Azione di responsabilità contro gli amministratori di una società fallita
Casi più frequenti: mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili e perdita del capitale sociale senza attuare gli opportuni provvedimenti. Onere della prova.
di Avv. Elena Pompeo
La crisi dell’impresa è fenomeno che si sviluppa e si sostanzia in un determinato arco temporale e non può trovare una collocazione in un preciso momento storico. Prima di giungere, quindi, al dissesto irreparabile di una società ed alla conseguente inevitabile declaratoria di fallimento, una società si trova ad affrontare un periodo, più o meno lungo, di difficoltà economiche e gestionali.
E’ fatto obbligo all’amministratore non solo di gestire e curare l’impresa al fine di realizzare il miglior profitto ma anche di intervenire tempestivamente per porre rimedio alle possibili fasi di crisi che un azienda si trova ad affrontare.
Sugli amministratori, infatti, incombe un generale dovere di vigilanza circa l’andamento della gestione comprendente, in particolare, il dovere di porre in essere tutte quelle misure atte ad impedire o a contenere le perdite patrimoniali della società stessa.
I casi più frequenti di azione di responsabilità contro gli amministratori di una società, poi fallita, sono la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili e la perdita del capitale sociale senza attuare gli opportuni provvedimenti.
Sulla mancanza e/o irregolare tenuta delle scritture contabili.
Secondo parte della giurisprudenza la totale mancanza di contabilità sociale o la sua tenuta in modo sommario e non intelligibile è di per se giustificativa della condanna dell’amministratore al risarcimento del danno, costituendo tale omissione la violazione di uno specifico obbligo sancito per legge, idoneo a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale.
Dunque la violazione degli obblighi previsti dalla legge a carico degli amministratori di una società, in primis quello di una regolare e completa tenuta delle scritture contabili secondo principi di chiarezza e veridicità, farebbe apparire del tutto legittimo operare una valutazione di responsabilità degli amministratori della fallita in via presuntiva, soprattutto qualora l’incompletezza contabile sia tale da assurgere a vera e propria omissione, rendendo di fatto impossibile per il Curatore fallimentare fornire la prova del nesso di causalità tra il danno e la condotta degli amministratori (Cass. 04.04.2011 n. 7606, Trib. Salerno, Sez I, 03.05.2011 Rel. Dott A. Scarpa).
Negli ultimi anni però la Cassazione è tornata su un criterio più rigoroso.
Ed invero, pur consapevole di taluni precedenti, in cui la Cassazione è apparsa incline a far discendere dalla mancata tenuta delle scritture una sorta di presunzione di danno, riferito alla differenza tra passività ed attività fallimentari, con le ultime pronunce la stessa Cassazione, ha mutato orientamento. In particolare con la sentenza n. 11155 del 04.07.2012 la Suprema Corte ha asserito che “Qualora il curatore fallimentare di una società di capitali eserciti l’azione di responsabilità verso l’ex amministratore imputato di mala gestio (nella specie, per violazione del divieto di nuove operazioni dopo la perdita del capitale sociale), il mancato rinvenimento della contabilità d’impresa non determina in modo automatico che l’ex amministratore risponda della differenza tra l’attivo e il passivo accertati in sede fallimentare, potendo il giudice di merito applicare il criterio differenziale soltanto in funzione equitativa, attraverso l’indicazione delle ragioni che non hanno permesso di accertare gli specifici effetti pregiudizievoli della condotta e che rendono plausibile ascrivere al convenuto l’intero sbilancio patrimoniale”. La Suprema Corte ha confermato questo orientamento anche con la sentenza n. 17198 del 11.07. 2013.
Invero lo sbilanciamento patrimoniale di una società insolvente, può avere (e per lo più ha) cause molteplici, non necessariamente tutte riconducibili al comportamento illegittimo degli amministratori. E’ necessario, cioè, identificare e quantificare il danno imputabile agli specifici comportamenti illegittimi addebitati agli amministratori, avvalendosi dell’ausilio di consulenti tecnici.
Come è noto sulla determinazione del danno il principio fondamentale in materia è quello di causalità e quindi gli amministratori rispondono dei danni quali conseguenza immediata e diretta della loro condotta inadempiente.
Il danno imputabile ai sindaci di società di capitali per omesso controllo su operazioni illegittime sfociate nell’assoggettamento della società a procedura concorsuale non può automaticamente identificarsi nella differenza tra attivo e passivo concorsuale, dovendo invece trovare applicazione le regole sul nesso di causalità materiale; il ricorso a tale criterio meramente differenziale può essere ammissibile soltanto ove ricorrano i presupposti per una valutazione equitativa del danno, a seguito di una accertata e motivata impossibilità di ricostruire i dati in modo così analitico da individuare le conseguenze dannose dei singoli atti illegittimi (Cass. n. 3032 del 15.02.2005).
Così l’irregolarità contabile, l’occultamento della perdita ad essa connessa e l’omissione dei provvedimenti di ricapitalizzazione necessari, in sé sono irregolarità non sufficienti a determinare una responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori nei confronti della società ove non si dimostri che a causa di quelle violazioni la società medesima ha subito un danno.
Pertanto l’irregolarità contabile e l’occultamento della perdita che ne sia derivata può solo essere invocata come presupposto dell’accertamento di uno stato di scioglimento della società, funzionale a qualificare come illecita l’attività gestionale successiva in quanto non in linea con la finalità conservativa dell’integrità del patrimonio che gli amministratori possono e devono perseguire in una prospettiva liquidatoria, la quale potrebbe aver prodotto ulteriori perdite per la società, ex art. 2486 c.c.
Sulla perdita del capitale sociale al quale non seguono gli opportuni provvedimenti da parte degli amministratori.
E’ frequente il caso in cui sia contestata dalla curatela fallimentare la illegittima prosecuzione dell’attività in difetto dei presupposti di legge, quale condotta che segue all’occultamento doloso o al mancato accertamento colposo della totale erosione del capitale sociale in ragione di perdite.
I presupposti della imputazione di responsabilità possono essere sintetizzati come di seguito esposto.
Anzitutto occorre che il capitale sociale sia sceso, in un determinato momento, sotto il minimo di legge (art. 2447 c.c.).
In secondo luogo occorre che gli amministratori si siano accorti o potevano accorgersi di tale circostanza utilizzando la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze (art. 2392 comma 1 c.c.).
In terzo luogo occorre che gli amministratori abbiano omesso di convocare senza indugio l’assemblea di cui all’art. 2447 c.c. – finalizzata alla ricapitalizzazione o trasformazione della società –, ovvero, pur essendosi tenuta quell’assemblea, non siano state adottate delibere che consentano la ordinaria prosecuzione dell’attività sociale, e, in ogni caso, gli amministratori non l’abbiano prevista quale causa di scioglimento della società e non l’abbiano quindi messa in liquidazione.
Occorre poi che gli amministratori, pur conoscendo o potendo conoscere la perdita del capitale e non avendo adottato gli adempimenti conseguenti, abbiano compiuto nuove operazioni generative di danno per la società o abbiano proseguito nella gestione dell’attività con modalità ed a fini estranei alla mera conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio (art. 2486 c.c.).
Infine occorre che la prosecuzione dell’attività in ottica non conservativa abbia prodotto dei danni alla società od ai creditori, depauperando il patrimonio sociale.
In sostanza, gli obblighi cui la legge vincola gli amministratori sono quelli di cui agli artt. 2446-2447 c.c., e tra questi non v’è di certo quello di interrompere immediatamente l’attività di impresa, nè di chiedere la dichiarazione dello stato d’insolvenza, la quale ultima peraltro si fonda su presupposti ben diversi dalla perdita del capitale o dall’insufficiente patrimonializzazione, che consiste nell’impossibilità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni. Le norme di cui agli artt. 2485 e 2486 c.c., impongono, invece, agli amministratori la convocazione dell’assemblea dei soci per la ricapitalizzazione o, in difetto, la messa in liquidazione della società implicante il mutamento dell’oggetto dell’attività, che non potrà più essere, in difetto delle condizioni patrimoniali e finanziarie necessarie per legge, l’attività imprenditoriale prescelta, ma esclusivamente quella conservativa dell’integrità e del valore del patrimonio sociale (anche attraverso il completamento del ciclo produttivo in corso). Ne deriva che chi intenda far valere una responsabilità per violazione degli obblighi citati, ha il dovere di dimostrare che dopo la perdita del capitale sociale erano state intraprese iniziative imprenditoriali al di fuori di una logica meramente conservativa, individuare siffatte iniziative ed indicare quali conseguenze negative sul piano del depauperamento del patrimonio sociale ne sarebbero derivate, al netto dei ricavi.
Talvolta, in epoca più risalente, specie in presenza di contabilità tenuta in modo irregolare o quando si trattava del compimento di nuove ed indebite operazioni da parte degli amministratori dopo la perdita del capitale sociale, si è affermato che il danno risarcibile poteva essere senz’altro identificato nella differenza tra l’attivo acquisito ed il passivo accertato nel corso della procedura concorsuale. In altri casi, però, la giurisprudenza ha assunto un atteggiamento più cauto, richiedendo che si procedesse alla verifica del risultato economico delle singole operazioni pregiudizievoli per la società, di volta in volta poste in essere dagli amministratori ed eventualmente agevolate dall’omesso controllo dei sindaci in violazione dei rispettivi doveri giuridici; oppure senz’altro sottolineando la necessità che, per poter affermare la responsabilità di amministratori e sindaci, i quali abbiano proseguito l’attività d’impresa in presenza della perdita del capitale sociale, venga fornita la prova dell’efficienza causale dell’attività amministrativa e di controllo in relazione alla situazione acclarata, nonché dell’ammontare del danno determinato in ciascun esercizio sociale in dipendenza dell’indebito protrarsi della gestione (in tal senso molteplici pronunce di giudici di merito).
Così è stato anche deciso che è del tutto ingiustificata l’eventuale limitazione dell’obbligazione risarcitoria alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare, dovendo, per converso, accollarsi agli amministratori il danno che risulti conseguenza immediata e diretta delle commesse violazioni nella misura equivalente al detrimento patrimoniale effetto della loro condotta illecita, ed a prescindere dalle conseguenze concrete (più o meno favorevoli) che, caso per caso, tale criterio di valutazione comporti per ciascuno di essi (Cass., Sez. I, 22 ottobre 1998, n. 10488).
Anche la dottrina è in prevalenza orientata nel senso che il pregiudizio derivante da specifici atti illegittimi imputabili agli amministratori o ai sindaci non debba essere confuso con il risultato negativo della gestione patrimoniale della società nel suo complesso, sfociata poi nel dissesto e nell’insolvenza, e che non possa perciò, quel negativo risultato, esser fatto automaticamente coincidere con l’entità del danno risarcibile.
Ciò premesso, si ritiene che l’identificazione automatica del danno imputabile all’illegittima condotta di amministratori e sindaci con la differenza tra attività e passività accertate in sede concorsuale sia concettualmente insostenibile. Lo sbilancio patrimoniale di una società insolvente, infatti, può avere (e per lo più ha) cause molteplici, non necessariamente tutte riconducibili al comportamento illegittimo dei gestori e dei controllori della società. La sua concreta misura dipende spesso non tanto dal compimento di una o più atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce, ossia da attività per loro natura sottratte al vaglio di legittimità del giudice, che non può mai investire anche il merito delle decisioni imprenditoriali, cui un rischio economico è connaturato. I principi da cui è retto il risarcimento del danno civile impongono, del resto, l’individuazione di un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell’altrui sfera giuridica, e richiedono che di tale nesso sia fornita la prova da parte di chi il risarcimento invoca. Un automatismo del genere di quello sopra prospettato, quindi, non solo conduce a risultati che empiricamente paiono per lo più poco rispondenti all’effettiva realtà dei fatti, ma soprattutto si pone in insanabile contraddizione con i principi richiamati.
Il rifiuto di ogni automatismo nell’applicazione del suindicato criterio differenziale non vale però, di per sé solo, ad escludere che anche quel medesimo criterio possa soccorrere, in guisa di parametro cui ancorare una liquidazione equitativa, una volta accertata l’impossibilità di ricostruire i dati in modo così analitico da individuare le conseguenza dannose dei singoli atti illegittimi imputati ad amministratori e sindaci della società. In linea di principio, ove ricorrano i presupposti per la liquidazione del danno in via di equità, ai sensi dell’art. 1226 c.c., nulla consente di negare a priori la correttezza di un simile procedimento argomentativo, essendo l’equità per sua stessa natura legata alle circostanze specifiche di ogni singolo caso concreto. Occorre però pur sempre che per evitare la surrettizia reintroduzione di un criterio che di per sé si è già visto non essere logicamente idoneo ad identificare in modo soddisfacente il danno risarcibile, il giudice di merito dia in proposito una puntuale motivazione sia in ordine all’effettiva impossibilità di addivenire ad una ricostruzione (magari non completa e del tutto puntuale, ma almeno sufficientemente approssimativa) degli specifici effetti pregiudizievoli procurati al patrimonio sociale dall’illegittimo comportamento degli organi della società, ciascuno, ove occorra, distintamente valutato; sia, comunque, in ordine alla plausibilità logica, in rapporto alle specifiche caratteristiche del caso in esame, dell’imputazione causale a detto comportamento dell’intero sbilancio patrimoniale della società, quale accertato a distanza di tempo in sede concorsuale.
Onere della prova. Onere di individuare i singoli atti fonte del danno.
Nel vigore della precedente disciplina si era consolidato un orientamento giurisprudenziale per cui solo le operazioni fonte di nuovo rischio d’impresa potevano considerarsi “nuove” e quindi vietate, e solo quelle che causavano un danno potevano generare responsabilità degli amministratori, in ossequio ai principi su cui si regge la responsabilità civile in generale; oggi per unanime opinione la deduzione della violazione del nuovo art. 2486 c.c. implica la contestazione di attività non orientata meramente alla conservazione del valore del patrimonio sociale, bensì fonte di nuovo rischio di impresa, che, proprio in questi termini, ha cagionato un danno ingiusto in termini di depauperamento del patrimonio sociale al netto degli eventuali ricavi.
Il dato normativo di cui all’art. 2486 c.c., introdotto dal 2004, evidenzia in altre parole la liceità dell’attività di gestione con finalità conservativa, onde pare imprescindibile per chi intenda vedere affermata una responsabilità per danni degli amministratori allegare la finalità non conservativa dell’attività che li avrebbe prodotti, e, ovviamente, il nesso causale che lega l’una agli altri.
In questa prospettiva di continuità tra vecchia e nuova disciplina sembra potersi richiamare come attuale l’orientamento giurisprudenziale in tema di onere di allegazione e prova che compete all’attore per cui “l’azione di responsabilità (…) ha natura contrattuale (…) ne consegue che, mentre su chi la promuove grava esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, su amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sè del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti; pertanto, l’onere della prova della novità delle operazioni intraprese dall’amministratore successivamente al verificarsi dello scioglimento della società per perdita del capitale sociale, compete all’attore e non all’amministratore convenuto”(Cass n. 25977 del 29 ottobre 2008).
Il limite entro cui i comportamenti gestori possono dirsi consentiti in una situazione in cui è comunque doverosa la conservazione dei valori dell’impresa, resta legata, a valutazioni da operare caso per caso.
La curatela dovrebbe indicare quali operazioni gestorie assunte in un’ottica di continuità aziendale non più lecita hanno cagionato danno alla società, al netto dell’eventuale ricavo (es. acquisto nuovo macchinario non potuto utilizzare per mancanza di commesse).
Tuttavia la natura dinamica e complessa dell’attività di impresa può rendere estremamente complesso il rispetto di questo onere di allegazione specie a fronte di fallimenti di società per le quali si deduce una notevole anteriorità della perdita del capitale rispetto alla dichiarazione di insolvenza, ove si tratta di valutare un complesso di attività a volte attraverso documentazione contabile non del tutto chiara o completa.
Di fronte alla difficoltà di individuare in modo sufficientemente circostanziato le operazioni non coerenti con il fine conservativo, può ricorrersi a criteri presuntivi e sintetici di allegazione, che si basano sulla plausibilità logica nel caso concreto dell’imputazione causale di un certo risultato negativo per il patrimonio sociale.
In pratica si può ritenere assolto l’onere di allegazione quando la curatela fallimentare abbia dedotto che la perdita del capitale e dunque lo stato di scioglimento della società sono anteriori alla dichiarazione dello stato di insolvenza o alla formale messa in liquidazione della società, e affermato che gli amministratori hanno proseguito l’attività d’impresa, con ciò provocando una ulteriore diminuzione del patrimonio sociale. Indice di questa attività illecita ulteriormente depauperativa può essere la maggior perdita registrata rispetto al momento dello scioglimento di fatto, ma la circostanza va verificata poiché anche attività di mera liquidazione implicano costi e oneri ineliminabili nel breve periodo che non possono però imputarsi a titolo di danno.
A fronte della speciale complessità di talune situazioni economico-gestionali (anche legate alla non veridicità dei dati contabili), si può ricorrere a criteri equitativi di liquidazione del danno, motivando la ragione per la quale li si invoca, atteso che essi non possono costituire strumenti per eludere l’onere di allegazione e prova che sia del tutto agevole assolvere a fronte di una contabilità ordinata e completa.
E’ stato ribadito in plurime pronunce in varie sedi che il pregiudizio derivante da specifici atti illegittimi imputabili agli amministratori non deve essere confuso con il risultato negativo della gestione patrimoniale della società. Ed invero lo sbilancio patrimoniale può avere cause molteplici non necessariamente tutte riconducibili a comportamento illegittimo dei gestori e dei controllori della società. La sua concreta misura dipende spesso non tanto dal compimento di uno o più atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce, ossia da attività sottratte per loro natura al vaglio di legittimità del giudice. Non solo, infatti, nelle procedure fallimentari le poste attive sono suscettibili di una notevole falcidia ma nella stessa liquidazione volontaria – che avrebbe dovuto seguire all’azzeramento del capitale se l’assemblea non intende procedere alla ricapitalizzazione – i criteri di valutazione di alcune poste attive possono non rispecchiare il valore di realizzo in sede liquidativa; dall’altro canto il passivo può lievitare per effetto del maturare di interessi sui crediti esigibili, che non possono essere soddisfatti se non via via che le attività vengono liquidate.
In linea generale, dunque, il criterio c.d. differenza attivo/passivo non è in alcun modo compatibile con la necessaria sussistenza di un nesso casuale tra condotta e danno. Nelle passività sono comprese situazione debitorie non imputabili in quanto anteriori alla individuata perdita del capitale e l’attività è condizionata anche dall’azione della curatela che può essere non tempestiva o non adeguata.
Pochi sono i casi in cui si può ricorrere al criterio equitativo in coerenza con il principio di causalità che regge la responsabilità civile. Il primo è quello in cui manchino o siano completamente inattendibili le scritture contabili; in questo caso, infatti, il danno non è specificamente determinabile, ma non lo è per fatto e colpa degli amministratori, che, quindi, rimangono gravati dell’onere di provare che il danno è diverso e minore rispetto allo sbilancio attivo passivo fallimentare. La seconda eccezione è quella in cui il dissesto (inteso come la grave insufficienza patrimoniale che avrebbe determinato senz’altro l’obbligo della dichiarazione di insolvenza) sia stato causato direttamente da comportamenti colposi degli amministratori (come il caso in cui un’attività distrattiva sistematica abbia eroso il patrimonio sociale).
In caso di comportamenti illegittimi di amministratori o sindaci di società fallite, o sottoposte ad altre analoghe procedure concorsuali, la giurisprudenza, chiamata a risolvere il problema dell’identificazione e della liquidazione dei danni conseguenti a detti comportamenti, ha adottato criteri di giudizio che non è facile ricondurre ad unità ma valgono i principi sopra richiamati.
Avv. Elena Pompeo