Evoluzione delle forme associative dell’attività professionale (2)
Dalla legge 7 agosto 1997, n. 266, al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223
Il primo intervento normativo a carattere generale in materia di società professionali si è avuto con la legge 7 agosto 1997, n. 266, cui va riconosciuto il merito di aver cancellato, con l’abrogazione dell’articolo 2 della legge n. 1815/1939, un palese vizio di incostituzionalità insito nella suddetta legge, consistente nella “disparità di trattamento” tra le “forme” professionali esistenti, sottoposte a regole tra loro differenti. Tuttavia, non essendo mai stato pubblicato il decreto del ministero di Grazia e giustizia cui espressamente aveva rinviato, la norma non risolveva le problematiche inerenti alle società tra professionisti.
Quasi un decennio dopo, il Dl 223/2006 riproponeva la questione, presentandosi, questa volta, quale “risposta italiana” al programma di riforme economiche avviato già nel marzo 2000 dal Consiglio europeo a Lisbona. Come già accennato, il citato programma nel nostro Paese aveva avuto riscontro, senza grande seguito, nelle società tra avvocati (le prime Stp) istituite dal Dlgs n. 96/2001 che, per la prima volta, aveva previsto la possibilità di svolgere in forma societaria l’attività professionale.
Successivamente, erano seguite la risoluzione 16 dicembre 2003 del Parlamento europeo e la comunicazione n. 2004/83 “Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali” della Commissione europea, con la quale erano stati formalmente richiesti ai governi nazionali, alle autorità di concorrenza, agli ordini professionali e ai tribunali nazionali, concreti interventi finalizzati all’eliminazione di quelle limitazioni (prezzi minimi per le prestazioni professionali, divieto di pubblicizzare i servizi offerti, parametri numerici per l’accesso alla professione, divieto di svolgere pratiche multidisciplinari come, appunto, quello di istituire una società tra professionisti o di esercitare la professione nella forma societaria), che di fatto impedivano al sistema economico e agli utenti di beneficiare dei vantaggi della concorrenza. La Commissione europea, nel 2005, aveva poi evidenziato le esigenze di regolamentazione dei servizi professionali in particolare in Italia, ancora molto indietro nel campo delle liberalizzazioni.
In tale ottica, quindi, il Dl 223/2006 abroga tutte le disposizioni legislative e regolamentari che, con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali, prevedevano:
- l’obbligatorietà delle tariffe professionali
- il divieto della pubblicità
- il divieto di fornire servizi professionali da parte delle società di persone e dalle associazioni fra professionisti, lasciando, però, immutati i divieti previsti in ambito professionale sanitario e per le società di capitali.
In sintesi, il decreto ammette l’esercizio in forma societaria delle professioni limitatamente alle società di persone in generale (regolamentate dal titolo V, capi I, II, III e IV del codice civile), quindi, società semplici, società in nome collettivo e società in accomandita semplice.
L’attività libero professionale e intellettuale, mono o multidisciplinare, può essere svolta solo in forma esclusiva con obbligo, ai sensi dell’articolo 2, di indicare tale circostanza nella voce “oggetto sociale” dell’atto costitutivo e nello statuto. Il professionista, in sostanza, non può partecipare a più di una società e la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti, previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità, senza – dunque – far venire meno le garanzie connesse alla precisa imputabilità personale degli atti necessari alla prestazione del relativo servizio. Sotto il profilo della qualificazione, poi, il professionista viene inquadrato come prestatore d’opera intellettuale.
La compagine sociale può essere composta da soci professionisti e non professionisti (rectius non iscritti in Albi). Tale elemento veniva aggiunto in sede di conversione del decreto che, invece, imponeva l’appartenenza a un Ordine e, solo secondariamente, accoglieva i “non professionisti” limitatamente alle prestazioni cd. tecniche o, comunque, con una partecipazione minoritaria.
Accanto alle specifiche problematiche ermeneutiche poste dal Dl n. 266/2006 (ad esempio, le Sas e le Snc, in quanto imprese commerciali, non avrebbero potuto svolgere attività diverse quali quelle professionali), la dottrina del tempo ribadiva il carattere generale delle disposizioni in commento rispetto alla disciplina delle “società tra avvocati” di cui al Dlgs n. 96/2001 che, all’articolo 16, comma 1, dispone: “l’attività professionale di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio può essere esercitata in forma comune esclusivamente secondo il tipo della società tra professionisti, denominata nel seguito società tra avvocati” che, pertanto, veniva considerata inderogabile con la conseguenza di consentire l’esercizio in forma di società multidisciplinare soltanto dell’attività di consulenza.
Va detto che l’impatto delle “riforme” in rassegna apparirà da subito differente alle diverse categorie di professionisti: mentre, ad esempio, per ingegneri e architetti le modifiche non sono ritenute sostanziali (rispetto, come si dirà appresso, alla disciplina giuridica specifica delle società di ingegneria e architettura), viceversa per avvocati, commercialisti, consulenti professionali e quant’altro, le norme di cui è cenno rappresentano innovazioni considerevoli e spesso vissute in chiave conflittuale, tanto da essere lette non come una semplice “scossa”, bensì come un “terremoto” per il mondo professionale, generando levate di scudi e critiche da parte di tutte le sue componenti, reazioni motivate, al di là dei singoli contenuti, soprattutto dal “metodo” con cui la riforma era stata condotta, ritenuto assolutamente carente di dialogo con le parti e con i rappresentanti delle professioni.
Dlgs 12 aprile 2006, n. 163, e Dpr 5 ottobre 2010, n. 207
La legge n. 109/1994 legittimava l’affidamento di incarichi relativi a “studi di fattibilità, ricerche, consulenze, progettazioni o direzioni dei lavori, valutazioni di congruità tecnico- economica o studi di impatto ambientale in materia di lavori pubblici” a società, rinviando poi agli specifici requisiti nonché ai principi di regolamentazione della relativa attività al Regolamento di attuazione, emanato con Dpr n. 554 del 1999.
Il riferimento era alle società di progettazione industriale o società di engineering, la cui attività non si risolve, per altro, nella mera progettazione di opere di ingegneria.
L’attuale disciplina giuridica delle società di ingegneria e architettura si rinviene principalmente in due fonti normative, che hanno modificato e “assorbito” la normativa preesistente sugli appalti pubblici: il “Codice dei contratti pubblici” (Dlgs 163/2006 e sue modifiche) e il “Regolamento attuativo del Codice” (Dpr 207/2010).
Va premesso che, per questi soggetti, la caratterizzazione organizzativa derivante dallo specifico settore d’intervento ricalca, quasi naturalmente, un contesto societario “commerciale”. La normativa in commento riguarda, infatti, le “società di ingegneria” ovvero quelle strutture – per altro di fatto molto diffuse anche prima ancora della regolamentazione ex legge n. 109/1994 – utilizzate dai professionisti del settore (prevalentemente ingegneri e architetti) “con funzione propedeutica e strumentale rispetto ad opere più complesse” cui la legge “riconosce la possibilità di accedere al mercato pubblico della progettazione” (cfr Cinzia De Stefanis, Società e associazioni tra professionisti – Santarcangelo di Romagna (RN), 2008, pag. 201).
Oltre all’ambito operativo di riferimento costituito esclusivamente dalla committenza pubblica, sussistono contemporaneamente due presupposti caratterizzanti tali forme organizzative:
- presupposto soggettivo: devono assumere la forma di società di capitali di cui ai capi V, VI e VII del titolo V del libro quinto del codice civile (società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata), ovvero – ex legge comunitaria del 2004 – società cooperative che non siano in possesso dei requisiti previsti per le cooperative di professionisti
- presupposto oggettivo: avere per oggetto l’esecuzione di studi di fattibilità, ricerche, consulenze, progettazioni o direzione dei lavori, valutazione di congruità tecnico-economica o studi di compatibilità ambientale.
Tale regolamentazione non ha escluso la possibilità che l’intervento nel settore pubblico e per l’aspetto oggettivo di riferimento sopra indicato possa essere realizzato anche nella forma di “società di professionisti” iscritti nei rispettivi albi professionali, richiamando – in chiave di coerenza sistemicaex legge n. 266/97 – le forme societarie “commerciali” di cui ai capi II, III e IV del libro V del codice civile (società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice) ovvero nella forma di società cooperative. Come già accennato, alla base dell’esercizio di attività professionali in forma di impresa commerciale tipizzato nelle “società di ingegneria”, stanno le complesse esigenze organizzative e progettuali necessarie alla realizzazione di progetti tecnici di rilevanti proporzioni.
Insomma, per dirla con gli “addetti ai lavori” il campo di attività in cui tali soggetti sono coinvolti è molto vasto e il termine “società di ingegneria” “(…) vuole essere il corrispondente concettuale di“consulting engineering”, di molto più antica origine anglosassone che indica un enorme complesso di attività collegato alla realizzazione di opere o impianti in tutti i settori dell’economia in cui è necessario realizzare, coordinare, costruire: dall’agricoltura all’informatica, dall’energia alle infrastrutture, a tutti i settori industriali“ (cfr Massimo Ajello, Engineering, la competenza non si limita agli aspetti tecnici, in Anna Luisa Haring, Wirtschaftsitalienisch. L’italiano dell’economia – Oldenbourg Wissenschaftsverlag GmbH, 2010 – pag. 502).
Infine, la tendenza consolidatasi con lo sviluppo delle “società di progettazione” è stata precisamente quella di sganciare la prestazione professionale dalla tradizionale valutazione del cosiddetto intuitus personae e dalla correlata responsabilità del singolo professionista, privilegiando piuttosto la prestazione di una serie di servizi “collettivi” funzionali alla complessità del “prodotto” offerto, con ciò sfuggendo alla limitata capacità di “progettazione” da parte del singolo professionista.
2 – continua. La prima puntata è stata pubblicata il 24 maggio