Il mero inadempimento non integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza (art. 570 c.p.)
Integra il reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, (in esso risultando assorbito il reato previsto dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 – sexies, come richiamato dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 3) la condotta del genitore separato che fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, omettendo di versare l’assegno di mantenimento.
Si evince, peraltro, dalla stessa formulazione letterale delle disposizioni ora menzionate, che non vi è equiparazione tra il fatto penalmente sanzionato e l’inadempimento civilistico, poichè la norma non fa riferimento a singoli mancati o ritardati pagamenti, bensì ad una condotta di volontaria inottemperanza con la quale il soggetto agente intende specificamente sottrarsi all’assolvimento degli obblighi imposti con la separazione (Sez. 6, 4 ottobre 2012 – 9 novembre 2012, n. 43527).
Ciò corrisponde alla funzione assegnata dal legislatore a tali disposizioni, che è quella di garantire che il soggetto obbligato assista con continuità i figli e gli altri soggetti tutelati. Se da un lato, quindi, non può ritenersi che la condotta delittuosa sia integrata da qualsiasi forma di inadempimento, dall’altro lato, trattandosi di reato doloso, la stessa deve essere accompagnata dal necessario elemento psicologico.
Cassazione Penale, Sezione VI, Sentenza n. 15898 del 09/04/2014
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 29 gennaio 2013 la Corte d’appello di Genova, in parziale riforma della sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di La Spezia l’8 giugno 2011 nei confronti di S.F., appellata dalla parte civile G.C., ha dichiarato l’imputato responsabile, agli effetti civili, del reato in rubrica ascrittogli (art. 570 c.p., comma 2) e lo ha condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, da liquidasi in separato giudizio civile.
2. Avverso la su indicata pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia del S., deducendo due motivi di doglianza.
2.1. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) e lett. e), in relazione all’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, per avere l’impugnata pronunzia confuso il concetto penalistico di “mezzi di sussistenza”, cui fa riferimento la su indicata norma incriminatrice, con quello civilistico di “mantenimento”, mentre avrebbe dovuto necessariamente definire, prima, l’entità dei mezzi di sussistenza e, poi, accertare se le condotte di inadempimento ascritte all’imputato fossero tali da privare in concreto i beneficiari di tali mezzi, dal momento che la contestata ipotesi di reato non può assumere carattere sanzionatorio del mero inadempimento del provvedimento del giudice civile. Nel caso in esame, dunque, occorreva accertare se per effetto della condotta inadempiente dell’imputato fossero venuti a mancare ai soggetti beneficiari i mezzi di sussistenza a partire dall’agosto 2008 sino al febbraio 2009, quando il giudice civile rideterminò l’assegno di mantenimento a fronte delle mutate condizioni economiche dell’obbligato.
2.2. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione all’art. 570 ed all’art. 43 c.p., per la totale assenza della motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, avendo la Corte di merito ignorato, sul piano dell’intenzionalità, non solo la condizione di impossibilità economica in cui l’obbligato versava, per una riduzione della sua capacità reddituale, al momento dell’imputazione, ma anche i comportamenti da lui posti in essere per versare alla moglie quanto era possibile corrisponderle, tenuto conto del fatto che egli, lungi dal sottrarsi all’intero pagamento della somma statuita in sede civile, si è limitato ad una mera riduzione economica, peraltro di entità poco significativa.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni di seguito indicate.
4. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte, la motivazione della sentenza d’appello che riformi in senso radicale la decisione di primo grado si caratterizza per un obbligo peculiare e “rafforzato” di tenuta logico-argomentativa, che si aggiunge a quello generale della non apparenza, non manifesta illogicità e non contraddittorietà, desumibile dalla formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) (Sez. 6, n. 46847 del 10/07/2012, dep. 04/12/2012, Rv. 253718; Sez. 6, n. 1266 del 10/10/2012, dep. 10/01/2013, Rv. 254024; Sez. 6, n. 8705 del 24/01/2013, dep. 21/02/2013, Rv. 254113).
In particolare, la sentenza di appello che ribalta il giudizio assolutorio deve confutare specificamente le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa in sede di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005, dep. 16/02/2006, Rv. 233083; Sez. Un., n. 45276/2003, Andreotti; nell’ambito dello stesso ordine di idee v., inoltre, Sez. Un., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, secondo cui “il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado, sostituendo alla pronuncia di assoluzione quella di condanna dell’imputato, è tenuto a dimostrare in modo rigoroso l’incompletezza o l’incoerenza della prima”).
Al riguardo occorre altresì aggiungere la considerazione che, in linea generale, il principio introdotto nell’art. 533 c.p.p., comma 1, secondo cui una sentenza di condanna può essere pronunciata solo se l’imputato “risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, formalmente introdotto nel nostro ordinamento dalla L. n. 46 del 2006, presuppone che “in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza”.
Non può ritenersi sufficiente, dunque, per la riforma caducatrice di una pronunzia assolutoria, una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece, come si è già osservato, una forza persuasiva superiore, tale da far cadere “ogni ragionevole dubbio”, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. Ciò in quanto la condanna “presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza” (in questi termini, Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv.
251066; in senso conforme, ex multis, v. Sez. 6, n. 4996 del 26/10/2011, dep. 2012, Abbate, Rv. 251782).
In definitiva, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti contenuti nella motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, e non può, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perchè ritenuta preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, dep. 20/02/2013, Rv. 254638).
5. Considerando, ora, le implicazioni di tale quadro di principii in relazione alla disamina della vicenda storico-fattuale oggetto della regiudicanda, deve rilevarsi come la Corte territoriale abbia riconosciuto la penale responsabilità del S., sia pure agli effetti civili, sulla base di una rivalutazione sommaria delle emergenze probatorie e senza soddisfare quell’obbligo di motivazione rafforzata che grava sul giudice di appello a fronte di una sentenza assolutoria congruamente argomentata nei suoi passaggi motivazionali.
Invero, per quel che attiene alla valutazione delle note modali della condotta contestata, la sentenza impugnata ha omesso di confrontarsi criticamente con le risultanze emergenti dal complesso degli elementi fattuali specificamente valorizzati dal Giudice di prime cure ai fini della esclusione del reato per la ritenuta insussistenza dell’elemento oggettivo.
Nella pronuncia di primo grado, in particolare, dopo avere espressamente riconosciuto che la capacità economica dell’obbligato certamente sussisteva sul piano generale, atteso che l’imputato era comunque provvisto di una stabile occupazione lavorativa come militare in servizio permanente, si poneva l’accento sui seguenti elementi di fatto: a) che l’autoriduzione del versamento dell’assegno mensile di mantenimento è intervenuta, a far data dalla fine di luglio del 2008, per effetto di un sensibile mutamento della sua capacità economica a seguito del trasferimento nel territorio nazionale dopo un periodo di missione militare svolto all’estero; b) che tale situazione ha trovato un corrispondente epilogo decisorio nella motivazione della rideterminazione dell’assegno di mantenimento (dall’importo di Euro 1.500,00 a quello di Euro 800,00 complessivi), operata con ordinanza del Giudice civile in data 24 febbraio 2009; c) che, pur non potendosi ritenere la retroattività della modifica dell’assegno mensile di mantenimento intervenuta nel febbraio 2009, risultava con evidenza che i presupposti della successiva rideterminazione risalivano all’oggettivo mutamento del quadro economico venutosi a determinare in epoca concomitante a quella in contestazione; d) che già all’epoca dell’autoriduzione dell’assegno, pertanto, erano venuti meno i presupposti per il versamento dell’importo nella misura indicata nell’imputazione, con la conseguenza che, in concreto, le esigenze di mantenimento dei figli minori erano, già all’epoca dei fatti, suscettibili di soddisfacimento nella misura successivamente individuata in sede civile; e) che, nel caso di specie, peraltro, il comportamento posto in essere dall’imputato non ha fatto venir meno, in concreto, la fruizione dei mezzi di sussistenza da parte degli aventi diritto, risultando l’assegno da lui mensilmente versato nel periodo in esame bensì inferiore, ma in misura alquanto ridotta e contenuta, rispetto a quella poi determinata dal Giudice, in base ai presupposti venutisi a determinare dopo la fine di luglio 2008.
Sui punti ora evidenziati, ed in relazione ai numerosi aspetti e profili ad essi fattualmente correlati e, come tali, investiti dal motivato convincimento espresso nella pronunzia del Giudice di primo grado, nonchè riguardo ai diversi temi di prova oggetto di insufficiente vaglio delibativo per effetto delle incongruenze motivazionali partitamente evidenziate in narrativa (v., supra, in particolare, i parr. 2.1. e 2.2.), la Corte territoriale ha omesso di confutare appieno la consistenza e la linearità del ragionamento probatorio sviluppato dal primo Giudice, trascurando la necessaria valutazione critica di tutti gli elementi su cui è stata fondata la precedente decisione assolutoria.
6. Al riguardo, questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 44629 del 17/10/2013, dep. 05/11/2013, Rv. 256905) ha stabilito che integra il reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, (in esso risultando assorbito il reato previsto dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 – sexies, come richiamato dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 3) la condotta del genitore separato che fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, omettendo di versare l’assegno di mantenimento.
Si evince, peraltro, dalla stessa formulazione letterale delle disposizioni ora menzionate, che non vi è equiparazione tra il fatto penalmente sanzionato e l’inadempimento civilistico, poichè la norma non fa riferimento a singoli mancati o ritardati pagamenti, bensì ad una condotta di volontaria inottemperanza con la quale il soggetto agente intende specificamente sottrarsi all’assolvimento degli obblighi imposti con la separazione (Sez. 6, 4 ottobre 2012 – 9 novembre 2012, n. 43527).
Ciò corrisponde alla funzione assegnata dal legislatore a tali disposizioni, che è quella di garantire che il soggetto obbligato assista con continuità i figli e gli altri soggetti tutelati. Se da un lato, quindi, non può ritenersi che la condotta delittuosa sia integrata da qualsiasi forma di inadempimento, dall’altro lato, trattandosi di reato doloso, la stessa deve essere accompagnata dal necessario elemento psicologico.
In particolare, sul piano oggettivo, deve trattarsi di un inadempimento serio e sufficientemente protratto (o destinato a protrarsi) per un tempo tale da incidere apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire.
Ne discende che il reato non può ritenersi automaticamente integrato con l’inadempimento della corrispondente normativa civile e, ancorchè la violazione possa conseguire anche al ritardo, il giudice penale deve valutarne in concreto la “gravità”, ossia l’attitudine oggettiva ad integrare la condizione che la norma tende, appunto, ad evitare.
In tal senso, se, di regola, non può essere considerata sufficiente un’arbitraria affermazione del diritto alla autoriduzione dell’assegno, dovendo la parte in ogni caso rivolgersi al giudice civile per ottenere eventuali revisioni dell’importo (Sez. 6, n. 715 del 01/12/2003, dep. 15/01/2004, Rv. 228262; Sez. 6, n. 16458 del 05/04/2011, dep. 27/04/2011, Rv. 250090), la situazione è diversa in tutti quei casi in cui in cui ci si trovi dinanzi ad un limitato ritardo, ad un parziale adempimento, ovvero ad una omissione dei pagamenti, che trovino ben precise giustificazioni nelle peculiari condizioni dell’obbligato ed appaiano agevolmente collocabili entro un breve, o comunque ristretto, lasso temporale, quando a fronte di un più ampio periodo preso in considerazione risulti accertata la piena regolarità nel soddisfacimento dei relativi obblighi (v. Sez. 6, 4 ottobre 2012, n. 43527, cit).
Nella motivazione della sentenza impugnata non viene compiutamente affrontato il tema delle reali modalità della condotta posta in essere dall’imputato, nè viene correttamente applicata la norma penale laddove si opera una automatica equiparazione dell’inadempimento, pur non grave in ipotesi, alla sua effettiva violazione, ritenendo sufficiente la mera autoriduzione dell’assegno per un arco temporale oggettivamente limitato.
Pur a fronte di un inadempimento rilevante per il diritto civile, non necessariamente si è in presenza dell’azione tipica della sottrazione agli obblighi economici in questione, o comunque di una condotta assistita dall’indispensabile elemento psicologico del reato, dovendo una situazione di temporaneo, parziale, inadempimento essere valutata unitamente a tutte le altre circostanze di fatto offerte dalla disamina del caso concreto, ed in particolare agli altri dati inerenti sia alla eventuale regolarità dei pagamenti complessivi precedentemente effettuati dall’obbligato, che alla oggettiva rilevanza del mutamento di capacità economica nei frattempo intervenuto, a fronte del necessario soddisfacimento delle esigenze proprie dei soggetti tutelati.
7. Sulla base delle su esposte considerazioni, conclusivamente, l’impugnata sentenza deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, che nella piena libertà delle valutazioni di merito di sua competenza dovrà porre rimedio alle rilevate carenze motivazionali, uniformandosi al quadro dei principii di diritto stabiliti da questa Suprema Corte.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado d’appello.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2014.
Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2014