Andrea Caffi un socialista umanitario
di Pancrazio Caponetto – ” M’era compagno lo spirito più arcangelo e più vivo che mai conobbi, Andrea Caffi, fuggitivo dalla prigionia per i moti del 1905-’06, un umanitario ribelle, raffinato e semplice insieme di vita, poliglotta e colto all’estremo, arguto e entusiasta, con cui scrivemmo pagine e pagine sulla cultura europea.”
Così il filosofo Antonio Banfi ricordava, sulla rivista Aut – Aut nel 1958, Andrea Caffi, suo compagno di studi all’Università di Berlino. Andrea Caffi era nato a Pietroburgo nel 1887 da genitori italiani. Giovanissimo si accostò al socialismo, prima contribuendo alla fondazione del sindacato dei tipografi a Pietroburgo, poi partecipando alla rivoluzione del 1905 tra le file dei menscevichi, la corrente di minoranza del movimento socialista russo.
Per la sua attività rivoluzionaria Caffi fu arrestato dalla polizia zarista e condannato a tre anni di carcere. Fu liberato nel 1907, grazie all’intervento dell’ambasciatore italiano e, per compiere gli studi universitari , si recò a Berlino, dove ebbe come compagno Banfi, come si è detto, e come maestro il filosofo Georg Simmel.Terminata l’ università Caffi si stabilì a Parigi e nell’agosto del 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, si arruolò nell’esercito francese. Ecco come Nicola Chiaromonte, intellettuale amico di Caffi , spiega le motivazioni di quella scelta interventista: ” Caffi, insomma, fu nell’agosto del 1914, fra i numerosi intellettuali europei, che,… credettero.. che dalla sconfitta della Germania imperiale dipendessero le sorti della democrazia e del socialismo. Le sue speranze andavano allora nel senso di un Europa federata sulla base dei principi mazziniani.”
Alla fine del conflitto, Caffi tornò in Russia dove, nel 1917, i bolscevichi di Lenin avevano conquistato il potere, diventando punto di riferimento per il movimento socialista europeo.In un articolo del 1918, La rivoluzione russa e l’Europa, considerato da Piero Gobetti il più importante e serio scritto che fosse apparso in quegli anni sull’argomento, Caffi analizzava il bolscevismo. Egli aveva conosciuto i capi bolscevichi nel periodo della rivoluzione del 1905, capiva che tra le loro idee di “rivoluzionari di professione” e la tradizione del socialismo russo e europeo c’era un solco.” Faceva anzi – ha scritto Enzo Bettiza, in una recensione degli Scritti politici di Caffi, comparsa nel 1971 – una distinzione sociologica e psicologica fra gli idealisti che avevano alimentato il movimento socialdemocratico russo e i personaggi avventurosi, pragmatici… assetati di comando, che erano stati affascinati dalle proposte rivoluzionarie aristocratiche e temerarie di Lenin.”
Caffi era favorevole a un governo rivoluzionario composto dai tre partiti russi di ispirazione socialista ( menscevichi, bolscevichi, social-rivoluzionari ). Quando i bolscevichi,dopo la conquista del potere iniziarono le persecuzioni di menscevichi, social-rivoluzionari e libertari,egli comprese che quello era il primo passo verso l’involuzione autoritaria del governo sovietico.Una degenerazione che egli visse in prima persona, in quanto ,accusato di essere un “controrivoluzionario” in contatto con esponenti dell’opposizione menscevica e di aver dissuaso i socialisti italiani venuti a Mosca dall’aderire alla Terza Internazionale, venne arrestato dalla Ceka, la polizia politica.Fu liberato dall’intervento della socialista italo-russa Angelica Balabanoff, per tornare in Italia nel 1923. Vi rimase fino al 1926, un periodo in cui intrecciò amicizie con intellettuali antifascisti di spicco: Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, Umberto Zanotti Bianco, Emilio Lussu. Per aver denunciato con i suoi scritti le responsabilità di Mussolini nel delitto Matteotti, fu costretto a lasciare l’Italia per riparare in Francia. Qui entrò in contatto con gli ambienti dei fuoriusciti antifascisti, in particolare con Carlo Rosselli e col gruppo di Giustizia e Libertà, movimento politico di ispirazione liberalsocialista. Egli inziò così la sua collaborazione ai Quaderni e al settimanale di GL , approfondendo diverse tematiche: il totalitarismo, l’avvento della società di massa, l’evoluzione della politica europea, la degenerazione della rivoluzione sovietica.I suoi scritti influenzarono Carlo Rosselli: ” Fu Caffi – ha scritto lo storico Aldo Garosci – che primo indusse Rosselli ad andare oltre quello che di troppo superficialmente entusiastico di eredità mazziniana, nel senso meno buono c’era in ‘Socialismo liberale’, ad accentuare la polemica contro i vecchi partiti non limitandola solo alla loro inerzia rispetto al fascismo ma estendendola al carattere antiquato, fisso e accademico delle loro dottrine.”
Il sodalizio con GL durò fino al 1935, fino cioè alla cosiddetta “crisi dei novatori”. In quella occasione Caffi si distaccò dal movimento insieme ad altri intellettuali antifascisti: Nicola Chiaromonte, Renzo Giua e Mario Levi. Il motivo del dissenso tra Caffi, Rosselli e i suoi compagni derivava da una diversa lettura del Risorgimento italiano. Caffi definiva la tradizione risorgimentale ” un residuo di vanità nazionale da mettere in soffitta.”Egli osservava che tutte le correnti del Risorgimento avevano trascurato la questione sociale e limitato la lotta politica all’Italia,senza proiettare in ambito europeo il problema delle nazionalità oppresse. Con il compimento dell’unità d’Italia ad opera della monarchia dei Savoia, il Risorgimento era stato ” addomesticato, deviato, confiscato da profittatori equivoci”, ciò aveva causato “un disagio sociale ed un marasma nella vita intellettuale in italia” che avevano avuto per sbocco ( tutt’altro che inaspettato ) il fascismo.” Erano posizioni che non potevano essere accettate in un movimento di derivazione risorgimentale come GL, che viveva l’antifascismo come un secondo Risorgimento.
Allontanatosi da GL ,Caffi continuò il suo impegno politico. Nel periodo dell’occupazione tedesca della Francia, fu in contatto con gruppi di resistenza e per questa attività fu imprigionato nel 1944.
Nel secondo dopoguerra, grazie all’amicizia dello scrittore Albert Camus trovò un impiego alla Casa editrice Gallimard. Nel frattempo continuava con studi e riflessioni. Alcuni suoi scritti comparvero nella rivista Politics dello scrittore americano Dwight Macdonald. E’ il caso di un testo del 1947, Critica della violenza.E’ un lungo saggio nel quale Caffi sostiene la tesi “che un ‘movimento’ il quale abbia per scopo di assicurare agli uomini il pane, la libertà e la pace e quindi di abolire il salariato, la subordinazione della società agli apparati coercitivi dello Stato ( o del Super Stato ), la separazione degli uomini in classi come pure in nazioni straniere ( e potenzialmente ostili ) l’una all’altra, deve rinunciare a considerare come utili, o anche possibili, i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l’insurrezione armata; b) la guerra civile; c) la guerra internazionale ( sia pue contro Hitler… o Stalin ); d) un regime di dittatura o di terrore per consolidare l’ordine nuovo.”
Era una tesi rivoluzionaria per l’epoca, visto che, come ricordava Caffi, nel corso dell’ultimo lungo secolo, dalla Rivoluzione francese alla seconda guerra mondiale, l’Occidente aveva sperimentato in tutte le sue forme ” la febbre e il culto della violenza: esasperazione patriottica, romanticismo rivoluzionario, ‘fardello dell’uomo bianco’, affermazione del superuomo al di là del bene e del male, riflessioni soreliane sulla violenza, terrore giacobino, fascista, bolscevico…” Soprattutto, dopo il 1914, con lo scatenarsi della Prima guerra mondiale, si era entrati nell’era “della violenza totale, indiscriminata e senza tregua”.
Di fronte a questa ondata di violenza, il pacifismo non aveva saputo dare risposte adeguate. Il pacifismo dei socialisti utopisti ( Owen, Saint Simon, Proudhon ), l’evangelismo dei quaccheri e di Tolstoj, erano “ammirati o irrisi come sogni di spiriti ingenui.” La lotta per la pace dei socialisti francesi, come Jaures, era minata alla base dalla difesa della sovranità nazionale.Infine l’antimilitarismo degli anarchici, mentre rifiutava la guerra tra le nazioni, accettava la violenza come strumento della lotta di classe.
A proposito di quest’ultimo punto, ” la violenza rivoluzionaria”, Caffi dedicava passaggi del suo testo alle due grandi rivoluzioni della storia: quella francese del 1789 e quella russa del 1917. Sia nella prima che nella seconda, giacobini e bolscevichi furono mossi da nobili fini ( libertà,uguglianza, fratellanza, giustiza sociale ), ma il mezzo utilizzato per realizzarli, la violenza, causò una degenerazione delle rivoluzioni. I giacobini stroncarono ogni slancio spontaneo del popolo francese, instaurarono il terrore, centralizzarono e militarizzarono la Francia, insomma prepararono il terreno per il dispotismo di Bonaparte. I bolscevichi soppressero i Soviet, instaurarono il regno della Ceka, la polizia politica, repressero ogni forma di dissenso, così facendo aprirono la strada al totalitarismo di Stalin. Condotti dalla logica della “violenza rivoluzionaria”, giacobini e bolscevichi, rivelarono la loro mentalità essenzialmente “antisociale”.
A queste dottrine rivoluzionarie, fondate sulla volontà di potenza, Caffi contrapponeva il suo socialismo umanitario:” Fin dai suoi primordi, nelle concezioni dei grandi pensatori come nel sentimento delle comunità oppresse, ‘socialismo’ ha significato anzitutto annettere un’importanza preminente all’uomo che vive in una trama di rapporti sociali spontanei, egualitari, ‘civili’ :solo per un tale uomo, infatti, i problemi della giustizia e della felicità hanno un senso.” E ancora: “… la violenza è incompatibile con i valori di civiltà e umanità socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propagazione e la fioritura.”
Più o meno negli stessi anni in cui Caffi elaborava la sua “critica della violenza”, un altro intellettuale, Aldo Capitini, faceva della nonviolenza ragione di vita e di lotta politica. Capitini però, illuminato dall’insegnamento del Mahatma Gandhi, indicava le tecniche di lotta nonviolenta ( boicottaggio, disobbedienza civile, resistenza passiva, non collaborazione ) necessarie per opporsi alla barbarie della violenza. In Caffi non troviamo questo piano di riflessione. Straordinario nella lucida analisi della “febbre e del culto della violenza”, in particolare della violenza rivoluzionaria, viene a mancare dal punto di vista delle concrete proposte di azione nonviolenta.
Andrea Caffi morirà in Francia nel luglio del 1955. I suoi scritti ,sparsi in riviste italiane e straniere, sono comparsi una prima volta in Italia nel 1966, nel volume Critica della violenza ( contenente saggi storico-filosofici ) e una seconda volta nel testo Scritti politici, pubblicato nel 1971, a cura di Gino Bianco.
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