100 medici morti, le storie di chi è caduto in prima linea
di Lucia Scopelliti e Margherita Lopes – C’è chi ha perso la sua personale battaglia contro Covid-19 dopo giorni e giorni spesi in prima linea contro il virus, a curare i pazienti. Chi è stato colpito a tradimento, vittima ‘collaterale’ di un’emergenza, e chi aveva indossato di nuovo il camice bianco per tornare in corsia a dare una mano. Medici nel pieno della carriera, a un passo dalla pensione o già in pensione da tempo. Tra i 100 dottori portati via da Covid-19 spicca Adelina Alvino De Martino, classe 1926, cardiologa in pensione ed ex primario a Torino, morta a 94 anni di coronavirus in una casa di riposo di Milano. Ma anche Ivano Garzena, odontoiatra torinese di soli 49 anni che è anche il primo dentista morto per coronavirus in Italia. Finora la più anziana e il più giovane fra i dottori vittime di Sars-CoV-2.
Scorrendo i nomi vengono a galla le storie nella ‘Spoon River’ dei camici bianchi. A inaugurarla Roberto Stella, presidente dell’Ordine dei medici di Varese. La sua morte, l’11 marzo, suona come un campanello d’allarme nel mondo della sanità. I caduti inizialmente si concentrano sul fronte più ampio: la Lombardia. Giuseppe Lanati, pneumologo di Como e il suo collega Raffaele Giura; Giuseppe Borghi, medico di famiglia di Casalpusterlengo; Carlo Zavaritt che aveva 80 anni e a Bergamo nella sua carriera di pediatra e neuropsichiatra aveva curato tanti bimbi. Luigi Frusciante, medico di famiglia in zona Como, in pensione ma ancora operativo. E guardando all’elenco globale, fa riflettere che in oltre il 50% dei casi i caduti siano proprio i camici bianchi di fiducia dei cittadini, i medici di famiglia.
Nella prima metà di marzo i numeri cominciano a crescere. Bergamo, fra le città più colpite, dice addio anche al medico di base Mario Giovita. Alla sua scomparsa segue quella dell’epidemiologo Luigi Ablondi, storico manager della sanità lombarda, ex direttore generale dell’ospedale di Crema. Poi, ancora due medici di medicina generale, Franco Galli (Mantova) e Ivano Vezzulli nel Lodigiano. Non è passata neanche una settimana dalla morte del primo camice bianco e la lista ha già più di 10 voci. Napoli spezza l’elenco lombardo delle vittime, con la perdita di Massimo Borghese, specialista in Otorinolaringoiatria e Foniatria. Ma si torna subito in quello che è stato il primo epicentro dei contagi da nuovo coronavirus in Italia, con Marcello Natali, medico di famiglia dell’area di Codogno nel Lodigiano, morto a 56 anni dopo giorni in prima linea, in cui si è speso anche per sostituire colleghi malati.
“Io purtroppo non vado bene, desaturo parecchio, in mascherina con 12 litri di ossigeno arrivo a 85. Prevedo un tubo nel breve/medio termine”, aveva scritto con lucidità Natali in un sms all’amico e collega Irven Mussi. Il suo è un ricordo commosso ma anche pieno di rabbia. “Siamo stati mandati in guerra senza nessuna protezione; almeno i fanti portavano l’elmo”, scrive Mussi nella sua lettera di addio al camice bianco, “una quercia”. E in un’intervista all’AdnKronos Salute Natali aveva raccontato proprio delle difficoltà che fronteggiavano i medici di famiglia nella prima zona rossa, fra i quali figuravano già da subito contagiati, ricoverati e colleghi in quarantena.
Era dirigente medico in un’Agenzia di tutela della salute, invece, Vincenza Amato. Lavorava all’Ats di Bergamo, in una delle province più martoriate. Lei è uno dei camici rosa stroncati dal virus. Le voci al femminile nell’elenco dei caduti, fra cui c’è per esempio anche Bruna Galavotti, psichiatra e decana dell’Associazione Donne Medico di Bergamo, sono meno numerose rispetto a quelle maschili ma anche le donne pagano il loro tributo a Covid-19.
La malattia non fa distinzioni geografiche né di discipline. Colpisce specialisti di ogni settore. Nel Lazio la prima vittima del virus è stato un ginecologo, Roberto Mileti, 60 anni. Romano, si era trasferito da più di 20 anni nel capoluogo pontino. Lì lavorava alla clinica San Marco. A essere colpito è anche un medico termale, Ghvont Mrad. C’è poi il caso di Chiara Filipponi, anestesista di Portogruaro, che non rientra nel conteggio. E’ infatti morta – spiega la Fnomceo – a causa di una malattia allo stadio terminale, pur essendo risultata positiva al coronavirus.
Il primo decesso in Campania tra i medici di famiglia si è registrato a Napoli: Gaetano Autore, 69 anni, operava al quartiere Vomero ed era a un passo dalla pensione. Pensione che non ha fermato Gino Fasoli, 73 anni, abruzzese d’origine e operativo a lungo nel Bresciano, che a 4 anni dal suo ‘ritiro’ non ha esitato a tornare in ambulatorio per evitare che restassero buchi nella presa in carico dei malati, con tutti i camici bianchi impegnati sul fronte dell’emergenza. Anche Anna Maria Focarete, 70 anni, tecnicamente sarebbe dovuta essere in pensione. Medico di famiglia nel Lecchese, aveva deciso di restare ancora qualche mese per affiancare la tirocinante.
Aveva invece appeso il camice bianco al chiodo da un mese Andrea Carli. Iscritto a Imperia, lavorava come medico di medicina generale nel Lodigiano. Non è riuscito a godersi la pensione. Era partito per un viaggio in India, dove è morto (l’infezione verosimilmente sarebbe avvenuta prima della partenza).
Per Ivan Mauri, 69 anni, l’addio alle attività sarebbe arrivato a settembre. “Era in studio fino a qualche giorno prima” della sua morte, ha raccontato l’amico e collega Roberto Mantica. Un altro camice bianco della medicina di gruppo di cui faceva parte “ha visto che aveva cominciato a non sentirsi bene, gli ha misurato la saturazione e gli ha consigliato di andare in ospedale”. Nel giro di poco “Ivan non c’era più”.
Si piangono camici bianchi da Nord a Sud. Era siciliana la prima dottoressa morta in Trentino: Gaetana Trimarchi, 57 anni di S. Teresa di Riva in provincia di Messina, era medico di medicina generale in servizio all’Azienda provinciale per i servizi sanitari e operativa a Pozza di Fassa. Si era trasferita in Trentino una ventina di anni fa.
Il primo morto per Covid-19 tra i medici di famiglia in Sardegna è Nabeel Khair, 62 anni, in servizio da pochi mesi a Tonara ma anche storica Guardia medica di Aritzo, entrambi nel Nuorese. Kahir, palestinese, viveva da molti anni in Sardegna ed è stato uno dei primi medici di famiglia contagiati da Covid-19 nell’isola. A Firenze il primo medico morto è stato Giandomenico Iannucci, che operava a Scarperia e San Piero (Firenze). Il dottore di famiglia era risultato positivo al Covid-19 a metà marzo scorso.
Antonio Maghernino, guardia medica di 59 anni di San Severo (Fg), è invece il primo dottore ucciso in Puglia dal virus. In servizio a Torremaggiore, è morto nell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo. L’ultimo medico morto in Campania, regione in cui il virus è emerso in piccoli ma allarmanti focolai che hanno portato a blindare alcuni paesi, e in cui si piangono 7 camici vittime del nuovo coronavirus, è Antonio De Pisapia, medico di famiglia molto conosciuto a Cava de’ Tirreni, in provincia di Salerno. Aveva scoperto di essere positivo dopo aver visitato un suo paziente a Cava, morto poi per il virus.
Aveva 69 anni il siciliano Calogero Giabbarrasi, medico di medicina generale di Riesi (Caltanissetta), ucciso dal virus dopo un ricovero al Sant’Elia. Molto noto per il suo impegno politico Pippo Vasta, medico di famiglia di Belpasso (Catania), pianto da pazienti e concittadini. La penultima segnalazione arriva ancora una volta da Bergamo: si tratta del medico di medicina generale Mario Rossi, classe 1944, il 99mo camice bianco ucciso da Sars-Cov-2. Con la notizia della morte di Samar Sinjab, medico di medicina generale di Mira (Ve), 62 anni e mamma di un medico, salgono a 100 i dottori scomparsi per Covid-19.
ANELLI: “ORA RIFLETTA CHI DOVEVA TUTELARLI” – “Cento colleghi morti. E’ una ferita sulla pelle di tutti i medici. Mai avremmo pensato di arrivare a tanto. Questi numeri devono far riflettere chi doveva tutelarci”. Non nasconde la sua amarezza all’Adnkronos Salute il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli. “La sicurezza sul lavoro è un diritto dei cittadini, ma anche dei medici. E’ opportuno riflettere su quanto questo virus ci abbia colti impreparati e sul fatto che garantire la sicurezza sul lavoro è un dovere dello Stato”, aggiunge Anelli, sottolineando “che i medici di famiglia hanno pagato il tributo più pesante”.
“Sono stati lasciati soli a combattere a mani nude contro il virus – denuncia il presidente della Fnomceo – Se i medici si sono ammalati, questo è accaduto perché sono stati contagiati visitando i loro pazienti”. In Italia “c’è una paura diffusa, ma non posso tacere l’esigenza di tutelare un diritto, quello alla sicurezza sul lavoro. I medici garantiscono la salute e le cure agli italiani, ma hanno a loro volta il diritto di agire in sicurezza. Chi non li ha messi in condizione di farlo deve riflettere – sottolinea Anelli – e riflettere molto. Perché quello che abbiamo sotto gli occhi, oggi che piangiamo 100 colleghi morti, non si ripeta mai più”.