Mobbing: lo stato dell’arte secondo la Cassazione
A cura dell’Avv. Marco Martini
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E’ configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti dannosi interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684);
E’ configurabile lo straining, quale forma attenuata di mobbing, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844), ma comunque con effetti dannosi rispetto all’interessato;
E’ comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento — imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n. 9901), fermo restando che si resta al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028) o tutto si riduca a meri disagi o
lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U. , 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972);
Nelle prime due situazioni (mobbing e straining), fonti di responsabilità che possono derivare non solo da inadempimenti, ma anche da comportamenti interni al rapporto di lavoro che, se singolarmente valutati, potrebbero anche essere astrattamente legittimi o relativi ad altrimenti normali conflitti interpersonali, rispetto ai quali è l’intenzionalità (vessatoria o stressogena) a qualificare l’accaduto come illecito contrattuale diretto (ove il datore di lavoro sia autore o partecipe della dinamica vessatoria) o indiretto (se siano altri lavoratori a tenere il comportamento illegittimo ed al datore si possa imputare di non averlo impedito).
Nelle vicende dannose imputabili anche per sola colpa, fonti di responsabilità che si radicano in atti, al di là dei quali si rientra nell’ambito del lecito, derivanti dall’inadempimento tout court del datore a propri obblighi o dalla violazione, parimenti da caratterizzare come inadempimento, a specifiche norme, purché, come del resto anche in caso di mobbing o straining, sia predicabile un coerente nesso causale tra i comportamenti perseguiti e il danno lamentato;
le predette situazioni si innestano tutte nell’alveo dell’art. 2087 c.c., quale norma di riferimento rispetto alle responsabilità datoriali per danni alla persona del lavoratore derivanti dalla condizioni in cui viene prestato il lavoro e partecipano della dinamica probatoria tradizionalmente propria di tale norma;
così ricostruiti i tratti essenziali del fenomeno giuridico interessato, è evidente come siano fuorvianti quei profili sul cui la Corte territoriale ha fatto leva per escludere il ricorrere di una responsabilità datoriale;
non è vero infatti, come sostanzialmente si censura in alcuni passaggi del quarto motivo, che presupposto della responsabilità datoriale, anche nel pubblico impiego, sia la prova dell’efficienza della prestazione del lavoratore, in quanto l’inadempimento del lavoratore ai propri obblighi, in ipotesi, legittima il datore di
lavoro a porre in essere le opportune misure disciplinari, ma non certo a sconfinare con i propri comportamenti nell’illecito, in una delle configurazioni di cui si è sopra detto;
non è poi neppure vero che l’intenzionalità rilevante rispetto alle figure (mobbing o straining) sopra richiamate, sia solo quella, come sembra affermare la sentenza impugnata, che si radichi in una privata ostilità tra i superiori ed il lavoratore, in quanto non ha alcun rilievo fondante, rispetto all’an della
responsabilità, quale sia l’origine motivazionale dei comportamenti, ancora in ipotesi, illegittimi, del datore di lavoro, essendo sufficiente il manifestarsi, dal punto di vista del coefficiente soggettivo e come incidentalmente si rileva nel contesto del quarto motivo, il ricorrere di un «mero intento vessatorio» o stressogeno;
la sentenza impugnata è poi erronea anche nella parte in cui essa, pur quando riconosce che, «quanto meno nel periodo finale e conclusivo della vicenda», l’affezione lamentata aveva «causa lavorativa», ritiene di escludere la responsabilità datoriale sul presupposto che non fosse «agevole e forse neppure possibile» per il datore organizzare ed attuare un intervento efficace e ciò, si spiega di seguito, in quanto sarebbe notorio (con citazione espressa dell’art. 115 secondo comma c.p.c.) che la malattia psichica si manifesterebbe proprio con l’incapacità di percepire l’effettiva realtà dei rapporti interpersonali e quindi, stante l’atteggiamento «narcisistico» della versione dei fatti offerta dal ricorrente, il datore si sarebbe trovato nell’impossibilità di evitare il determinarsi del danno;
il ragionamento, ponendo in correlazione l’esonero dalla responsabilità di cui all’art. 2087 c.c. con l’impossibilità datoriale di impedire il danno, è astrattamente corretto, ma anch’esso, in concreto, si appalesa poi come giuridicamente errato;
infatti, al fine di giustificare l’impossibilità datoriale di evitare il pregiudizio, la sentenza fa leva, come detto, su un’affermazione in merito a quella che sostiene essere una notoria incapacità di chi sia affetto da malattia psichica di percepire l’effettiva realtà dei rapporti interpersonali;
non si tratta qui di censurare un difetto di motivazione nel senso di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., ma più in specifico, come giustamente ha fatto il ricorrente con il terzo motivo ed attraverso il richiamo agli artt. 360 n. 3 e 115, co. 2, c.p.c., la violazione di una delle norme (appunto l’art. 115, co. 2, c.p.c.) che regolano l’apprezzamento degli elementi istruttori, con particolare riferimento alle
caratteristiche del c.d. fatto notorio;
in effetti «le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza» di cui all’art. 115, co. 2, c.p.c. e che qui interessano in quanto la sentenza impugnata ha appunto evocato l’esistenza di un fatto notorio nella asserita «incapacità di percepire l’effettiva realtà dei rapporti interpersonali» in capo a chi sia affetto da «malattia psichica», possono dirsi tali solo in quanto si possa parlare di fatti o anche regole esperienza che siano pacificamente acquisite al patrimonio di cognizioni dell’uomo medio, ovverosia che risultino acquisiti alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili (Cass. 29 ottobre 2014, n. 22950; Cass. 19 marzo 2014, n. 6299; Cass. 5 ottobre 2012, n. 16959);
non possono essere invece considerarsi tali quelle valutazioni che, per la specificità scientifica e l’assenza di un’acquisita tangibilità oggettiva diffusa, necessitino, per essere formulate, di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi;
viceversa, quanto sostiene la Corte territoriale, ovverosia che vi sia un nesso addirittura notorio, tra una generica «malattia psichica» e la capacità di affrontare le relazioni interpersonali, al punto di ingenerare un’impossibilità datoriale di porre rimedio allo scaturire dal lavoro di un danno per il lavoratore interessato è affermazione apodittica e non riportabile ad una regola o ad un fatto di comune esperienza e che si colloca come tale al di fuori dell’ambito di cui all’art. 115, co. 2, c.p.c.;
infatti le conseguenze interpersonali o socio relazionali delle malattia psichiche appartengono, allo stato, al patrimonio tipico delle conoscenze e degli apprezzamenti scientifici dell’ambito specialistico medico-legale e psichiatrico, palesemente non surrogabile da valutazioni, consequenzialmente sommarie e
grossolane, del c.d. quisque de populo.
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Ordinanza 15159/2019