Contro la Partitocrazia: Giuseppe Maranini
Alla voce partitocrazia del Dizionario di storia della Treccani, leggiamo: “Predominio, strapotere dei partiti, che tendono a sostituirsi alle istituzioni rappresentative nella direzione e nella determinazione della vita politica democratica dello Stato. Il termine fu introdotto nel dibattito politico italiano a partire dagli anni Sessanta in polemica con il consolidamento del sistema dei partiti nella società dell’Italia del secondo dopoguerra.”. A questa voce va fatta una correzione, perché il termine partitocrazia fu introdotto nel dibattito politico italiano , già negli anni Cinquanta, grazie agli studi e alle riflessioni di Giuseppe Maranini. Maranini fu un giurista, professore universitario, storico e politologo. Egli riprese il termine partitocrazia da uomini politici di tendenze liberalmoderate oppositori dei governi costituiti dal Comitato di Liberazione Nazionale e lo usò per la prima volta nel 1949, in una prolusione all’Università: GOVERNO PARLAMENTARE E PARTITOCRAZIA.
Per Maranini la partitocrazia è un degenerazione della democrazia liberale è una concezione che pone i partiti prima dello Stato e sopra lo Stato. Attraverso il sistema elettorale proporzionale e il voto di fiducia in Parlamento i partiti possono controllare in modo rigoroso deputati e senatori, controllano cioè il potere legislativo, che è il cuore di ogni costituzione. In Italia la partitocrazia ha avuto una lunga storia. Secondo Maranini già all’epoca dell’intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale, “il fragile edificio” della costituzione liberale italiana, lo Statuto albertino, “appariva squilibrato e compromesso.”
Ai tempi di Cavour e della Destra Storica ( 1861 – 1876 ), vi era ancora un certo equilibrio tra Monarchia, Governo, senato regio, camera e magistratura. Negativo è invece il giudizio di Maranini sulla Sinistra Storica le cui scelte politiche diedero vita ad una “confusa dittatura di assemblea”, visto che tutto il potere si raccoglieva nella camera dei deputati. In effetti il trasformismo di Depretis, ripreso a grandi linee da Giolitti, annullava le distinzioni radicali tra governo e opposizioni e trasformava la camera dei deputati in un luogo dove si cercavano compromessi tra forze politiche talvolta anche sulla base di interessi clientelari.
Questo stato di cose fu consacrato e legalizzato con l’introduzione del sistema elettorale proporzionale nel 1919, che inaugurò ufficialmente l’era della partitocrazia. Maranini fu sempre convinto della contraddizione assoluta tra principio del governo parlamentare e principio proporzionalista. Nel sistema elettorale fondato sulla proporzionale, introdotto nel 1919 e ripreso nel 1946, la scelta dei candidati è determinata dalla loro “sicura docilità” nei confronti dell’apparato del partito che li manda in parlamento. Da ciò derivano tre conseguenze:1) il personale di partito è selezionato in ragione inversa al merito; 2) il distacco della lotta politica dai problemi concreti e il suo imperniarsi su rigide astrazioni mitologiche e ideologiche;3) il deputato non ascolta gli interessi del collegio elettorale, ma solo il partito, la sua astratta ideologia e le direttive dei suoi dignitari.
Ai guasti del proporzionalismo Maranini contrappose sempre i vantaggi del sistema elettorale uninominale, dove il successo dei candidati dipende dalla capacità di interpretare i sentimenti e gli interessi del maggior numero di elettori possibili e siccome questi interessi e sentimenti sono realtà in perpetuo mutamento i candidati dovranno sempre essere attenti a “sentire” il collegio, cioè a interpretarne gli umori e le esigenze. Anche nel sistema uninominale il candidato si presenta sotto la bandiera di un partito ed è tenuto alla lealtà verso il partito, ma è costretto a guardare più al collegio che al partito se vuole prevalere.
Invece, come si è detto, nel 1919 il sistema elettorale uninominale venne abbandonato per fare spazio al proporzionalismo che non solo, inaugurò l’età della partitocrazia, ma spianò la strada al fascismo. Secondo Maranini il fascismo fu la conseguenza e la diretta derivazione del proporzionalismo e della dittatura di assemblea che aveva preso piede in Italia con l’età della Sinistra Storica. “ Il fascismo – scrive Maranini – non fu che il capovolgimento della incoerente e anarchica dittatura di assemblea che lo aveva, preceduto in dittatura personale.” Una dittatura nella quale un peso enorme era esercitato dal partito unico. In sostanza , secondo Maranini, con la crisi dello Stato liberale vi fu un oscillazione nel sistema partitocratico: da una partitocrazia pluralistica a una partitocrazia monolitica, cioè a partito unico. Naturalmente tra l’uno e l’altro regime vi era un enorme differenza, ma in entrambi i casi il potere vero era fuori degli organi costituzionali dello Stato.
Caduto il fascismo, l’instaurazione di una democrazia liberale, che richiamasse tutto il potere nello stato e nei suoi organi responsabili e controllati si rivelò un problema difficilissimo e quasi disperato. Sulla carta venne parzialmente risolto con la nuova costituzione della Repubblica ( che assegnava discreti poteri al Presidente della Repubblica; prevedeva una Corte Costituzionale e un Consiglio Superiore della Magistratura ), ma nei fatti , secondo Maranini “non si andò più in là di una confusa e incoerente dittatura di assemblea, strettamente affine a quella che aveva preceduto e causato il fascismo.”
Certo Maranini era consapevole dell’importanza dei partiti in una democrazia liberale. “ lo Stato democratico – scriveva – è e deve essere Stato di partiti: poiché dove c’è circolazione di notizie e di idee, sorgono e debbono sorgere orientamenti diversi e le forze affini per idee e per interessi tendono a solidarizzare e a raggrupparsi. Ma condizione della civiltà liberale è che i partiti rimangano nella maggior misura possibile organizzazioni libere e fluide, dove la base sia quasi tutto, o dove almeno la macchina non sia tutto… “
Dunque per Maranini la lotta contro la partitocrazia era lotta contro la tendenza dei partiti a diventare “ macchine”, cioè a vivere una degenerazione oligarchica.
Maranini era consapevole anche dei rischi della rivolta contro la partitocrazia, quando essa tendeva “ad esprimersi in formule negative, suscitando un senso di sfiducia, più che una militante volontà di riforma.” Il suo programma di riforme antipartitocratiche era ben chiaro: restaurazione del sistema elettorale uninominale, attuazione delle parti della costituzione del 1948 che garantivano indipendenza della Magistratura ( Consiglio Superiore della Magistratura ), smantellamento della legislazione fascista e controllo sull’attività legislativa del Parlamento ( Corte Costituzionale ), lotta contro la degenerazione oligarchica dei partiti.
Maranini espose le sue idee sulla partitocrazia in numerosi testi e articoli comparsi su quotidiani nazionali. Tuttavia le sue rimasero posizioni di minoranza. Solo intorno alla metà degli anni Cinquanta riscossero un certo successo negli ambienti liberaldemocratici e tra i cattolici moderati ostili al Centro – Sinistra. In generale però , la sua opera rimane ancora poco conosciuta nell’opinione pubblica che si occupa di politica, eppure essa contiene ancora spunti interessanti per chi voglia riflettere sul ruolo dei partiti nella democrazia; sui punti di forza e sui limiti dei diversi sistemi elettorali e più in generale sulla natura di una democrazia liberale. Invece il dibattito attuale su questi temi scade spesso nella vuota polemica dell’antipolitica, frutto dell’ignoranza della storia della nostra cultura politica, in cui un posto di primo piano spetta alla figura di Giuseppe Maranini.
Prof. Pancrazio Caponetto