Ripartizione costi infragruppo: dal contratto escono solo royalty
L’assenza del potere di disporre dei brevetti porta ad affermare che si tratta di compensi per canoni relativi alla concessione in uso di opere d’ingegno e di marchi di impresa
La questione, sottoposta all’attenzione dei giudici baresi, concerneva l’esatta individuazione del trattamento fiscale delle somme pagate da una società italiana a una statunitense, in esecuzione di un “cost share agreement“.
Nel merito, oggetto della controversia erano gli avvisi di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate contestava alla società italiana l’omessa effettuazione e dichiarazione delle ritenute alla fonte dovute, ai sensi del combinato disposto degli articoli 23, comma 2, lettera c), del Tuir, e 25 del Dpr 600/1973, sugli emolumenti corrisposti a una società statunitense per l’utilizzazione di brevetti industriali e di know how.
Più precisamente, l’ufficio rilevava che la contribuente italiana, parte di un noto gruppo multinazionale, aveva stipulato con un’altra società dello stesso gruppo, di nazionalità statunitense, un contratto di ripartizione dei costi di ricerca, in virtù del quale poteva utilizzare, per la durata del contratto stesso, i brevetti e il know how sviluppati e detenuti dall’americana, pagando mensilmente delle somme rapportate ai costi sostenuti dalla società straniera.
La società italiana sosteneva, nelle proprie difese, che oggetto del contratto non era la pattuizione di compensi per l’utilizzazione di beni immateriali, bensì la razionalizzazione delle attività di ricerca che interessavano più società del gruppo, mediante l’accentramento in capo a una compagine del gruppo stesso delle attività di creazione, acquisizione e gestione delle informazioni tecniche nonché di protezione dei relativi brevetti e diritti d’autore, con contestuale suddivisione, tra le parti dell’accordo, dei costi sostenuti dalla statunitense per la propria attività.
Pertanto, a parere della contribuente, le ritenute alla fonte, oggetto dell’avviso di accertamento impugnato, non erano dovute, perché le somme versate alla società estera erano semplici costi per spese di ricerca.
Il collegio barese, dalla lettura del contratto di ricerca, ha invece rilevato elementi che attribuivano inconfutabilmente la natura di royalty agli emolumenti corrisposti dall’italiana alla società estera. In particolare, i giudici hanno valorizzato la circostanza che, in base al contratto in questione, a fronte del rimborso di una parte dei costi sostenuti dall’americana, la società italiana non acquisiva alcun titolo giuridico sui risultati della ricerca, ma aveva solo diritto all’uso dei risultati della stessa ricerca.
L’assenza del potere di disporre dei brevetti, frutto del lavoro svolto dalla società americana, unitamente a specifici obblighi di riservatezza imposti contrattualmente, ha condotto i giudici a escludere che le somme versate dalla società italiana potevano qualificarsi come corrispettivi erogati per servizi resi e ha avvalorato la tesi dell’ufficio, secondo cui, nel caso concreto, si tratta di compensi per canoni relativi alla concessione in uso di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di marchi di impresa.
Il collegio ha aggiunto che non depone in senso contrario alla tesi dell’Agenzia delle Entrate la circostanza che i costi addebitati alla società italiana siano quantificati in base a un accordo di ripar-tizione di costi stipulato in conformità al modello di cui al capitolo VII della direttiva Ocse del 1995 “Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administration“, e ciò perché “le particolari modalità con cui sono determinati i compensi erogati non sono idonee ad escludere sic et simpliciter che trattasi, comunque, di compensi erogati per la concessione in uso di beni immateriali“.
Anzi, il giudice dell’appello ha valorizzato la circostanza che lo stesso modello Ocse, al paragrafo 8.23, prevede che, se a fronte di un accordo di ripartizione dei costi, alle società partecipanti è riconosciuto solo un diritto di utilizzo del bene immateriale, si è senz’altro in presenza di royalty. Aggiunge il collegio che “è indubbio, che non possa configurarsi una royalty, solo quando contrattualmente è prevista l’attribuzione alle società partecipate dei diritti reali sul bene stesso“.
Pertanto, i giudici hanno confermato la piena legittimità del recupero a tassazione delle ritenute alla fonte, calcolate in misura pari al 30% degli emolumenti corrisposti alla società americana.
La sentenza in esame è di rilievo, inoltre, perché ribadisce alcuni importanti principi di diritto su questioni che avevano formato oggetto di eccezioni preliminari della contribuente.
In particolare, la Ctr della Puglia ha statuito che:
- l’articolo 12, comma 5, della legge 212/2000, pone un limite alla permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente e non alla durata della verifica in generale
- l’eventuale violazione del termine di permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente non comporta, comunque, né l’inutilizzabilità delle prove raccolte né la nullità degli atti di accertamento compiuti. Infatti, così come sancito dalla Corte di cassazione nella sentenza 8344/2001, non esiste nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite
- i termini di conclusione dell’iter amministrativo, secondo quanto affermato nella sentenza 26739/2013, “devono, salva espressa previsione contraria, essere considerati come ordinatori e non perentori“. Il principio è desumibile dal combinato disposto di cui agli articoli 152 e 156 del codice di procedura civile, per cui i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, a meno che la legge stessa non li dichiari espressamente perentori, e non può essere pronunciata la nullità di un atto, se la nullità non è comminata dalla legge
- è legittimo l’avviso di accertamento motivato per relationem al processo verbale di constatazione perché, secondo quanto sancito dalla Corte suprema nella sentenza 25721/2009, l’avviso di accertamento “può essere il risultato dell’esercizio di un potere frazionato fra più uffici amministrativi che agiscano in proprio o per delega. Ne deriva che esso è legittimamente adottato quando la sua motivazione rinvii per relationem ai risultati conseguiti nelle precedenti fasi procedimentali, purché essi siano trasfusi in atti conosciuti o conoscibili da parte del contribuente“.
I giudici hanno altresì respinto la richiesta della contribuente, formulata in sede d’appello, di disapplicazione delle sanzioni, in quanto domanda nuova e, dunque, inammissibile a norma dell’articolo 57 del decreto legislativo 546/1992. Infatti, la disapplicazione della sanzione non può essere dichiarata d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, così come chiarito dal giudice di legittimità (cfr Cassazione, sentenze 19848/2005 e 5830/2011), e non può essere richiesta per la prima volta in grado di appello, perché si sostanzia in una questione nuova sulla sussistenza delle obiettive condizioni di incertezza che avrebbe dovuto essere sollevata in sede di ricorso (cfrCassazione, 15563/2000). Per tali motivi, la Commissione ha dichiarato la “piena legittimità dell’avviso di accertamento impugnato, in quanto, come evidenziato, l’ufficio correttamente ha applicato la normativa nazionale ai compensi corrisposti dalla contribuente al soggetto estero, per l’utilizzo di brevetti, licenze, ecc.“.