Misure di sicurezza. Svolgimento, su istanza degli interessati, nelle forme dell’udienza pubblica – Corte Costituzionale Sentenza 135/2014
dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza si svolga, davanti al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nelle forme dell’udienza pubblica.
Corte Costituzionale, Sentenza n. 135 del 21/05/2014
Processo penale – Procedura per l’applicazione delle misure di sicurezza – Svolgimento, su istanza degli interessati, nelle forme dell’udienza pubblica – Preclusione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale, promosso dal Magistrato di sorveglianza di Napoli nel procedimento relativo a Z.U. con ordinanza del 29 novembre 2012, iscritta al n. 17 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2014 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 29 novembre 2012, il Magistrato di sorveglianza di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non consentono che la procedura di applicazione delle misure di sicurezza si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme della pubblica udienza».
Il giudice a quo – investito di un procedimento, promosso d’ufficio, per la dichiarazione di abitualità nel reato – riferisce che il difensore dell’interessato aveva chiesto che la procedura fosse trattata «in forma pubblica».
Il rimettente rileva che, in base alla normativa vigente, la richiesta non potrebbe essere accolta. L’art. 679, comma 1, cod. proc. pen. demanda la competenza in materia al magistrato di sorveglianza, stabilendo che «Quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata, fuori dei casi previsti dall’articolo 312, ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato». Quanto al rito, l’art. 678, comma 1, cod. proc. pen. dispone che il magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti alle misure di sicurezza e alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato, procede «a norma dell’articolo 666», il cui comma 3 a sua volta prevede che «il giudice […], designato il difensore di ufficio all’interessato che ne sia privo, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio».
Il dato normativo risulterebbe, pertanto, inequivoco nello stabilire che il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza abbia luogo «in camera di consiglio»: formula che – alla luce di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità – implica un rinvio alla disciplina generale dettata dall’art. 127 cod. proc. pen., il cui comma 6 dispone espressamente che l’udienza si svolge «senza la presenza del pubblico».
La pubblicità dell’udienza non potrebbe essere, d’altra parte, “recuperata” neppure in sede di appello avverso la decisione del magistrato di sorveglianza, posto che, in forza del citato art. 678, comma 1, cod. proc. pen., anche il tribunale di sorveglianza – cui l’appello è devoluto (art. 680, comma 1, cod. proc. pen.) – procede nelle materie di sua competenza a norma dell’art. 666.
Ad avviso del giudice a quo, le norme censurate violerebbero, per questo verso, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto – non superabile in via di interpretazione – con il principio di pubblicità dei procedimenti giudiziari, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
In recenti pronunce nei confronti dello Stato italiano, attinenti ad altre materie (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia; sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia; sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia), la Corte di Strasburgo ha in effetti ritenuto che la procedura «in camera di consiglio» – e, dunque, senza l’intervento del pubblico – sia incompatibile con l’indicata garanzia convenzionale. Ciò è avvenuto, in particolare, con riguardo al procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione (cui si riferiscono le prime due pronunce dianzi citate). La Corte europea ha, infatti, osservato che – pur a fronte dell’elevato «grado di tecnicismo» di dette procedure e delle esigenze di protezione della vita privata di terzi indirettamente interessati, in esse spesso riscontrabili – l’entità della «posta in gioco» e gli effetti che le procedure stesse possono produrre impongono di ritenere che il controllo del pubblico sull’esercizio della giurisdizione rappresenti una condizione necessaria ai fini del rispetto dei diritti dei soggetti coinvolti: prospettiva nella quale dovrebbe essere offerta a questi ultimi «almeno la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».
Se questa conclusione vale quando la «posta in gioco» è la confisca di «beni e capitali», come nel caso delle misure di prevenzione patrimoniali, a maggior ragione essa si imporrebbe rispetto al procedimento di sicurezza, suscettibile di incidere in modo diretto e rilevante sulla libertà personale del soggetto interessato. Nell’ipotesi sottoposta all’esame del rimettente, l’eventuale dichiarazione di abitualità nel reato potrebbe determinare l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva, quale l’assegnazione ad una casa di lavoro per un periodo minimo di due anni, o anche non detentiva, ma comunque significativamente limitativa della libertà personale, quale la libertà vigilata.
L’incidenza del procedimento sulla libertà personale dell’interessato sarebbe resa, d’altro canto, ancor più «traumatica» dalla circostanza che la pronuncia del magistrato di sorveglianza non segue immediatamente la commissione dei fatti di reato, ma può intervenire anche a notevole distanza di tempo da essi: ciò, segnatamente nei casi in cui il procedimento sia attivato all’esito di valutazioni basate sulle condanne risultanti del certificato del casellario giudiziale, come tipicamente avviene per la dichiarazione di abitualità nel reato.
Le affermazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, dianzi ricordate, indurrebbero a dubitare della legittimità costituzionale delle norme censurate anche in riferimento all’art. 111, primo comma, Cost., in forza del quale la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Sebbene, infatti, il procedimento disciplinato dagli artt. 666, 678, 680 e 127 cod. proc. pen. appaia strutturato, nel complesso, in modo tale da assicurare l’effettività del diritto di difesa, la previsione del suo svolgimento nella forma dell’udienza camerale non garantirebbe un controllo sull’esercizio dell’attività giurisdizionale adeguato alla gravità dei provvedimenti adottabili. In questa prospettiva, ai fini dell’attuazione di un «equo processo», dovrebbe essere prevista la possibilità di svolgere il procedimento in forma pubblica almeno su richiesta degli interessati.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
La difesa dello Stato osserva come nel procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza vengano in rilievo esigenze di riservatezza, in relazione agli elementi istruttori posti a fondamento della decisione, la quale costituisce la risultante di un giudizio che non ha ad oggetto la sussistenza di un fatto-reato, ma soprattutto la personalità dell’interessato.
Tali esigenze, unite a quelle di celerità processuale, prevarrebbero sull’esigenza della pubblicità, la quale, anche nella disciplina del dibattimento penale, risulta recessiva laddove sussistano particolari esigenze di riservatezza, tanto che in tal caso l’udienza può svolgersi a porte chiuse.
Considerato in diritto
1.– Il Magistrato di sorveglianza di Napoli dubita della legittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente che il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme dell’udienza pubblica.
Ad avviso del giudice a quo, le norme censurate violerebbero l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto – non superabile in via di interpretazione – con il principio di pubblicità dei procedimenti giudiziari, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Le medesime disposizioni violerebbero, altresì, l’art. 111, primo comma, Cost., giacché la possibilità di svolgere in forma pubblica il procedimento in questione, almeno su richiesta degli interessati, risulterebbe indispensabile ai fini dell’attuazione di un «giusto processo», tenuto conto della gravità dei provvedimenti adottabili in esito al procedimento stesso, direttamente incidenti sulla libertà personale.
2.– In via preliminare, va rilevato che, nonostante la generica formulazione del quesito, il dubbio di legittimità costituzionale sottoposto all’esame della Corte deve ritenersi circoscritto alla mancata previsione della possibilità di trattazione in udienza pubblica dei procedimenti di sicurezza nei gradi di merito (prima istanza e appello).
A questi soltanto risulta, infatti, riferito il principio affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle decisioni richiamate a sostegno delle censure. Lo stesso rimettente, d’altro canto, nello svolgere le sue doglianze, ha posto l’accento esclusivamente sull’assenza di pubblicità delle udienze che, nel procedimento in discussione, si svolgono davanti al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, competente per l’appello (art. 680, comma 1, cod. proc. pen.), senza alcun riferimento al giudizio davanti alla Corte di cassazione, eventualmente introdotto ai sensi dell’art. 666, comma 6, cod. proc. pen.
3.– Così precisata, la questione è fondata, in riferimento all’art. 111, primo comma, e all’art. 117, primo comma, Cost.
Con la sentenza n. 93 del 2010, questa Corte ha già dichiarato costituzionalmente illegittimi, per contrasto con il secondo dei parametri indicati, l’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e l’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica.
Considerazioni analoghe a quelle svolte in detta decisione – successivamente recepita dal legislatore negli artt. 7, comma 1, e 10, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) – valgono anche agli odierni fini.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, costante a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (ex plurimis, sentenze n. 30 del 2014, n. 264 del 2012, n. 236, n. 113 e n. 80 del 2011). Ne deriva che, ove si profili un contrasto – non superabile a mezzo di una interpretazione “adeguatrice” – fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune, non potendo rimuoverlo tramite la semplice non applicazione della norma interna, deve denunciare la rilevata incompatibilità tramite la proposizione di una questione incidentale di legittimità costituzionale per violazione del suddetto parametro.
Nel caso oggi in esame, i dubbi di compatibilità con la normativa convenzionale attengono alle modalità di svolgimento del procedimento in materia di applicazione delle misure di sicurezza, previsto dall’art. 679, comma 1, cod. proc. pen.: procedimento del quale non è in discussione il carattere giurisdizionale, del resto espressamente evocato dall’art. 2, numero 96), della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale). La norma censurata stabilisce, in specie, nella parte cui è riferita la questione, che «Quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata, fuori dei casi previsti dall’articolo 312, ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato». Contro il provvedimento del magistrato di sorveglianza è ammesso appello al tribunale di sorveglianza (art. 680, comma 1, cod. proc. pen.).
Come rimarca il giudice a quo, il dato normativo appare univoco nello stabilire che il procedimento in questione si svolga nella forma dell’udienza in camera di consiglio e, dunque, senza la partecipazione del pubblico.
L’art. 678, comma 1, cod. proc. pen. prevede, infatti, che il tribunale di sorveglianza, nelle materie di sua competenza, e il magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti (per quanto qui interessa) alle misure di sicurezza e alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato, applicano le regole stabilite per il procedimento di esecuzione dall’art. 666 cod. proc. pen. Trova applicazione, pertanto, anche il comma 3 di detto articolo, il quale prevede la fissazione di una «udienza in camera di consiglio».
Tale formula rende operante, a sua volta, per quanto non diversamente disposto, la disciplina generale in materia di «procedimento in camera di consiglio» dettata dall’art. 127 cod. proc. pen.: e, dunque, – nell’assenza di previsioni derogatorie sul punto – anche la disposizione del comma 6, in forza della quale «l’udienza si svolge senza la presenza del pubblico».
4.– Siffatto regime non appare, tuttavia, compatibile con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, il quale stabilisce – per la parte conferente – che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […], pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale […]», soggiungendo, altresì, che «la sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso nella sala di udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia».
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha reiteratamente ravvisato una simile situazione di contrasto con riguardo al procedimento applicativo delle misure di prevenzione, del quale la disciplina italiana vigente all’epoca prevedeva parimenti la trattazione in forma camerale (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, sulla cui scia sentenza 17 maggio 2011, Capitani e Campanella contro Italia; sentenza 2 febbraio 2010, Leone contro Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri contro Italia; sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia).
A tale conclusione la Corte europea è pervenuta richiamando la propria costante giurisprudenza, secondo la quale la pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici, contribuendo così a realizzare lo scopo dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l’equo processo.
Come attestano le eccezioni previste dalla seconda parte della norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorità giudiziarie di derogare al principio di pubblicità dell’udienza. La stessa Corte europea ha, d’altra parte, ritenuto che alcune situazioni eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare – quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso – possano giustificare che si faccia a meno di un’udienza pubblica. In ogni caso, tuttavia, l’udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata, deve essere «strettamente imposta dalle circostanze della causa».
Con riguardo alla fattispecie sottoposta al suo esame, la Corte europea non ha contestato che il procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione possa presentare «un elevato grado di tecnicità», in quanto tendente – nel caso di misure patrimoniali – al controllo «delle finanze e dei movimenti di capitali», o che possa talora coinvolgere «interessi superiori», quale la protezione della vita privata di terze persone indirettamente interessate da detto controllo. Non è tuttavia possibile – secondo la Corte europea – non tener conto dell’entità della «posta in gioco» nelle procedure in questione – le quali mirano alla confisca di «beni e capitali», incidendo così direttamente sulla situazione patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione – nonché degli effetti che esse possono produrre sulle persone: situazione a fronte della quale «non si può affermare che il controllo del pubblico» – almeno su sollecitazione del soggetto coinvolto – «non sia una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell’interessato».
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di Strasburgo ha, quindi, ritenuto «essenziale», ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone […] coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».
5.– In termini analoghi la Corte europea si è espressa, più di recente, con riferimento al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, del quale la legge processuale italiana (art. 315, comma 3, in relazione all’art. 646, comma 1, cod. proc. pen.) egualmente prevede lo svolgimento nelle forme dell’udienza camerale (sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia).
Anche in questo caso, la Corte di Strasburgo ha ritenuto essenziale che i singoli coinvolti nella procedura fruiscano almeno della facoltà di richiedere la trattazione in forma pubblica dell’udienza innanzi la corte d’appello (competente nel merito in unico grado), non ravvisando alcuna circostanza eccezionale che valga a giustificare una deroga generale e assoluta al principio di pubblicità dei giudizi. Nell’ambito della procedura considerata, infatti, i giudici interni sono chiamati essenzialmente a valutare se l’interessato abbia contribuito a provocare la sua detenzione intenzionalmente o per colpa grave: sicché non si discute di «questioni di natura tecnica che possono essere regolate in maniera soddisfacente unicamente in base al fascicolo».
6.– Con la citata sentenza n. 93 del 2010, questa Corte ha già avuto modo di escludere che la norma convenzionale, così come interpretata dalla Corte europea, contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione: ipotesi nella quale la norma stessa – che si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – rimarrebbe inidonea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 113 del 2011, n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007).
L’assenza di un esplicito richiamo, non scalfisce, infatti, il valore costituzionale del principio di pubblicità delle udienze giudiziarie, peraltro consacrato anche in altre carte internazionali dei diritti fondamentali. La pubblicità del giudizio – specie di quello penale – rappresenta, in effetti, un principio connaturato ad un ordinamento democratico (ex plurimis, sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991 e n. 50 del 1989). Il principio non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative, purché, tuttavia, obiettive e razionali (sentenza n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971).
7.– Ciò posto, le conclusioni raggiunte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in rapporto ai procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione e per la riparazione dell’ingiusta detenzione non possono non valere anche in relazione al procedimento di applicazione delle misure di sicurezza, oggetto dell’odierna questione.
L’obiettivo precipuo di detto procedimento è, infatti, quello di accertare la concreta pericolosità sociale del soggetto che dovrebbe essere sottoposto alla misura: accertamento al quale il magistrato di sorveglianza è chiamato non solo nell’ipotesi in cui sia egli stesso a provvedere alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o all’applicazione di una misura di sicurezza nei casi previsti dall’art. 205, secondo comma, cod. pen., ma anche quando si tratti di dare esecuzione ai corrispondenti provvedimenti assunti dal giudice con la sentenza di condanna o di proscioglimento che definisce il processo penale. Ciò, in ossequio al principio che esige – una volta rimosse le presunzioni legali prefigurate dall’originaria disciplina del codice penale – un giudizio sulla pericolosità effettiva dell’interessato non solo nel momento in cui la misura di sicurezza è applicata, ma anche in quello nel quale essa deve essere concretamente eseguita.
Avuto riguardo all’evidenziato oggetto dell’accertamento, non si è, dunque, di fronte ad un contenzioso a carattere meramente e altamente «tecnico», rispetto al quale il controllo del pubblico sull’esercizio dell’attività giurisdizionale – richiesto dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo – possa ritenersi non necessario alla luce della peculiare natura delle questioni trattate.
Quanto, poi, alle esigenze di riservatezza che, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, giustificherebbero la sottrazione dell’udienza di sicurezza al regime della pubblicità, esse vengono riferite allo stesso soggetto nei cui confronti il procedimento si svolge, in correlazione ai mezzi istruttori richiesti ai fini del giudizio sulla sua personalità. Ma, a prescindere da ogni altra possibile obiezione, è dirimente al riguardo il rilievo che siffatte esigenze risulterebbero comunque ininfluenti rispetto al petitum, che mira a lasciare allo stesso interessato la valutazione dell’opportunità di rendere pubblica la trattazione della procedura.
Per altro verso, poi, la «posta in gioco» nel procedimento in questione si presenta, senza alcun dubbio, particolarmente elevata. Nella generalità dei casi, la verifica della pericolosità sociale, operata nell’ambito del procedimento di cui si discute, è prodromica alla sottoposizione dell’interessato a misure di sicurezza personali (art. 215 cod. pen.). Nell’ambito delle misure di sicurezza patrimoniali (art. 236, primo comma, cod. pen.), la confisca risulta, infatti, espressamente esclusa dall’ambito di operatività del procedimento stesso, essendo la competenza in materia attribuita al giudice dell’esecuzione (art. 676, comma 1, cod. proc. pen.); mentre la cauzione di buona condotta è prevista in pochissime ipotesi, oltre a risultare largamente desueta nella pratica.
Le misure di sicurezza personali comportano, peraltro, limitazioni di rilevante spessore alla libertà personale, raggiungendo, nel caso delle misure detentive, un tasso di afflittività del tutto analogo a quello delle pene detentive. Dette misure sono applicate, inoltre, per periodi minimi di notevole durata. Nell’ipotesi oggetto del giudizio a quo, ad esempio, l’eventuale dichiarazione di delinquenza abituale dell’interessato potrebbe comportare la sua assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro per la durata minima di due anni (art. 217 cod. pen.); in altre ipotesi il periodo minimo di internamento è anche più lungo. La revoca anticipata della misura, prima della scadenza del termine di durata minima, all’esito di un riesame della pericolosità, rappresenta, d’altro canto, una mera eventualità.
Al pari del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, anche quello considerato presenta, dunque, specifiche particolarità, che valgono a differenziarlo da un complesso di altre procedure camerali e che conferiscono specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato. Si tratta, infatti, di un procedimento all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su un bene primario dell’individuo, costituzionalmente tutelato, quale la libertà personale.
Si deve, pertanto, concludere che, anche nel caso in esame, sia indispensabile, ai fini della realizzazione della garanzia prevista dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, che le persone coinvolte nel procedimento abbiano la possibilità di chiedere il suo svolgimento in forma pubblica.
8.– Gli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, cod. proc. pen. vanno dichiarati, pertanto, costituzionalmente illegittimi, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza si svolga, davanti al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nelle forme dell’udienza pubblica.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza si svolga, davanti al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nelle forme dell’udienza pubblica.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 maggio 2014.