Le pronunce della Corte di giustizia non condizionano i rapporti esauriti
La vicenda processuale e la pronuncia della Cassazione
Nel settembre 2006, una società presentava istanza di rimborso per un’Iva assolta nel 2002, quando era in vigore la norma che prevedeva l’indetraibilità assoluta dell’imposta relativa alle spese di acquisto delle auto aziendali e dei relativi servizi di manutenzione, parcheggio, pedaggio e carburante.
A fondamento dell’istanza, soprattutto in relazione alla sua tempestività, la ricorrente deduceva che soltanto il 14 settembre 2006 era stata depositata la sentenza della Corte di giustizia dichiarativa dell’incompatibilità dell’allora vigente articolo 19-bis.1 del Dpr 633/1972 con il diritto comunitario (in particolare con l’articolo 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva Iva), per il fatto che quest’ultimo non autorizza uno Stato membro a escludere alcuni beni dal regime delle detrazioni dell’Iva senza previa consultazione del Comitato consultivo dell’Iva e senza una limitazione temporale: di conseguenza, soltanto da tale momento poteva decorrere il dies a quo del termine biennale di decadenza per la presentazione dell’istanza di rimborso.Al rigetto dell’istanza, a causa della sua tardività, seguiva il contenzioso che, sia in Commissione tributaria provinciale sia in Commissione tributaria regionale, vedeva prevalere la contribuente.
In particolare, secondo la Ctr, l’errore in cui era incorso il contribuente, omettendo di portare in detrazione l’Iva assolta sugli acquisti sostenuti, era stato indotto dalla normativa interna, il cui contrasto con l’ordinamento comunitario era emerso solamente a seguito della suddetta sentenza della Corte di giustizia.
Con il successivo ricorso per cassazione, l’Agenzia denunciava la violazione dell’articolo 19 del Dpr 633/1972 e dell’articolo 21 del Dlgs 546/1992, e la contestuale falsa applicazione dell’articolo 57 del Dpr 633/1972, per avere la sentenza di merito disapplicato il termine di decadenza biennale per la proposizione dell’istanza di rimborso (ai sensi dell’articolo 21, comma 2, Dlgs 546/1992, che si applica alle fattispecie residuali non contemplate in disposizioni specifiche).
La Cassazione ha accolto tale motivo di ricorso e, decidendo nel merito, ha respinto l’originaria impugnazione proposta dal contribuente.
Dopo aver ricordato l’orientamento della Corte di giustizia, secondo cui non è, in linea di principio, contraria all’ordinamento comunitario la previsione nazionale che imponga un termine di decadenza per l’esercizio del diritto a detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, in relazione al dies a quo di tale termine decadenziale, i giudici – riprendendo quanto espresso di recente dalle sezioni unite, con sentenza 13676/2014 – hanno ritenuto che tale termine non possa essere correlato alla pronuncia della Corte di giustizia, né, tanto meno, al provvedimento interno che vi ha dato attuazione.
Ciò in applicazione del principio per cui “allorché un’imposta sia stata pagata sulla base di una norma successivamente dichiarata in contrasto con il diritto dell’Unione europea, i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di overruling non sono invocabili per giustificare la decorrenza del termine decadenziale del diritto al rimborso dalla data della pronuncia della Corte di giustizia o, ancor dopo, dalla data di emanazione del provvedimento normativo che a essa abbia dato attuazione, piuttosto che da quella in cui venne effettuato il versamento, dovendosi ritenere prevalente una esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, tanto più cogente nella materia delle entrate tributarie, che resterebbe vulnerata attesa la sostanziale protrazione a tempo indeterminato dei relativi rapporti”.
Ulteriori osservazioni
In via generale, gli effetti di una sentenza interpretativa della Corte di giustizia (come quelli delle pronunce della Corte costituzionale che dichiarano l’illegittimità di una norma) retroagiscono fino alla data di entrata in vigore della norma interpretata, salvo diversa previsione di decorrenza espressamente contenuta nella stessa pronuncia di illegittimità.
Tuttavia, la giurisprudenza comunitaria ha da sempre riconosciuto tutela ai cosiddetti “rapporti esauriti” scaturenti, non solo da pronunce giurisdizionali passate in giudicato, ma anche da provvedimenti amministrativi divenuti definitivi per scadenza del termine di impugnazione, in omaggio al principio della certezza delle situazioni giuridiche.
A tal proposito, la Corte europea ha dapprima affermato che “il diritto comunitario non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata a una decisione, anche quando ciò permetterebbe di accertare una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione” (sentenza 16 marzo 2006, causa C-234/04, cfr anche sentenza 1 giugno 1999, causa C-126/97).
Inoltre, nella sentenza del 13 gennaio 2004, causa C-453/00, la Corte ha affermato che “il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza (del diritto, ndr) e da ciò deriva che il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo”.
La definizione del perimetro dei cosiddetti rapporti esauriti è stata ulteriormente affinata dalla giurisprudenza di legittimità, che vi ha ricompreso anche quelle situazioni divenute intangibili a seguito di “altri fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale, quali la prescrizione e la decadenza” (cfr Cassazione 7057/1997 e 891/1996).
Con specifico riferimento alla ripetizione di tributi riscossi in base a norme nazionali dichiarate incompatibili con il diritto comunitario, la Corte di giustizia ha sottolineato che “spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario, fermo restando che le dette modalità non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario” (cfr sentenza 15 settembre 1998, causa C-231/96; anche sentenza 17 novembre 1998, causa C-228/96; sentenza 17 luglio 1997, cause riunite C-114/95 e C-115/95; sentenza 16 gennaio 2014, causa C-429/12).
In altri termini, spetta al diritto interno dei singoli Stati fissare le modalità di restituzione dei tributi, con l’unico limite del rispetto dei principi di ragionevolezza, uguaglianza e certezza dei rapporti giuridici (attraverso la previsione di termini di decadenza).
Il contrasto più acceso nell’ambito della giurisprudenza interna si è incentrato sulla decorrenza del termine per richiedere il rimborso dell’imposta versata, in applicazione di una norma interna ritenuta successivamente in contrasto col diritto comunitario: sul punto la Cassazione, con sentenza 13087/2012, ha stabilito che “In tema di rimborso delle imposte sui redditi, l’indebito tributario è soggetto ai termini di decadenza o prescrizione previsti dalle singole leggi di imposta, qualunque sia la ragione della non debenza…. La scadenza del termine per richiedere il rimborso determina il consolidamento dei rapporti di dare e avere tra contribuente ed erario e l’esaurimento dello stesso rapporto tributario (cfr Cassazione 9223/2011), con la conseguenza che il contenuto dello stesso non può più essere rimesso in discussione. Ne deriva che, anche le richieste di rimborso dei tributi incompatibili con la normativa comunitaria, devono essere presentate entro i termini di decadenza, termini che non contrastano con le disposizioni comunitarie”.
Sulla base di tali argomentazioni veniva rigettata la richiesta di rimborso del contribuente, in quanto la relativa istanza era stata presentata oltre 48 mesi dopo l’effettuazione delle ritenute.
A chiarire in modo definitivo la vicenda sono intervenute le sezioni unite della Cassazione che, con sentenza 13676/2014 (resa in tema di incentivo all’esodo dei lavoratori, ma applicabile anche alla questione oggetto della pronuncia in commento), hanno aderito all’orientamento della giurisprudenza maggioritaria “nel senso della decorrenza del termine comunque dal giorno successivo al versamento poi rivelatosi indebito”.
Sul punto, la sentenza ha ricordato che, già in relazione al problema della decorrenza del termine decadenziale nel caso di ritardata trasposizione nell’ordinamento interno di direttiva comunitaria self executing, la Corte ha chiarito che “il principio posto dall’articolo 2935 del codice civile, secondo cui la prescrizione ‘comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere’ – il quale è da ritenersi applicabile anche alla decadenza – deve essere inteso con riferimento alla sola possibilità legale, non influendo sul decorso della prescrizione … l’impossibilità di fatto di agire in cui venga a trovarsi il titolare del diritto”.
Tra gli impedimenti di fatto, va annoverato anche l’ostacolo all’esercizio di un diritto rappresentato dalla presenza di una norma costituzionalmente illegittima o incompatibile con il diritto comunitario: in questo caso chi si ritenga leso da tale limitazione ha il potere di percorrere la via dell’instaurazione di un giudizio in quanto “il contrasto tra la norma di diritto interno e quella comunitaria può essere rilevato direttamente dal giudice che, sulla base di tale premessa, è tenuto a non darle applicazione, anche quando sia stata emanata in epoca successiva a quella comunitaria” (cfr Cassazione 10231/1998, 7176/1999 e anche 18276/2004).
Tali principi sono stati confermati, sulla base delle stesse ragioni, anche per le ipotesi in cui l’incompatibilità del diritto interno con il diritto comunitario sia stata dichiarata con sentenza della Corte di giustizia (cfr Cassazione 4870/2012 e 13087/2012)
Per quanto concerne l’overruling (consistente nel mutamento repentino e imprevedibile di un orientamento della giurisprudenza, rispetto a pregresse interpretazioni ritenute stabili e consolidate, che comporta la compressione del diritto di azione e di difesa della parte – si tratta quindi di un istituto con effetti tipicamente processuali), secondo la Cassazione (che ne ha escluso l’applicabilità alla fattispecie in esame), “affinché un orientamento del giudice della nomofilachia (lo stesso principio vale per le pronunce del giudice comunitario) non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte (cfr Cassazione 28967/2011, 6801/2012, 13087/2012, 5962/2013 e 20172/2013)”.
Nel caso affrontato dalle sezioni unite (ma la stessa cosa può dirsi in merito alla pronuncia in commento) “la sentenza della Corte di giustizia non solo non è intervenuta (in malam partem, cioè con effetti preclusivi dell’esercizio del diritto) su norme di carattere processuale, ma neanche sulle disposizioni, di natura sostanziale, che qui interessano, relative ai termini (di prescrizione o decadenza) per l’esercizio del diritto alla ripetizione dell’indebito tributario, bensì, con effetto ampliativo, su una norma tributaria che riduceva illegittimamente la portata di un beneficio fiscale”.
Ne consegue che, anche in omaggio al principio di certezza del diritto, non possono essere intaccati i rapporti “esauriti”.