VIDEO | Sfatati i pregiudizi: i bimbi con l’autismo sono sopraffatti dalle emozioni
L’IdO ha costruito il test del contagio emotivo (Tce) perché questo aiuta a capire “dov’è il bambino autistico nel percorso evolutivo”
ROMA – “È stato ormai sfatato il pregiudizio secondo cui si riteneva che i bambini con autismo non fossero toccati dalle emozioni. È esattamente il contrario: loro rischiano di essere sopraffatti dalle emozioni. Dobbiamo partire da questa specifica difficoltà che mostrano, fin dall’inizio e con gradualità diverse, nel ‘volgersi verso’ l’altro”. Parte da qui Magda Di Renzo, responsabile del servizio Terapie dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), in diretta Facebook con Andrea Pagnacco, psicoanalista e neuropsichiatra infantile dell’IdO, per spiegare come ‘Comunicare (anche senza parole) nell’autismo. Il contagio emotivo ai tempi del Covid’.
“È una dimensione innata, quella che ci fa ‘volgere verso’ – precisa la psicoanalista – e non è così presente nei bambini con disturbi dello spettro autistico. Non sono recettivi alle gestualità e alle tonalità vocali, e non perché non siano in grado di sentirle o di vederle, ma proprio perché non riescono a volgere l’attenzione verso l’altro“. In questa dinamica “non possiamo tenere in vita una conversazione se non si è a due – prosegue Di Renzo – ed è molto facile che le persone che interagiscano con i bambini coinvolti nei disturbi dello spettro autistico, non ricevendo una risposta, diventano dei partner conversazionali meno attivi”.
In sostanza, “il bambino è sopraffatto dalle emozioni ma non ha gli strumenti per gestirle – spiega ancora la psicoterapeuta dell’età evolutiva – e finisce per chiudere la sua risposta emotiva al mondo in un atteggiamento difensivo, che appunto lo difende dal provare quelle tante emozioni che proverebbe”.
La risposta varia a seconda dei bambini, che sono tutti differenti. “Va dal non provare alcuna emozione all’esserne contagiati, ma senza riuscire a filtrarla e codificarla. Il contagio emotivo – ricorda la studiosa – è un meccanismo precognitivo, preverbale, che implica una non consapevolezza. Mai come in questo periodo di pandemia dovrebbe essere facile per tutti noi capire cosa sia il contagio. Non parlo solo di quello virale, fisico, ma del contagio rispetto alla paura e all’angoscia che ci prende, che corre velocissima e che non riusciamo a identificare. È una paura collettiva che prima ci assale e poi razionalizziamo poiché comprendiamo che ha colto tutti”.
Il bambino con un disturbo dello spettro autistico “si difende, invece, cercando di non sentire le emozioni, o ne rimane contagiato perché non ha gli strumenti gestuali, sonori, per riuscire a comprenderle”. Cosa vuol dire essere contagiati da un’emozione e non riuscire a comprendere che appartiene all’altro? “Significa che l’altro piange – esemplifica l’esperta – ma io rimango in una dimensione di pianto che diventa cosmica, perché non la differenzio tra me e l’altro. A volte si fa confusione nel pensare che i bambini se nominano le emozioni e le riconoscono sulla figura, allora vuol dire che ne hanno consapevolezza. Assolutamente no – chiosa Di Renzo – conoscere il nome delle emozioni non significa riuscire a discriminarle”.
Analizzando la sintomatologia, nei disturbi dello spettro autistico si parla di un “deficit persistente della comunicazione a livello sociale, che poi si articola come difficoltà della reciprocità sociale ed emotiva. C’è un deficit di riconoscimento di comunicazioni mediate dal linguaggio, o non verbali, oppure ancora una difficoltà nella comprensione e nella gestione delle relazioni. Se questi sono i sintomi nucleari dell’autismo – continua Pagnacco – in cui la comunicazione non verbale assume un’importanza tale da farci pensare che c’è una difficoltà a processare gli stimoli che arrivano dall’esterno – soprattutto quelli di tipo sociale ed emozionale – allora diventa necessario indagare le risposte corporee che arrivano da questi bambini”.
Nell’autismo, inoltre, è noto che sia presente un deficit dell’imitazione. Che “rappresenta il primo tentativo di un bambino di entrare nella dimensione dell’altro, nella corporeità dell’altro e quindi nell’emozionalità dell’altro. In questo senso il bambino autistico – prosegue Di Renzo – è deprivato di tale esperienza ed è importante saperlo, perché nel lavoro con lui non dobbiamo saltare questa fase, anzi dobbiamo sostarci il più possibile. Finora a questi concetti non è stata data l’importanza che meritano. Se ipotizziamo che il contagio emotivo (ovvero il passaggio di emozioni tra individui senza la mediazione della consapevolezza) sia una delle tappe all’interno di un processo che porterà il piccolo dall’imitare il primo gesto al capire che l’altro, ad esempio, è arrabbiato – afferma la psicoanalista – allora la possibilità di valutare il contagio ha costituito un modo per vedere il bambino a che punto è arrivato, in un percorso evolutivo che può andare dall’assenza del principio di contagio, al contagio, fino all’empatia”.
IL TEST DI CONTAGIO EMOTIVO
L’IdO ha costruito il test del contagio emotivo (Tce) proprio perché questo tipo di valutazione non esisteva. “C’era quella cognitiva dell’empatia, ma questa avviene solo successivamente”. Il Tce rimedia a questo gap informativo, dando la possibilità di osservare “le risposte che i bambini hanno di fronte alle quattro emozioni di base (felicità, tristezza, paura e rabbia) – ricorda Pagnacco – e registra le modifiche corporee che avvengono in loro di fronte allo schermo. I video fatti vedere ai bambini durano circa 20 secondi e danno la dimensione di una risposta non mediata dall’altro, immediata nel senso letterale del termine”.
Un bambino con disturbi dello spettro autistico, messo di fronte all’emozione, tenderà ad aumentare le sue stereotipie. “Questo ci dà la sensazione che al bambino l’emozione arriva – asserisce Di Renzo – anche se non riesce a gestirla in modo adeguato perché non la decodifica. Nel suo corpo si depositano, quindi, quelle emozioni che non hanno trovato altri canali di espressione. L’aumento delle stereotipie in tal senso ci segnala che il bambino sta reagendo e diventa così un indicatore di quali siano le emozioni su cui dobbiamo maggiormente lavorare”.
L’APPELLO DELL’IDO AI CLINICI
L’appello dell’IdO ai clinici è di “leggere con grande attenzione la corporeità del bambino, perché stiamo parlando di bambini che non sono in grado di darci una risposta verbale. Dobbiamo saper osservare ogni minima sfumatura del corpo, oltre a vedere se il piccolo risponde con la mimica alle emozioni”. Infine, condividere questo percorso con i genitori “li aiuta a sviluppare una successiva sintonizzazione col bambino, con quella modalità di risposta agli stimoli che abbiamo potuto osservare attraverso la valutazione. Diventa anche un importantissimo fattore terapeutico – prosegue Pagnacco – che coadiuva il lavoro più specifico della riabilitazione e a lungo termine migliora molto la qualità della relazione tra i genitori e i bambini”.
Da svariati anni l’IdO ha inserito nella valutazione la presenza di contagio che, insieme ad altri indicatori, “diventa un indice predittivo di un più facile sviluppo verso l’empatia. Come genitore e come operatore sapere che questo bambino ha un potenziale – assicura Di Renzo – fa in modo che mi rivolgerò a lui in modo totalmente diverso. Il lavoro emotivo, corporeo e affettivo ha senso se so che quell’aria è attiva e che posso lavorare per migliorarla. Ma un cambiamento lo ottengo se metto attenzione a questo aspetto. I terapeuti devono essere attenti – concludono gli esponenti dell’IdO – perché così come non si può regolare l’altro se non regoliamo noi stessi, allo stesso modo non si può chiedere all’altro di ‘andare verso’ sé non lo facciamo prima noi”.
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