Penale

L’elusione si trasforma in delitto quando l’indebito risparmio d’imposta supera i limiti posti dalla norma

ciak_0La Corte suprema ha stabilito che rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 4 del Dlgs 74/2000 la condotta del contribuente idonea a determinare una riduzione della base imponibile, realizzata attraverso particolari conferimenti (rilevanti ex articolo 37-bis, comma 3, Dpr 600/1973) a una società a responsabilità limitata, comunque riferibile al suo ambito familiare. Questo il principio di diritto stabilito dalla Cassazione Penale, con la sentenza n. 19100 del 3 maggio 2013.

I fatti
Un attore stipulava un contratto con una Srl – di cui possedeva il 20% delle quote, mentre il resto era riferibile a suoi stretti familiari – in forza del quale cedeva alla società i diritti di utilizzazione economica della propria immagine dietro un compenso minimo garantito di 100mila euro. Inoltre, l’attore versava alla società il 40% dei compensi da lui annualmente fatturati.
I militari della Guardia di finanza ritenevano che l’unico scopo della costituzione della società e del contratto fosse quello di eludere le imposte dovute. Infatti, senza che emergesse alcun vantaggio economico dal descritto conferimento, il 40% degli incassi (poste attive) veniva trasformato in costi deducibili (poste passive). Quindi, la contestazione di violazioni dell’articolo 4 del Dlgs 74/2000, da parte del pm presso il Tribunale di Roma.

Il giudizio di merito
Sia il Gip sia, in sede di appello, il Tribunale di Roma respingevano la richiesta di sequestro preventivo di beni immobili dell’attore, sulla base dell’assunto che la sua condotta non fosse tassativamente prevista dalla norma penale.
A questo punto, il procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale ricorreva per cassazione, denunciando violazione dell’articolo 4 del Dlgs 74/2000, in relazione agli articoli 37, comma 3 e 37-bis, Dpr 600/1973.

La Cassazione sull’abuso del diritto
La Corte suprema rileva che la costituzione della società era pacificamente avvenuta a fini elusivi.
In proposito, è orientamento consolidato del Collegio di legittimità quello secondo cui il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo: il contribuente, in sintesi, non può conseguire indebiti vantaggi fiscali, tramite l’uso distorto – pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di legge – di strumenti giuridici idonei a ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili.
Di più: tali comportamenti possono avere anche una rilevanza penale, sempre salvaguardando il principio di legalità, poiché questa, a giudizio della Cassazione, è stata la scelta adottata dal legislatore, in occasione dell’emanazione del Dlgs 74/2000.

La nuova nozione di “conferimento in società”
Ciò premesso, la circostanza in esame – osserva la Corte – rientra pienamente nella fattispecie di cui all’articolo 37-bis, comma 3, Dpr 600/1973, secondo cui, affinché sia rilevante una particolare condotta antielusiva, deve estrinsecarsi – tra le altre – in condotte di “conferimento in società”.
Ebbene, con tale allocuzione, alla luce del novellato articolo 2464 cc, devono intendersi tutti gli apporti di elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica, non solamente – come riteneva il Tribunale di Roma – i casi di trasferimento di proprietà dal socio alla società.
Di conseguenza, il riconoscimento dell’elusività nella condotta contestata e la sua penale rilevanza.

Osservazioni
La sentenza in esame aderisce all’orientamento che ammette la compatibilità fra abuso del diritto e reato.
In proposito, va dato conto dell’esistenza anche di pronunce di senso contrario, secondo le quali “la violazione delle norme antielusive, in linea di principio, non comporta conseguenze di ordine penale” (n. 23730/2006), poiché “la figura del cosiddetto abuso del diritto, qualificata dall’adozione (al fine di ottenere un vantaggio fiscale) di una forma giuridica non corrispondente alla realtà economica, non ha valore probatorio perché implica una presunzione incompatibile con l’accertamento penale, ed è invece utilizzabile in campo tributario come strumento di accertamento semplificato…”.

Tuttavia, la tesi della possibilità di rilevanza penale dei comportamenti elusivi appare prevalente, poiché fatta propria dalla novella del 2000 del diritto penale tributario, come interpretata anche dalle sezioni unite della Cassazione (nn. 27/2000, 1235/2010) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 49/2002).

Mandare esenti da pena fattispecie come quella in esame significherebbe, in definitiva, sacrificare sull’altare del “diritto penale minimo” – inteso come tendenza giuridica moderna alla depenalizzazione dei comportamenti – una chiara volontà del legislatore.

Martino Verrengia, nuovofiscooggi.it

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