Per i reati Iva non si prescinde dalle risultanze dei registri
Cassazione Penale, Sezione Terza, Sentenza n. 10389 del 20 marzo 2020
di Martino Verrengia – Secondo i supremi giudici, solo se gli illeciti penali concernono le imposte dirette è, eventualmente, possibile tenere conto degli oneri sussistenti ma non documentati
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 10389 depositata il 20 marzo 2020, ha stabilito che, ai fini della configurabilità dei reati in materia di Iva, la determinazione della base imponibile e della relativa imposta evasa deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, mentre non rileva la sussistenza di eventuali costi non documentati
I fatti in causa
La vertenza prendeva le mosse da un’ordinanza del tribunale di Lucca, quale giudice del riesame delle misure cautelari reali, che rigettava la relativa richiesta proposta dal titolare di una ditta, indagato per il reato di cui all’articolo 5 del Dlgs n. 74/2000, stante l’omessa presentazione di dichiarazioni fiscali per due anni di imposta, nei confronti del decreto di sequestro preventivo del gip del medesimo tribunale, emesso per un ammontare di notevole importo.
Il ricorso per cassazione
Veniva, pertanto, censurata avanti alla suprema Corte l’ordinanza richiamata, con ricorso articolato in quattro motivi di diritto, di cui solo il quarto appare utile ai fini che ci riguardano.
In particolare, il destinatario del provvedimento di sequestro si doleva, quanto all’omessa dichiarazione Irpef, che il tribunale non avesse tenuto conto di costi (in particolare per personale, affitti e locazioni, utenze e servizi, ammortamenti) che, comunque, non erano evincibili dalla dichiarazione Iva, ma avevano in ogni caso adeguata documentazione, ancorché non fossero stati compresi nelle scritture contabili. Detto argomento si dimostrava – dal suo punto di vista – di centrale rilievo poiché, in ragione di ciò, non sarebbe stata superata la soglia di punibilità.
Anche il procuratore generale concludeva per l’annullamento con rinvio del provvedimento gravato.
La pronuncia del Collegio di nomofilachia
La Corte di cassazione, nell’accogliere parzialmente il ricorso, coglie l’occasione per ribadire interessanti principi in materia di sistema penale tributario.
Il provvedimento impugnato – osserva la Corte – ha sostenuto di avere tenuto in considerazione i costi documentati sostenuti dal contribuente, come ricavabili dal registro Iva. Peraltro, in tal modo, non erano state conteggiate le voci che in detti registri non erano comprese, e che il ricorrente aveva evidenziato in costi del personale, in costi per affitti e locazioni, in costi per utenze e servizi ed ammortamenti.
Al riguardo – riscontra il collegio di nomofilachia – di siffatte voci non vi era traccia nell’ordinanza impugnata e, quindi, nella determinazione della base imponibile, laddove anzi non era spesa parola in proposito, benché lo stesso provvedimento avesse dato atto della questione.
La necessaria documentazione dei costi ai fini Iva
Ciò comportava, secondo la Cassazione, l’annullamento con rinvio dell’ordinanza gravata, con ordine al giudice di merito di attenersi ai principi di diritto enunciati.
Infatti, ai fini della configurabilità dei reati in materia di Iva, la determinazione della base imponibile, e della relativa imposta evasa, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l’eventuale sussistenza di costi non documentati, mentre è possibile tenere conto di questi ultimi nelle ipotesi di reati concernenti le imposte dirette.
L’Iva è, infatti, collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale, che prevede la tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali, a nulla rilevando l’eventuale sussistenza di costi effettivi non registrati che, invece, possono essere considerati con riferimento alle imposte dirette, non vincolate al rispetto di stringenti oneri documentali.
Il principio espresso dalla suprema Corte, in definitiva, risulta consolidato, in quanto espresso in ulteriori pronunce, non risalenti nel tempo, quali Cassazione n. 53980/2018 e n. 38684/2014.
In definitiva, se è “rimesso … al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio detraibili, mediante una verifica che “privilegi” il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale” (Cassazione del 2014 citata), detta discrezionalità assume carattere ben più limitato in materia di accertamento di illeciti che riguardano l’imposta sul valore aggiunto, stante la natura di imposta armonizzata propria di quest’ultima, e, pertanto, legata ad ambiti di rigore dettati dalla normativa sovranazionale di riferimento.
Allegato Pdf:
Cassazione Penale, Sezione Terza, Sentenza n. 10389 del 20 marzo 2020
Fonte Fiscooggi.it