Lavoro di pubblica utilità del condannato presso un Ente fuori Provincia di residenza Corte Costituzionale Sentenza 179/2013
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 54, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n.274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui non prevede che, «Se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità fuori dall’ambito della provincia in cui risiede».
Corte Costituzionale Sentenza n. 179 del 05/07/2013
Reati e pene – Sanzioni sostitutive delle pene detentive o pecuniarie – Lavoro di pubblica utilità – Previsione che l’attività venga svolta nell’ambito della Provincia in cui risiede il condannato – Mancata previsione che il giudice, su richiesta del condannato, possa ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità presso un Ente non compreso nella Provincia di residenza.
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), promossi dal Tribunale ordinario di Sant’Angelo dei Lombardi con ordinanza del 30 agosto 2012 e dal Tribunale ordinario di Matera con ordinanza del 7 dicembre 2012, iscritte rispettivamente al n. 291 del registro ordinanze 2012 ed al n. 37 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 1 e 10, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2013 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.
Ritenuto in fatto
1.— Il Tribunale ordinario di Sant’Angelo dei Lombardi, in composizione monocratica e in funzione di giudice dell’esecuzione penale, con ordinanza depositata il 30 agosto 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 27 e 29 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui impone lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità nella Provincia di residenza del condannato, ovvero, in via subordinata, nella parte in cui non prevede l’ipotesi che il giudice, su richiesta del condannato, lo ammetta a svolgere il lavoro di pubblica utilità presso un ente non compreso nella Provincia di residenza.
2.— In punto di fatto il rimettente riferisce che G.M., residente in Vallata (AV), con sentenza del 2 febbraio 2012, n. 26, divenuta irrevocabile il 5 aprile 2012, è stata condannata alla pena di mesi sei e giorni sei di lavoro di pubblica utilità per il reato di cui all’art. 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada).
In particolare, sulla scorta della convenzione conclusa ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000 in data 30 novembre 2011 tra il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi e l’Ente Comunità Montana “Terminio Cervialto”, il giudice monocratico, nella predetta sentenza, ha ammesso la condannata allo svolgimento di attività lavorativa non retribuita presso tale Comunità Montana, sotto forma di attività di supporto ai servizi interni dell’ente, quali quelli di archivio, di fotocopiatura e di pulizia di locali.
Con successiva istanza del 17 luglio 2012, diretta al giudice dell’esecuzione, la condannata ha chiesto l’autorizzazione alla prestazione del lavoro di pubblica utilità presso la “Casa Sollievo della Sofferenza – Opera di San Pio da Pietrelcina”, situata in San Giovanni Rotondo (FG), in luogo dell’ente indicato in sentenza.
L’istante ha motivato tale richiesta adducendo e documentando che presso tale struttura ospedaliera è lungodegente la madre per gravi patologie nefrologiche; che presso la medesima struttura è in cura anche il padre; che ella è l’unica persona della famiglia in grado di assistere i genitori, in quanto un fratello presta servizio in Sicilia nell’Arma dei Carabinieri, mentre la sorella vive e lavora a Modena.
A tal riguardo l’istante ha depositato una copia del permesso di ingresso e permanenza in ospedale al di fuori dell’orario di visita, per assistere la madre, oltre a una dichiarazione scritta del responsabile dell’ufficio legale della “Casa Sollievo della Sofferenza”, nel corpo della quale si manifesta la disponibilità a consentire lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, previa autorizzazione del tribunale.
Pertanto, sulla base della detta documentazione, l’istante ha chiesto al giudice di essere autorizzata a svolgere il lavoro di pubblica utilità in San Giovanni Rotondo, allo scopo di assistere con continuità i propri genitori ammalati.
Ciò posto, il rimettente riferisce che all’udienza camerale del 21 agosto 2012 si è riservato in ordine alla decisione di detta istanza, sollevando questione di legittimità costituzionale nei termini di seguito indicati.
3.— Il giudice a quo riporta il testo dell’art. 187, comma 8-bis, del d.lgs. n. 285 del 1992, come introdotto dalla legge 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale) ed osserva come detta disposizione operi un rinvio integrale all’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, secondo cui, per quel che rileva in questa sede, «l’attività viene svolta nell’ambito della provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali».
Ad avviso del rimettente, dal combinato disposto delle due norme si rileva un tassativo ed esplicito vincolo di ordine territoriale, che obbliga il condannato a svolgere il lavoro di pubblica utilità nella Provincia di residenza. Tale limitazione territoriale sarebbe di dubbia legittimità costituzionale.
In via preliminare, il giudice a quo si sofferma su una premessa di ordine processuale, rilevando come le modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità possano essere modificate dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 666 del codice di procedura penale, alla luce dei principi generali ed in applicazione analogica dell’art. 44 del d.lgs. n. 274 del 2000.
Tanto premesso, il rimettente ritiene che non siano praticabili interpretazioni costituzionalmente orientate della norma, al fine di evitarne il sindacato di legittimità costituzionale, dal momento che la dizione testuale dell’art. 54, comma 3, specifica in modo espresso che il lavoro di pubblica utilità debba svolgersi nella Provincia di residenza del condannato. Né la disposizione prevede eccezioni a tale regola come, invece, accade per il monte ore settimanali che, diversamente, può essere derogato nel massimo su richiesta del condannato. Sussiste, pertanto, una corrispondenza univoca tra il testo della norma ed il significato ricavabile dalla sua interpretazione, che preclude qualsiasi potere del giudice di interpretare la norma secundum constitutionem.
Ad avviso del rimettente, poi, la proposizione della questione di legittimità costituzionale si manifesta ineludibile tanto più che, secondo la recente giurisprudenza di legittimità «in tema di reato di guida sotto l’influenza dell’alcol, ai fini della sostituzione della pena detentiva o pecuniaria irrogata per il predetto reato con quella del lavoro di pubblica utilità non è richiesto dalla legge che l’imputato debba indicare l’istituzione presso cui intende svolgere l’attività e le modalità di esecuzione della misura, essendo sufficiente che egli non esprima la sua opposizione» (Cassazione, sezione quarta penale, sentenza del 18 maggio 2012, n. 19162). Il favor manifestato dal legislatore per l’applicazione della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità risulterebbe svilito, là dove lo svolgimento di tale attività lavorativa non retribuita fosse confinato al ristretto ambito della Provincia di residenza del condannato, nell’ambito della quale, in ipotesi, potrebbero non essere state stipulate le convenzioni prescritte dall’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000. Tale favor, inoltre, sarebbe stato vivificato dall’opera ermeneutica della Corte di cassazione che, con pronunzia recente, ha puntualizzato che spetta al giudice determinare le modalità di esecuzione del lavoro di pubblica utilità, sicché deve ritenersi illegittimo il provvedimento di rigetto dell’istanza di sostituzione sul presupposto del mancato assolvimento di tali oneri da parte dell’imputato (Cassazione, sezione quarta penale, sentenza del 2 febbraio 2012, n. 4927).
In punto di rilevanza, il rimettente osserva come essa appaia ictu oculi, in quanto la norma denunciata influisce direttamente sulla definizione del giudizio a quo, in un senso o nell’altro, dal momento che la sua applicazione nella vigente formulazione conduce al necessario rigetto dell’istanza, mentre una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale potrebbe condurre – soddisfatte tutte le condizioni – al suo accoglimento. Si tratta di una norma ad applicazione necessaria nel presente procedimento, stante l’esplicito rinvio operato dall’art. 187 del codice della strada. Ancora, ritiene il rimettente che la rilevanza della questione possa desumersi dall’oggettiva idoneità dell’attività lavorativa richiesta a favorire l’emenda della condannata, dal momento che il raggiungimento dello scopo rieducativo, insito nell’applicazione della sanzione sostitutiva, risulterebbe agevolato dall’inserimento della medesima nell’organizzazione della “Casa Sollievo della Sofferenza”, struttura improntata a “principi morali e religiosi”, così come si legge nella dichiarazione di disponibilità del responsabile dell’ufficio legale dell’ente.
In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che la norma denunciata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. La previsione di un vincolo territoriale per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità costituirebbe un vulnus al principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La mancata predisposizioni di convenzioni ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000 nell’ambito di una qualsiasi Provincia (situazione – ad avviso del rimettente – non infrequente nella realtà attuale, la quale registrerebbe una non omogenea conclusione di tali convenzioni sul territorio nazionale) finirebbe per precludere la possibilità per un soggetto condannato ed ivi residente di accedere a tale sanzione sostitutiva, alla quale peraltro la legge correla – nel caso previsto dall’art. 187 del Codice della Strada ed all’esito positivo dello svolgimento del lavoro – notevoli benefici premiali, tra cui l’effetto estintivo del reato, la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e la revoca della confisca del veicolo sottoposto a sequestro.
La situazione di “vuoto applicativo” dell’istituto sarebbe resa possibile dallo scarno contenuto del decreto ministeriale del 26 marzo 2001 (Norme per la determinazione delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità applicato in base all’art. 54, comma 6, del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274), là dove l’art. 7 si limita a predicare l’istituzione presso ogni cancelleria di tribunale di un elenco di tutti gli enti convenzionati che hanno nel territorio del circondario una o più sedi ove il condannato può svolgere il lavoro di pubblica utilità oggetto della convenzione, senza però che a tale omissione siano connesse specifiche conseguenze ovvero poteri di intervento sostitutivo in capo agli attori del processo.
Verrebbe in rilievo anche l’irragionevolezza della norma là dove prevede il necessario svolgimento del lavoro nell’ambito territoriale provinciale di residenza e ciò anche alla luce del comma 2 dell’art. 54, che consente al giudice, su richiesta del condannato, di ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali. La possibilità di deroga in peius rimessa alla libera scelta del condannato varrebbe a colorare di irragionevolezza la mancata, similare previsione di poter consentire, previa richiesta, di svolgere il lavoro di pubblica utilità al di fuori della Provincia di residenza, se non altro in tutte quelle situazioni concrete in cui tale prestazione risulterebbe rispettosa delle esigenze di tutela degli interessi costituzionali dei quali lo stesso art. 54 del d.lgs. citato fa esplicita menzione.
Infatti, nel caso di specie lo svolgimento dell’attività presso l’ente convenzionato, situato nel territorio provinciale di residenza, risulterebbe oggettivamente pregiudizievole per gli interessi familiari della condannata. L’imposizione del criterio territoriale non consentirebbe, dunque, il rispetto effettivo delle esigenze costituzionalmente protette di cui pure la noma fa menzione.
La previsione del vincolo territoriale contrasterebbe, poi, con l’art. 27 Cost.
Sarebbe, infatti, chiara la ripercussione dell’impiego del lavoro di pubblica utilità sul perseguimento degli obiettivi di rieducazione e risocializzazione del condannato, soprattutto nell’ambito dei reati connessi alla circolazione stradale; mediante la prestazione del lavoro di pubblica utilità, il legislatore avrebbe operato una scelta di campo tendente alla sensibilizzazione del soggetto verso i valori della solidarietà sociale, il cui rispetto si sostanzia nell’adempimento degli obblighi lavorativi e, nel contempo, nella mancata commissione di nuovi reati. Inoltre, la disponibilità all’emenda ed alla risocializzazione, manifestata dal condannato mediante il consenso alla prestazione di attività lavorativa socialmente utile finirebbe per orientare positivamente le impressioni della collettività associata, la quale, a sua volta, tenderebbe ad agevolare la reintegrazione del reo, valutando apprezzabilmente lo sforzo e l’impegno tenuti dal condannato nell’adempimento degli obblighi ordinariamente correlati alla prestazione di una attività lavorativa.
Pertanto, vincolare lo svolgimento di tale sanzione paradetentiva ad un dato territoriale sembrerebbe porsi in conflitto con i detti parametri costituzionali.
L’unica ratio di tale divieto potrebbe rinvenirsi nell’opportunità di consentire l’esecuzione della pena nel luogo che costituisce l’ordinario centro degli affari ed interessi del reo: ma detta ratio sarebbe recessiva allorquando la volontà del reo all’espiazione del lavoro socialmente utile, anche al di fuori dell’ambito provinciale, sia sorretta da ragioni di tutela di interessi costituzionalmente tutelati, pure richiamati dall’art. 54 del d.lgs. citato.
La norma denunciata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 29 Cost.
Sotto tale profilo, il rimettente osserva come la circostanza che, nella Provincia di residenza, esista un ente convenzionato presso il quale svolgere il lavoro di pubblica utilità, non potrebbe ritenersi dirimente al fine di precludere all’interessato, sussistendo peculiari ragioni costituzionalmente protette, di espiare la sanzione presso un ente situato fuori dal territorio provinciale. Il disposto dell’art. 54 del d.lgs. citato subordinerebbe lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità non solo al vincolo territoriale, ma anche e congiuntamente alla circostanza che le modalità ed i tempi di effettuazione non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Nel caso oggetto del giudizio a quo – osserva il rimettente – l’espiazione della sanzione sostitutiva presso l’ente convenzionato costituirebbe una modalità oggettivamente pregiudizievole per le esigenze della famiglia della condannata, la quale ha chiesto la sostituzione proprio allo scopo di salvaguardare l’integrità del proprio nucleo familiare. Svolgendo il lavoro di pubblica utilità proprio presso la struttura che – sebbene non convenzionata ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000 e situata al di fuori del circondario del tribunale – ha in cura i propri genitori, la condannata intenderebbe coniugare il percorso di risocializzazione mediante il lavoro con l’espletamento dell’attività di assistenza morale e materiale dei propri genitori; ciò, invece, non sarebbe possibile se la condannata fosse costretta a prestare il lavoro di pubblica utilità presso un ente situato nella Provincia di residenza.
Il rimettente conclude osservando che, nel bilanciamento degli interessi fatti propri dalla norma denunciata – l’espiazione nell’ambito della Provincia del reo da un lato, e l’espiazione con modalità rispettose delle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato dall’altro – dovrebbe assegnarsi indubbia prevalenza al complesso degli interessi esplicitamente posti in evidenza dalla norma denunciata, pena la violazione dell’art. 29 Cost.
Tale giudizio di prevalenza dovrebbe portare a concludere che la mancata iscrizione dell’ente nell’elenco di cui all’art. 7 del d.m. 26 marzo 2001 non è ostativa alla sua individuazione da parte del giudice (dal momento che nessuna sanzione è correlata a tale comportamento ai sensi dell’art. 3 del d.m. citato), allorché nel caso concreto vengano soddisfatte tutte le condizioni di effettività della prestazione lavorativa, di controllo delle attività del condannato e di successiva relazione all’autorità giudiziaria analiticamente previste dalla normativa di rango primario.
4.— Il Tribunale ordinario di Matera, in composizione monocratica e in funzione di giudice dell’esecuzione penale, con ordinanza del 7 dicembre 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 27 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui impone lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità nella Provincia di residenza del condannato, o nella parte in cui non prevede l’ipotesi che il giudice, su richiesta del medesimo, lo ammetta a svolgere il lavoro di pubblica utilità presso un ente non compreso nella Provincia di residenza.
In punto di fatto il rimettente riferisce che il procedimento penale è iscritto a carico di P.C., persona domiciliata in Lecce, condannata con sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti (divenuta irrevocabile il 3 ottobre 2012), in ordine al reato di cui all’art. 186, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 285 del 1992, alla pena di mesi quattro e giorni sei di lavoro di pubblica utilità da prestarsi in favore del Comune di Matera, sulla scorta della convenzione conclusa in data 6 ottobre 2011 tra detto ente ed il Tribunale di Matera.
In particolare, il giudice a quo precisa di aver statuito che la sanzione sostitutiva irrogata fosse eseguita entro trenta giorni dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile.
Ciò premesso, il rimettente riferisce di una istanza, presentata in data 31 ottobre 2012 dal difensore del condannato, con la quale si chiede la concessione di una proroga del termine di trenta giorni dalla irrevocabilità della sentenza, stabilito per l’inizio della espiazione e dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’art. 186, comma 9-bis, del d.lgs. n. 285 del 1992, sull’asserito presupposto che il soggetto sarebbe ospite di una comunità per disintossicazione terapeutica da alcool in territorio di Lecce, così da rendersi necessario, al fine di non interrompere il programma di recupero, consentire che lo stesso possa scontare in detta città la pena sostitutiva, specificando che la medesima comunità si è adoperata nel reperire un ente convenzionato e di stipulare essa stessa una convenzione, allo scopo di permettere al condannato di scontare in Lecce la sanzione inflittagli.
Il rimettente dà, altresì, atto di una nota, sempre a firma del difensore della parte, in data 2 novembre 2012, ad integrazione della precedente istanza, e della relazione stilata da un operatore della comunità, dalla quale risulta che il condannato sarebbe in procinto di ottenere un’imminente assunzione lavorativa presso una impresa edile, operante nel territorio leccese, pur avendo egli concluso da poco, nel mese di settembre 2012, il percorso riabilitativo dall’alcoldipendenza.
Il giudicante precisa, inoltre, che in data 5 novembre 2011 è stata depositata un’altra nota, a mezzo della quale, oltre a ribadire quanto già in precedenza rappresentato, si afferma la disponibilità dei servizi sociali del Comune di Lecce a consentire al condannato di espiare presso detto ente territoriale la pena del lavoro di pubblica utilità, con decorrenza dal mese di gennaio 2013. Infine, il rimettente riferisce che la comunità ha preso contatti con il Comune di Lecce, quale ente asseritamente convenzionato ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, nell’intento di consentire al soggetto la prestazione del lavoro di pubblica utilità nel territorio leccese.
Dopo aver dato atto del parere del pubblico ministero in data 3 novembre 2011, il rimettente in diritto osserva quanto segue.
L’istanza di concessione della proroga del termine per l’inizio dello svolgimento dell’attività lavorativa non retribuita da parte del condannato, presso il Comune di Matera, nelle forme e secondo le modalità di cui alla convenzione del 6 ottobre 2010, fissato in trenta giorni dalla data in cui la sentenza del Tribunale di Matera è divenuta irrevocabile, deve considerarsi tempestiva, essendo stata depositata in data 31 ottobre 2012, antecedente al 2 novembre 2012. In particolare, il rimettente osserva che il condannato, benché risulti ancora residente in Provincia di Matera, è temporaneamente domiciliato in Lecce presso la predetta comunità ed, inoltre, la proroga del termine è diretta a consentire allo stesso di essere ammesso alla prestazione del lavoro di pubblica utilità presso un ente, individuato dalla comunità presso cui è ospite il condannato, nel Comune di Lecce e comunque operante nel territorio di detta città.
Ciò posto, ad avviso del rimettente il dato normativo preclude la possibilità di accogliere l’istanza diretta ad ottenere l’autorizzazione alla espiazione del lavoro di pubblica utilità in territorio diverso da quello di residenza del condannato, stante «il chiaro e letterale disposto dell’art. 54 del d.lvo n. 54/2000» al quale rinvia il comma 9-bis dell’art. 186 del Codice della strada.
Al riguardo, il giudicante riporta il contenuto integrale di detto comma 9-bis, nonché del comma 3, dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, ponendo in rilievo come dall’esegesi letterale del combinato disposto delle due norme emerga un tassativo vincolo di ordine territoriale che obbliga il condannato a svolgere il lavoro di pubblica utilità, al quale egli risulta essere ammesso, nella propria Provincia di residenza, da individuare nel caso di specie nella Provincia di Matera e non in quella di Lecce, dove il condannato è solo temporaneamente domiciliato, ciò avuto anche riguardo «alla nozione tecnica di “residenza” contemplata dall’art. 43, comma 2, c.c.». Attesa, pertanto, la corrispondenza univoca tra il testo della norma censurata ed il significato derivante dalla esegesi letterale, non sarebbe praticabile una soluzione applicativa né un’interpretazione differente, neppure costituzionalmente orientata, se non nel senso di doversi interpretare detta norma nel senso di svolgere il lavoro di pubblica utilità nell’ambito della Provincia di residenza del condannato.
Secondo il rimettente, si delinea, dunque, un «doveroso incidente di costituzionalità dell’art. 54 del d. lvo n. 274 del 2000 in relazione agli artt. 3 e 27 Cost. nella parte in cui la norma de qua impone lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità nella provincia di residenza del condannato o nella parte in cui non preveda l’ipotesi che il giudice, su richiesta del condannato, lo ammetta a svolgere il lavoro di pubblica utilità presso un ente non compreso nella provincia di residenza del medesimo».
Il contrasto sussisterebbe, con riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza dell’inderogabile svolgimento del lavoro nell’ambito territoriale provinciale di residenza del condannato, in rapporto alla previsione espressa di tutela degli interessi di rango costituzionale (esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato), di cui lo stesso art. 54, comma 2, contiene pure esplicita e doverosa menzione, mentre la stigmatizzata previsione di un simile vincolo territoriale si porrebbe in contrasto con lo scopo rieducativo della pena di cui all’art. 27 Cost.
In punto di rilevanza, il rimettente osserva come l’art. 54 del d.lgs. citato costituisca disposizione di applicazione necessaria nel caso in esame, influendo sulla sua definizione dal momento che l’applicazione della norma, nella sua formulazione letterale, condurrebbe al rigetto dell’istanza, mentre una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale comporterebbe – in presenza dei necessari presupposti – il suo accoglimento.
Il giudice a quo, poi, ricorda che la medesima questione di legittimità costituzionale è stata già sollevata dal giudice del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi il cui tenore motivazionale è condiviso dal giudice rimettente.
Infine, egli si sofferma su una premessa di ordine processuale, rilevando come le modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità possano essere modificate dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., alla luce della disciplina dettata dall’art. 186, comma 9-bis, del d.lgs. n. 285 del 1992, ed in applicazione analogica dell’art. 44 del d.lgs. n. 274 del 2000, di cui riporta il contenuto testuale.
Il giudice a quo, inoltre, rileva come, nel caso di specie, non abbia ancora avuto concreto inizio l’espiazione della pena sostitutiva, stante la formulata istanza di concessione della proroga del termine statuito con la sentenza, ragion per cui non ricorre, strictu sensu, una ipotesi di sospensione dell’esecuzione di detta pena.
Ad avviso del rimettente, avuto riguardo alle circostanze fattuali allegate dal difensore del condannato, dalla espiazione della sanzione sostitutiva presso l’ente convenzionato, indicato in sentenza dal Tribunale di Matera, deriverebbe un possibile e concreto pregiudizio ad esigenze di lavoro e, soprattutto, di salute del condannato, suscettibili di tutela costituzionale. Tali esigenze indurrebbero ad una doverosa e prudente delibazione, in via di urgenza, nel bilanciamento degli interessi coinvolti, anche delle disposizioni derivanti dal contenuto precettivo dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000.
Il giudicante afferma, inoltre, la propria competenza a provvedere anche in applicazione del disposto dell’art. 186, comma 9-bis, del codice della strada, in quanto magistrato onorario estensore della sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti, n. 869 del 2012, emessa in funzione di giudice monocratico del Tribunale penale di Matera, vertendosi nell’ambito di procedimenti penali a citazione diretta a norma dell’art. 550 cod. proc. pen.; rientranti negli affari riservati al giudice onorario di tribunale.
Il giudice a quo rileva, altresì, che la cosiddetta “emenda del condannato” sarebbe favorita dall’ammissione di quest’ultimo al lavoro di pubblica utilità da svolgersi nel territorio di Lecce, dove l’interessato è ospite della comunità proprio nel contesto di un apposito programma di disintossicazione da alcol, anche in rapporto alla finalità rieducativa insita nella ratio della sanzione sostitutiva applicata.
Il rimettente segnala il contrasto con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza , in quanto non ovunque si registrerebbe la presenza di enti convenzionati ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, così da precludere agli interessati i benefici premiali contemplati dal vigente art. 186 del codice della strada tra cui, soprattutto, quello della estinzione del reato stesso.
La norma denunciata sarebbe, altresì, in contrasto con l’art. 27 Cost. sotto il profilo della finalità rieducativa cui la pena deve tendere.
Risulterebbe irragionevole che al reo, disponibile a compiere un percorso di risocializzazione mediante la chiesta ed ottenuta ammissione allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, debba essere preclusa la possibilità di conseguire l’emenda per il fatto reato perpetrato, a causa del vincolo della prestazione della attività nella Provincia di residenza, soprattutto nell’ipotesi in cui l’espiazione del lavoro di pubblica utilità in altra Provincia trovi adeguata giustificazione in ragione di tutela di quegli interessi costituzionalmente protetti e contemplati dal medesimo art. 54 del d.lgs. citato.
Il fine della rieducazione del reo e della sua reintegrazione nel contesto sociale, ai sensi dell’art. 27 Cost., anche nello svolgimento della sanzione paradetentiva quale quella del lavoro di pubblica utilità, nel rispetto della volontà del condannato, dovrebbe essere preminente, non potendo essere precluso da un irragionevole vincolo territoriale, la cui ratio non si riuscirebbe a percepire.
Considerato in diritto
1.— Il Tribunale ordinario di Sant’Angelo dei Lombardi, in composizione monocratica e in funzione di giudice dell’esecuzione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe dubita, in riferimento agli articoli 3, 27 e 29 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui impone lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità nella Provincia di residenza del condannato, ovvero – subordinatamente – nella parte in cui non prevede l’ipotesi che il giudice, su richiesta del condannato stesso, lo ammetta a svolgere il lavoro di pubblica utilità presso un ente non compreso nella Provincia di residenza.
Ad avviso del rimettente la norma, nella formulazione attuale, violerebbe: a) l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, in quanto la mancata predisposizione di convenzioni, ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000 nell’ambito di una Provincia, «finirebbe per precludere, in buona sostanza, la possibilità per un soggetto condannato ed ivi residente di accedere a tale sanzione sostitutiva, alla quale peraltro la legge collega – nel caso previsto dall’art. 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) ed all’esito positivo dello svolgimento del lavoro – notevoli benefici premiali, tra cui l’effetto estintivo del reato, la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e la revoca della confisca del veicolo sottoposto a sequestro»; b) l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, in quanto la possibilità riconosciuta al condannato (dalla medesima disposizione) di richiedere al giudice di essere ammesso a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali rende irragionevole la mancata previsione di poter consentire, previa richiesta, di svolgere il lavoro di pubblica utilità al di fuori della Provincia di residenza, se non altro in tutte quelle situazioni concrete in cui tale prestazione risulterebbe rispettosa delle esigenze di tutela degli interessi costituzionali, dei quali lo stesso art. 54 del d.lgs. citato fa esplicita menzione; c) l’art. 27 Cost., in quanto il vincolo territoriale allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità impedisce la realizzazione degli obiettivi di rieducazione e reintegrazione del condannato, nonostante la disponibilità all’emenda ed alla risocializzazione manifestate mediante il consenso alla prestazione di attività lavorativa socialmente utile, disponibilità che, invece, orienterebbe positivamente le opinioni della collettività «valutando apprezzabilmente lo sforzo e l’impegno tenuti dal condannato nell’adempimento degli obblighi ordinariamente collegati allo svolgimento di un’attività lavorativa»; d) l’art. 29 Cost., in quanto l’espiazione del lavoro di pubblica utilità, esclusivamente nell’ambito della Provincia di residenza del reo, non terrebbe conto delle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato cui, invece, si dovrebbe assegnare indubbia prevalenza.
2.— Il Tribunale ordinario di Matera, in composizione monocratica e in funzione di giudice dell’esecuzione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui impone lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità nella provincia di residenza del condannato, o nella parte in cui non prevede l’ipotesi che il giudice, su richiesta del condannato stesso, possa ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità presso un ente non compreso nella Provincia di residenza.
Ad avviso del rimettente la norma, come attualmente formulata, violerebbe: a) l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza dell’inderogabile svolgimento dell’attività nell’ambito della Provincia di residenza del condannato, in rapporto alla previsione espressa di tutela degli interessi di rango costituzionale (esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del medesimo), di cui la stessa disposizione contiene esplicita menzione; b) l’art. 3 Cost., ancora sotto il profilo della irragionevolezza, in quanto, da un lato, stabilisce un vincolo territoriale ancorato alla provincia di residenza del condannato, e, dall’altro, ammette che costui a sua richiesta possa essere ammesso a svolgere il lavoro di pubblica utilità anche per un tempo superiore alle sei ore settimanali; c) l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, in quanto non ovunque si registra la presenza di enti convenzionati, ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, così da precludere agli interessati i benefici premiali contemplati dal vigente art. 186 del codice della strada, fra i quali, soprattutto, quello dell’estinzione del reato stesso; d) l’art. 27 Cost., sotto il profilo della finalità rieducativa della pena, che deve sussistere anche nello svolgimento della “sanzione paradetentiva” del lavoro di pubblica utilità, in quanto preclude al condannato un percorso di risocializzazione e gli impedisce di conseguire l’emenda per il reato perpetrato, specialmente nell’ipotesi in cui l’espiazione del lavoro di pubblica utilità, in altra Provincia, trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi costituzionalmente protetti e previsti dalla norma medesima.
3.— I due giudizi di legittimità costituzionale censurano la stessa norma di legge, con argomenti analoghi o strettamente connessi. Pertanto, essi vanno riuniti per essere definiti con unica sentenza.
4.— Con riguardo alla questione promossa con ordinanza del 7 dicembre 2012, emessa dal Tribunale ordinario di Matera (r.o. n. 37 del 2013), si deve osservare che essa, nel suo tenore letterale, sembra formulata in termini di alternativa irrisolta. Tuttavia, dal contesto del provvedimento si desume che il rimettente si muove nell’ambito di un unico percorso interpretativo, finalizzato alla rimozione del vincolo territoriale imposto dalla norma censurata, sicché gli argomenti svolti si pongono come complementari e non alternativi. Inoltre, il rimettente si dichiara a conoscenza dell’ordinanza del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, «il cui tenore motivazionale è condiviso da questo Magistrato onorario». Il che contribuisce a far escludere che il giudice di Matera abbia inteso argomentare in termini di alternativa irrisolta e non piuttosto in termini di rapporto di subordinazione tra le due ipotesi interpretative, secondo lo schema logico adottato dal Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi e da lui condiviso.
Ne segue che anche la questione proposta con la seconda ordinanza deve essere dichiarata ammissibile.
5.— La questione è fondata.
L’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, nel disciplinare il lavoro di pubblica utilità, stabilisce, nel comma 3, che «L’attività viene svolta nell’ambito della Provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali». Il comma successivo, poi, dispone che «La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore».
Come si vede, si tratta di disposizioni che consentono al giudice di disporre di una certa flessibilità nel governare modi e tempi dello svolgimento della pena, in particolare facendo in modo di non pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato.
Con questo quadro, però, non si concilia, e risulta dunque palesemente irragionevole, il vincolo territoriale imposto al giudice, il quale deve individuare il luogo in cui il lavoro di pubblica utilità deve essere svolto nell’ambito della Provincia in cui il condannato risiede.
Si può presumere che la ratio di tale disposizione sia da ravvisare nell’intento del legislatore di circoscrivere la discrezionalità del decidente, al fine di evitare al condannato eccessivi spostamenti territoriali rispetto al luogo della sua dimora abituale. Ma un simile intento non è, in realtà, coerente con la stessa disciplina del lavoro di pubblica utilità e, dunque, non vale a giustificare il suddetto vincolo territoriale.
In primo luogo, si deve osservare che, ai sensi dell’art. 54, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000, «Il giudice di pace può applicare la pena del lavoro di pubblica utilità solo su richiesta dell’imputato». L’art. 186, comma 9-bis, del d.lgs. n. 285 del 1992 stabilisce che la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità, di cui all’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, «se non vi è opposizione da parte dell’imputato», e formula analoga è adottata dall’art. 187, comma 8-bis, del citato d.lgs. n. 285 del 1982 (e successive modificazioni).
È evidente, comunque, che in tutti i casi suddetti il condannato può non prestare il consenso alla pena del lavoro di pubblica utilità se ritenga non compatibile con le proprie esigenze la scelta della località effettuata dal giudicante, onde la ratio suddetta si rivela inidonea a giustificare la disposizione censurata, perché la finalità in ipotesi perseguita dal legislatore è già garantita dalla necessità del suddetto consenso.
In secondo luogo va rilevato che, come dianzi si è visto, l’attività lavorativa deve essere svolta «con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato». Orbene, tali esigenze – costituenti situazioni giuridiche costituzionalmente tutelate – ben possono essere pregiudicate da circostanze (preesistenti o sopravvenute) che le rendano non compatibili, o non più compatibili, col precetto che «l’attività viene svolta nell’ambito della provincia in cui risiede il condannato». In questi casi la disposizione censurata non consente al giudice di adottare i necessari provvedimenti correttivi. Ben più conforme al canone di ragionevolezza si rivela la previsione di attribuire al giudice, anche in relazione al profilo qui in esame, su richiesta del condannato la possibilità d’individuare la sede in cui il lavoro di pubblica utilità deve essere svolto, superando l’automatismo dell’ancoraggio al territorio della Provincia di residenza.
La norma suddetta, peraltro, non soltanto viola l’art. 3 Cost., nei sensi fin qui esposti, ma si pone anche in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost., alla stregua del quale le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato».
Nella giurisprudenza di questa Corte è costante l’affermazione secondo cui la funzione rieducativa della pena e la risocializzazione del condannato devono avvenire sulla base di criteri individualizzanti e non su rigidi automatismi. In particolare, si è affermato che «la finalità rieducativa della pena, stabilita dall’art. 27, terzo comma, Cost., deve riflettersi in modo adeguato su tutta la legislazione penitenziaria. Quest’ultima deve prevedere modalità e percorsi idonei a realizzare l’emenda e la risocializzazione del condannato, secondo scelte del legislatore, le quali, pur nella loro varietà tipologica e nella loro modificabilità nel tempo, devono convergere nella valorizzazione di tutti gli sforzi compiuti dal singolo condannato e dalle istituzioni per conseguire il fine costituzionalmente sancito della rieducazione» (sentenza n. 79 del 2007). Tali principi, benché riferiti alla legislazione penitenziaria, ben si adattano anche a fattispecie come quelle in esame, nelle quali le finalità rieducative della pena e il recupero sociale del soggetto sono particolarmente accentuati e sono perseguiti mediante la volontaria prestazione di attività non retribuita a favore della collettività.
La previsione di un vincolo territoriale, privo di una adeguata giustificazione, può compromettere le finalità ora indicate, impedendo al giudice una efficace modulazione della pena e dissuadendo il condannato dall’intraprendere un percorso che avrebbe potuto consentirne l’emenda e la risocializzazione.
Sulla base delle considerazioni che precedono, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 3, del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui non prevede che «Se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità fuori dall’ambito della provincia in cui risiede».
Ogni altro profilo rimane assorbito.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 54, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n.274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui non prevede che, «Se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità fuori dall’ambito della provincia in cui risiede».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’1 luglio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 luglio 2013.