Penale e tributario: i due processi non viaggiano sullo stesso binario – Cassazione 15190/2013
I limiti del giudicato penale nel processo tributario
L’articolo 654 del codice di procedura penale prevede che la sentenza penale di assoluzione o di condanna può avere efficacia di giudicato nei giudizi amministrativi, a condizione che, tra l’altro, “la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”.
La citata disposizione, dunque, subordina l’efficacia vincolante del giudicato penale all’assenza di limiti probatori escludendone, implicitamente, l’applicazione al processo tributario, che si contraddistingue, da un lato, per i limiti in materia di prova previsti dall’articolo 7, comma 4, del Dlgs 546/1992 (come il divieto della prova testimoniale) e, dall’altro, per la presenza di elementi presuntivi in grado di fondare il convincimento del giudice tributario.
Quest’ultimo, nell’esaminare le doglianze mosse dal contribuente, non può recepire acriticamente il risultato del giudizio penale, dovendo, in virtù del principio del libero convincimento ex articolo 116 cpc, “esercitare i propri poteri di autonoma valutazione delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, prima di addivenire ad una sentenza di accoglimento o di rigetto” (Cassazione, sentenze 7558/2002, 8488/2009 e 16238/2009).
Ne deriva che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, può essere riconosciuto debitore del fisco, qualora l’atto impositivo si fondi su meccanismi presuntivi sconosciuti al giudice penale, ma in grado di giustificare una pronuncia di condanna in sede fiscale.
D’altra parte, come ha osservato la giurisprudenza della Suprema corte “… in caso di condanna del contribuente … l’Amministrazione non è tenuta a limitare la sua richiesta all’evasione accertata dal giudice penale, potendo legittimamente dimostrare, anche attraverso presunzioni, un’evasione maggiore” (Cassazione, sentenza 19609/2005).
La pronuncia
Con l’ordinanza 15190 del 18 giugno, la Corte suprema ha accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate, rinviando l’esame della controversia ad altra sezione della stessa Commissione tributaria regionale.
Nel caso di specie, i giudici di appello avevano affermato l’efficacia vincolante del giudicato penale nel giudizio tributario, “omettendo di compiere una autonoma valutazione degli elementi acquisti in sede penale”.
Diverso l’assunto dei giudici di legittimità che, nel confermare la piena autonomia dei due processi, quello penale e quello tributario, hanno ricordato il principio secondo cui i giudici tributari non possono omettere di indicare in modo adeguato e specifico gli elementi ritenuti decisivi per l’annullamento dell’atto impositivo emesso nei confronti del contribuente, “non potendo ritenersi a tal fine sufficiente il mero rinvio all’assoluzione del contribuente in sede penale”.
Osservazioni
Il giudicato penale non costituisce un precedente vincolante, bensì un elemento suscettibile di valutazione da parte del giudice, che è tenuto, in ogni caso, a fornire un’adeguata motivazione sul materiale probatorio considerato e posto a fondamento della relativa decisione, anche se in presenza di sentenze definitive in materia di reati tributari.
Del resto, l’attuale Dlgs 74/2000 punta alla sanzione di comportamenti inequivocabilmente dolosi e in grado di arrecare grave pregiudizio all’erario; il che giustifica anche la diversa efficacia dimostrativa attribuita dal giudice penale al dato presuntivo.
In ambito penale, infatti, per accertare la colpevolezza dell’agente, occorre che la prova presuntiva sia connotata dalla caratteristica di “qualificata”, dovendosi fondare su una pluralità di indizi contrassegnati dai requisiti della gravità, della precisione e della concordanza (si veda l’articolo 192 cpp); in ambito fiscale, invece, è sufficiente che la pretesa erariale si fondi su presunzioni legali, quasi sempre semplicissime, basate su un unico fatto o elemento indiziante.