato ritenuto che il correttivo apportato dalla Corte
Costituzionale abbia lasciato inalterato, in quanto compatibile con le norme
costituzionali, il dettato dell'art. 303 c.p.p., comma 2, sulla nuova decorrenza
dei termini dalla data del provvedimento dell'annullamento o del regresso, con
la conseguenza che il termine deve essere calcolato per ciascuna fase alla quale
si riferisce, sommando tra loro i vari periodi di custodia cautelare sofferti
nella stessa fase o nello stesso grado del giudizio, con esclusione dei periodi
relativi alle altre fasi o agli altri gradi (Cass., Sez. I, c.c. 11 marzo 1999,
Calascibetta; Cass., Sez. I, c.c. 23 marzo 1999, Todesco; Cass., Sez. I, c.c. 11
maggio 1999, Romano ed altri; Cass., Sez. I, c.c. 12 luglio 1999, Scotto; Cass.,
Sez. I, c.c. 23 settembre 1999, Muollo). In una delle pronunce che, con maggiore
chiarezza, hanno posto in luce i risultati di una simile impostazione
interpretativa e’ stato sostenuto che, ai fini del computo del termine finale ex
art. 304 c.p.p., comma 6, «vanno sommati i periodi di custodia cautelare
sofferti dall'inizio della determinata fase al momento del provvedimento che ha
disposto il passaggio alla fase successiva con quelli successivi al
provvedimento che ha disposto il regresso alla medesima fase, fino al termine
della stessa», con la precisazione che l'intervento della Corte Costituzionale
rende possibile la somma di un «segmento di fase» con il «segmento» della
medesima fase alla quale il procedimento e’ regredito e non autorizza, invece,
il cumulo dei periodi di carcerazione riferiti a differenti fasi o gradi,
intermedi tra un segmento e l'altro (Cass., Sez. I, c.c. 2 giugno 1999, P.M. in
proc. Ambrosino ed altri).
Su basi
totalmente divergenti poggia l'indirizzo contrario, ad avviso del quale la
soluzione ermeneutica costituzionalmente vincolata, imposta dalla sentenza n.
292 del 1998, implica necessariamente che, in base al combinato disposto
dell'art. 303 c.p.p., comma 2, e art. 304 c.p.p., comma 6, il termine finale
previsto da quest'ultima disposizione decorre dal primo termine iniziale della
fase in cui il procedimento e’ regredito, computati anche i periodi di custodia
cautelare decorsi in tutte le fasi e gradi successivi, dato che la tesi opposta
finisce per vanificare il principio di garanzia sancito dal sesto comma
dell'art. 304 c.p.p. e per porre a carico dell'imputato la protrazione della
custodia cautelare, conseguente all'annullamento con rinvio o alla regressione
del procedimento, le cui cause non sono dovute ad un fatto a lui addebitabile,
ma ad un «errore» dell'autorita’ giudiziaria (Cass., Sez. VI, c.c. 4 maggio
1999, Pirozzolo; Cass., Sez. VI, c.c. 26 maggio 1999, Spada; Cass., Sez. VI,
c.c. 27 maggio 1999, Villani; Cass., Sez. VI, c.c. 21 giugno 1999, Latella; Cass.,
Sez. VI, c.c. 6 ottobre 1999, Bucri).
6. - Il
contrasto verte, dunque, sulla diversa operativita’ della normativa risultante
dall'opzione interpretativa compiuta con la sentenza n. 292 del 1998 e sulle
specifiche implicazioni che ne discendono in ordine alle modalita’ di calcolo
del termine finale di fase in caso di annullamento con rinvio e, piu’ in
generale, di regresso del procedimento.
Le Sezioni
Unite ritengono di dovere condividere il primo dei due contrapposti indirizzi
dianzi indicati, anche se taluni passaggi argomentativi (principalmente quelli
riguardanti la nuova dimensione dell'art. 303 c.p.p., comma 2) non mancano di
ambiguita’ e necessitano, quindi, dei chiarimenti e degli approfondimenti
indispensabili per assicurarne la piena rispondenza alla decisione della Corte
Costituzionale.
In primo
luogo, deve sottolinearsi che qualsiasi indagine tendente ad individuare
l'impatto della pronuncia n. 292 del 1998 sulla normativa dei termini di
custodia cautelare non puo’ non prendere le mosse da due precisi dati
ermeneutici incontestabilmente emergenti dalle esplicite proposizioni che
rappresentano la ratio decidendi di detta sentenza: quello per cui la
disposizione di cui all'art. 304 c.p.p., comma 6, ha una dimensione normativa
autonoma, che trascende la disciplina della sospensione dei termini di custodia
cautelare, e quello per cui l'effettivita’ della garanzia inerente al termine
finale di fase postula un affievolimento del rigore del meccanismo della
decorrenza ex novo, stabilito dall'art. 303 c.p.p., comma 2, nel senso che,
limitatamente al calcolo del termine finale di fase, il provvedimento di
annullamento con rinvio o di regresso non puo’ piu’ avere l'effetto di assoluta
sterilizzazione di tutti i periodi di carcerazione e di tutte le sospensioni
intervenute nelle precedenti fasi.
In presenza
di queste due precise coordinate interpretative, che sarebbe del tutto
ingiustificato rimettere in discussione e rispetto alle quali un eventuale
dissenso non potrebbe che tradursi nell'attivazione di un nuovo incidente di
legittimita’ costituzionale, il reale problema consiste nello stabilire se - con
il venire meno dell'assolutezza della regola stabilita dall'art. 303 c.p.p.,
comma 2, e della conseguente neutralizzazione dei precedenti periodi di custodia
cautelare ai soli fini del limite finale di fase - debbano cumularsi
indiscriminatamente alla durata della custodia nella fase o nel grado aperto dal
provvedimento di annullamento o di regressione quella relativa a tutte le fasi o
gradi pregressi oppure soltanto la durata della custodia sofferta nella fase o
grado al quale il processo e’ tornato. Riferito all'ipotesi piu’ ricorrente di
annullamento con rinvio di una sentenza di secondo grado - che corrisponde, del
resto, al caso che qui interessa- il dilemma si traduce nella necessita’ di
decidere se, alla luce dei principi dettati dalla Corte Costituzionale, il
termine finale di fase fissato dall'art. 304 c.p.p., comma 6, debba essere
calcolato sommando al periodo di carcerazione subita nel giudizio di appello
soltanto quello relativo al giudizio di rinvio, da considerare quale
prosecuzione del primo, ovvero se debba comprendersi anche la durata della
custodia durante il giudizio di cassazione.
L'effettivo
tessuto argomentativo della sentenza n. 292 del 1998 non offre alcun appiglio
per sostenere la tesi favorevole al cumulo dei periodi di custodia relativi a
tutte le fasi e gradi precedenti, inclusi quelli intermedi, ditalche’,
nell'assoluto silenzio della motivazione, il criterio di indagine piu’ corretto
e’ quello di individuare il differente grado di compatibilita’ delle diverse
soluzioni con i principi fondamentali del sistema processuale, scegliendo quella
ad essi maggiormente aderente. In proposito, deve porsi in risalto la
determinante rilevanza della motivazione per cogliere l'effettiva portata delle
sentenze interpretative rispetto alle quali la prima «non rappresenta
semplicemente il motivo della decisione, ma svolge un ruolo piu’ importante e
decisivo in quanto diviene elemento costitutivo della decisione stessa, che, con
diversa motivazione, avrebbe avuto esito diverso» (Cass., Sez. Un., 16 dicembre
1998, Alagni, cit.): sicche’ gli effetti della sentenza interpretativa devono
essere identificati sulla base della obiettiva ed intrinseca forza argomentativa
delle ragioni che compendiano la motivazione, sia quelle esplicite che quelle
corrispondenti ai postulati ineliminabili della soluzione prescelta, in mancanza
delle quali risulta arbitraria una qualsiasi ulteriore interpretazione "mediata"
che porti ad ampliare l'ambito applicativo risultante dalla pronuncia della
Corte Costituzionale.
7. - Ebbene,
da nessuno degli argomenti sviluppati nella motivazione della sentenza n. 292el
1998 per dimostrare che il termine finale di fase e’ insensibile all'operativita’
dell'art. 303 c.p.p., comma 2, puo’ farsi derivare il corollario che, al fine di
verificare il rispetto di quel termine, deve procedersi alla indiscriminata
sommatoria di tutte le fasi e di tutti i gradi, antecedenti e successivi
all'annullamento o alla regressione del procedimento.
L'argomento
risolutivo, di lineare concludenza ed univocita’, e’ offerto dal fatto che la
sentenza n. 292/98 ha come esclusivo oggetto il limite finale prescritto per
ogni singola fase o grado del processo, onde non si vede come possa ritenersi
riferibile al dictum della Corte l'introduzione di un limite massimo, distinto
da quello complessivo, risultante, al pari di quest'ultimo, dal cumulo di una
pluralita’ di fasi e gradi. E’ innegabile, infatti, che sostenere la necessita’
del computo indiscriminato di tutte le fasi intermedie significa, nella
sostanza, far perdere a quel limite il carattere rigorosamente endofasico o
monofasico, che normativamente lo tipicizza, e creare un nuovo termine finale
plurifasico, estraneo alle previsioni degli artt. 303 e 304, comma 6, c.p.p.,
alterando, per tale via, le linee essenziali della disciplina dettata dal
codice, che non conosce altra distinzione che quella tra termini di fase e
termine complessivo. Resta con cio’ confermato che l'eliminazione della frattura
e della separatezza della fase successiva all'annullamento - realizzata mediante
la riconosciuta inoperativita’ dell'art. 303 c.p.p., comma 2, rispetto al
calcolo del limite finale di fase - non puo’ avere altro effetto che quello di
permettere il collegamento della predetta fase con quella precedente nella quale
e’ stato pronunciato il provvedimento annullato e, cosi’, di rendere possibile
l'unificazione della durata della custodia cautelare sofferta nei due segmenti
processuali, avvinti da una relazione di corrispondenza e di omogeneita’ per la
ragione che il primo puo’ considerarsi come ripristino del secondo.
Al di fuori
di tale specifica situazione, rimane intatta l'autonomia della fase intermedia,
conclusasi con la pronuncia di annullamento, ne’ puo’ essere coinvolta
nell'operazione di riunificazione la durata della custodia subita in questa
fase, perche’ distinta ed indipendente da quella che la precede e da quella che
la segue. Deve inferirsene che - nella "ratio" garantistica del termine finale
di fase - se puo’ avere una plausibile base logico-sistematica affermare l'unitarieta’
dei due segmenti omogenei e considerare il secondo come continuazione del primo,
al quale il processo e’ regredito, e’ contrario, invece, alle linee fondanti del
sistema processuale includere nel computo anche le altre fasi intermedie, dato
che queste sono dotate di una propria peculiare autonomia funzionale, ciascuna
corrispondente ad una diversa tappa e ad un differente segmento dello sviluppo
del processo. L'esclusione di una possibile unificazione generalizzata delle
fasi trova, dunque, irrefutabile conferma tanto nell'autonomia della fase in cui
e’ stato pronunciato l'annullamento o e’ stato disposto il regresso quanto nella
mancanza di una norma alla quale possano ricondursi le basi della fictio iuris
giustificativa dell'indifferenziato conglobamento.
In assenza di
qualsiasi significativo argomento contrario enucleabile dalla motivazione della
sentenza n. 292 del 1998, le precedenti conclusioni, da un lato, sono aderenti
alla nuova dimensione normativa dell'art. 304 c.p.p., comma 6, e art. 303 c.p.p.,
comma 2, risultante dall'interpretazione adeguatrice operata dalla Corte
Costituzionale, e, dall'altro, appaiono le uniche compatibili con i principi
fondamentali della normativa sulla custodia cautelare, modulata in armonia con
la struttura del processo, che, per sua essenziale natura, consiste in una
successione di fasi e gradi distinti attraverso i quali l'attivita’
giurisdizionale si articola fino alla formazione del giudicato.
8. - La
soluzione accolta resiste ai rilievi critici prospettati nelle decisioni che
hanno dato origine all'opposto indirizzo.
In primo
luogo, non ha pregio l'obiezione con cui e’ stato dedotto che la linea
giurisprudenziale condivisa dalle Sezioni Unite «ha come risultato la
vanificazione del principio di garanzia dettato dall'art. 304 c.p.p., comma 6,
riferito indiscriminatamente a tutte le situazioni di cui ai primi tre commi
dell'art. 303 c.p.p., fra le quali e’ innegabilmente compreso il caso della
regressione» (cfr. Cass., Sez. VI, c.c. 4 maggio 1999, Pirozzolo, cit.). La
critica e’ del tutto ingiustificata, atteso che - in coerenza con quello che
rappresenta il punto saliente della motivazione della sentenza n. 292 del 1998-
e’ stata ridimensionata la portata della disposizione di cui all'art. 303 c.p.p.,
comma 2, ed e’ stata eseguita una operazione correttiva delle precedenti
posizioni giurisprudenziali consolidate, riconoscendo che - ai limitati fini
della garanzia stabilita con la previsione del termine finale di fase - restano
inoperanti gli effetti rigorosamente interruttivi ricollegabili a quella
disposizione e che la fase successiva al provvedimento di annullamento o di
regresso deve considerarsi come prosecuzione della fase alla quale il processo
e’ regredito, pur con la soluzione di continuita’ costituita dalla fase
intermedia nella quale quel provvedimento e’ stato adottato: ond'e’ che -
contrariamente a quanto precedentemente costituiva ius receptum - le due
predette fasi devono essere sommate e nel computo devono essere compresi i
rispettivi periodi di sospensione e, in caso di regresso alla fase delle
indagini preliminari, i periodi di proroga ex art. 305 c.p.p., comma 2.
Non e’
producente neppure il rilievo che, stante la pronuncia di annullamento, il
processo non puo’ considerarsi mai approdato naturalmente alle fasi successive,
durante le quali l'imputato ha continuato a rimanere in carcere. L'obiezione
risulta palesemente inconsistente quando si considera che nella giurisprudenza
di questa Corte e’ stato piu’ volte precisato che la nullita’ di una fase non si
comunica necessariamente alla successiva e che il passaggio dall'una all'altra
prescinde dalla validita’ degli atti di mutamento di fase processuale (Cass.,
Sez. I, c.c. 14 luglio 1998, Accardo, cit.), onde anche agli atti invalidi va
riconosciuta l'idoneita’ ad interrompere i termini della custodia cautelare (Cass.,
Sez. V, 26 maggio 1998, Giacalone, cit.).
Infine, deve
escludersi la rilevanza dell'argomento dell'imputabilita’ della causa del
regresso non all'imputato ma ad un errore dell'autorita’ giudiziaria, per
l'ovvia ragione che i riflessi dei provvedimenti invalidi sulla durata della
custodia cautelare sono quelli, e soltanto quelli, indicati dalla legge
processuale nella disciplina dei termini di fase e del termine complessivo.
D'altro canto, la non conferenza del richiamo alla "incolpevolezza"
dell'imputato e’ avvalorata dalla circostanza che la sentenza n. 292 del 1998 ha
investito anche il meccanismo della decorrenza ex novo dei termini di fase per
il caso di evasione, previsto dall'art. 303 c.p.p., comma 3, sebbene - come
giustamente segnalato in dottrina- la regola del ricalcolo dei termini sia
fondata, in questa ipotesi, su un comportamento dell'imputato non solo
certamente non incolpevole, ma corrispondente, addirittura, all'ipotesi di reato
di cui all'art. 385 c.p.
9. - In
conclusione, nella prospettiva garantistica dischiusa dalla sentenza della Corte
Costituzionale n. 292 del 1998, dalla connessione esistente tra l'art. 304
c.p.p., comma 6, e l'art. 303 c.p.p., comma 2, devono trarsi le seguenti
conseguenze:
a)
nell'ipotesi di annullamento con rinvio di una sentenza di secondo grado, per il
calcolo del limite massimo del termine di fase il periodo di custodia cautelare
relativo al giudizio di appello deve cumularsi con quello del giudizio di rinvio
e non anche con la durata della custodia durante il giudizio di cassazione;
b) ai fini
dell'osservanza dell'anzidetto limite rilevano tutti i periodi di sospensione
verificatisi nelle due fasi tra loro collegate, ad eccezione di quelli indicati
nel settimo comma dell'art. 304 c.p.p.;
c) tali
regole valgono anche in caso di pluralita’ di annullamenti con rinvio o di
regressioni.
Con
l'ordinanza impugnata, il Tribunale ha dato corretta applicazione a tali
principi, ritenendo che il limite finale di fase non debba calcolarsi in
riferimento all'intero periodo di custodia cautelare ma solo alla durata del
termine della fase oggetto del regresso, inferendone che il periodo di
carcerazione preventiva sofferta dall'imputato nel giudizio di appello deve
sommarsi soltanto a quello del giudizio di rinvio aperto dalla sentenza di
annullamento della Corte di Cassazione, con la necessaria esclusione del periodo
di custodia attinente al giudizio di legittimita’. Poiche’ non e’ controverso
che il risultato della somma dei due segmenti processuali anzidetti non superava
il limite massimo del doppio del termine indicato dall'art. 303 c.p.p., comma 1,
lett. c), n. 3 per il giudizio di secondo grado, deve considerarsi pienamente
legittima la pronuncia con cui e’ stato disatteso l'appello proposto avverso
l'ordinanza che ha negato la scarcerazione dell'imputato per la mancata scadenza
del limite di tre anni corrispondente, appunto, al doppio del termine di fase ex
art. 304 c.p.p., comma 6. - In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e
il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
La
cancelleria dovra’ provvedere all'adempimento prescritto dall'art. 94, comma
1-ter disp. att. c.p.p.-
P. Q. M.
La Corte
Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per
l'adempimento di cui all'art. 94, comma 1-ter disp. att. c.p.p.-
Cosi deciso
in Roma il 19 gennaio 2000.
DEPOSITATA IN
CANCELLERIA IL 29 FEBBRAIO 2000.
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