Non evita la condanna l’amministratore della società che partecipa alla frode carosello
La vicenda concerne la condanna del rappresentante legale di una società per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’articolo 2 del Dlgs 74/2000, relativamente a una “frode carosello” tra la stessa società che aveva acquistato beni e servizi da altre due imprese venditrici che “rappresentavano intermediari puramente cartolari, con una minima attività in proprio e legami quasi esclusivi con la società amministrata dall’odierno ricorrente“.
La condanna del Gup viene parzialmente confermata in appello, nei cui confronti l’imputato ricorre per cassazione, lamentando:
- violazione dell’articolo 2 del Dlgs n. 74/2000, per avere i giudici di merito “mal governato” l’onere della prova e compiuto una errata valutazione delle caratteristiche delle società emittenti le fatture per operazioni fittizie
- errata interpretazione della normativa comunitaria e violazione dell’obbligo di motivazione con riguardo alla consapevolezza del ricorrente delle frodi commesse dai propri fornitori, posto che può ipotizzarsi che le due società emittenti operassero mediante importazioni illecite, ma non in qualità di “cartiere”.
La decisione
Nel decidere la vertenza, con la sentenza 25792/2013, la Suprema corte rigetta il ricorso, stabilendo innanzitutto il principio secondo cui la frode tributaria può trovare fondamento nella consapevole condotta dell’amministratore di una società che acquista beni e servizi da un’altra impresa a sua volta praticamente priva di attività alternative.
A tal fine, il giudice di legittimità afferma che la Corte territoriale, sulla scorta delle emergenze processuali, ha motivatamente concluso che le due società venditrici implicate nella frode carosello rappresentavano intermediari puramente cartolari, con minima attività in proprio e legami quasi esclusivi con la società amministrata dal ricorrente, con la conseguenza che, nella fattispecie, non sussistono – secondo la sezione penale – fondate ragioni avverse per annullare, a causa di eventuali incoerenze e contraddittorietà o vizi logici, la decisione impugnata e le trame argomentative dei giudici di merito.
Per tali ragioni, la Cassazione considera infondati i motivi di ricorso nella parte in cui censurano la fittizietà delle fatturazioni e la consapevolezza di tale elemento in capo al ricorrente (cfr Cassazione, sentenza 9870/2011). Anche perché, aggiunge la motivazione della sentenza, non appare contestabile il giudizio valutativo in base al quale il giudice del riesame ha ritenuto rilevanti sul piano ricostruttivo una serie di circostanze che appaiono correlate tra loro e che conducono a conclusioni univoche, come ad esempio il fatto che una della due società venditrici aveva avuto breve vita operativa, con un picco di attività in un anno e un crollo subito dopo, e che aveva operato con metodi discutibili visto il suo fallimento. Un altro elemento ritenuto rilevante è che la società rappresentata dall’imputato abbia avuto come cliente quasi esclusivo un’azienda scelta dal ricorrente come fornitrice per quantità di merci e importi di non poco conto nonostante fosse “priva di storia commerciale e di strutture che ne garantissero la solidità e l’inserimento fisiologico nel mercato lecito“.
Un insieme di circostanze dubitative emerse a carico dei fornitori, queste, che porta il giudice di legittimità a confermare le determinazioni della Corte d’appello, nella considerazione che l’amministratore della società acquirente non poteva non conoscere, e che inevitabilmente conducono a ritenere che lo strettissimo legame fra le due ditte dimostra l’esistenza di un accordo simulatorio e la partecipazione consapevole dell’imputato al meccanismo illegale posto in essere per sottrarsi al pagamento dell’imposta sul valore aggiunto (si ricorda infatti che, al fine di perpetrare la frode carosello, è necessario che almeno una delle transazioni violi le norme che regolano la disciplina Iva).
Peraltro, senza dimenticare che, per principio consolidato, il Fisco può provare la frode carosello anche con presunzioni semplici (Cassazione, sentenze 14960/2013, 12961/2013 e 13825/2012).
Infine, il Collegio giudicante, sollecitato dal ricorrente, ha sottolineato che, con la recente sentenza 3258/2013, la sezione tributaria della Corte suprema, in materia di deducibilità di costi da reato e con riferimento alla nuova disciplina introdotta dall’articolo 8 del Dl 16/2012, ha chiarito che, in ipotesi di frodi “carosello”, la norma richiamata opera una distinzione fra le regole che presidiano l’applicazione del regime Iva e quelle che riguardano invece le imposte dirette: solo per queste ultime la fittizietà soggettiva delle fatture non costituisce più un ostacolo insormontabile al riconoscimento dei costi relativi, restando comunque aperto il problema della concreta deducibilità delle spese in relazione ai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità richiesti dal Tuir (articolo 109).
Resta pertanto escluso, in conclusione, che la novella del 2012 abbia eliminato i presupposti di antigiuridicità delle condotte fraudolente in questione.