Tributaria

Lecito il dubbio dell’ufficio se il prezzo non è “normale” – Cassazione sentenza 10739/2013

Applicare condizioni esageratamente di vantaggio alla consociata estera, anche senza elusione, può comportare la violazione dei principi internazionali sulla libera concorrenza

Con la sentenza 10739 dell’8 maggio, la Corte suprema ha ribadito importanti principi in tema di ripartizione dell’onere della prova in caso di manifesta sproporzione del costo e in tema di presupposti legittimanti la contestazione della violazione del transfer pricing.

Lo svolgimento del processo e le affermazioni dei giudici di legittimità
La Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna aveva annullato un avviso di accertamento nella parte in cui erano stati ripresi a tassazione costi per 200mila euro relativi al pagamento di un marchio, ritenuti dall’ufficio indeducibili perché eccessivi, oltreché maggiori redditi per complessivi 557.566,23 euro, relativi ad “abbuoni” a beneficio di controllate estere ritenuti non veritieri.
Secondo la Ctr, con riguardo alla ripresa a tassazione dei 200mila, l’Amministrazione non aveva dato dimostrazione del minor valore del marchio.
Con riguardo invece alla ripresa a tassazione ricondotta alla fattispecie di transfer pricing, i giudici di secondo grado ritenevano che l’ufficio non avesse dimostrato il regime fiscale di maggior favore dei Paesi esteri sede delle controllate.
E, questo, perché l’ammontare degli sconti praticati alle controllate straniere era da considerarsi plausibile e perché l’Amministrazione non aveva allegato il “valore normale” delle cessioni, mentre doveva considerarsi “inconferente” la evidenziata sproporzione tra prezzi praticati a clienti e prezzi praticati alle controllate.

Contro tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione. L’Agenzia deduceva in particolare che la Commissione regionale era incorsa in errore, addossando all’Amministrazione l’onere della dimostrazione del “valore adeguato del costo” relativo al pagamento del marchio, laddove, invece, avrebbero dovuto esser considerati “sufficienti” i precisi elementi indiziari, forniti dall’ufficio, circa la sussistenza di una rilevante divergenza tra il valore esposto in bilancio e il valore effettivo, dovendosi pertanto ritenere che al contribuente spettasse l’onere di provare l’inerenza del costo, fornendo tutti gli elementi atti a supportare la deducibilità.

Secondo la Corte di cassazione, il motivo era fondato.
Il Collegio di legittimità, a riguardo, nella sentenza in esame, rammenta infatti la sua costante giurisprudenza, orientata nel ritenere che, “poiché trattasi di provare una deduzione, spetta al contribuente ex art. 2697 c.c., dimostrare, quando l’Ufficio abbia dato conto di taluni elementi di irrealtà del valore dedotto, l’ammontare delle spese per beni o servizi da dedursi (Cass. n. 19489 del 2010; Cass. n. 9917 del 2008)”.
E, nel caso concreto, l’Amministrazione aveva evidenziato e addotto gli elementi che deponevano nel senso della eccessività del costo. I giudici di secondo grado, quindi, non avevano correttamente applicato le disposizioni di legge laddove, dal mancato assolvimento di un inesistente onere della prova posto a carico dell’ufficio, avevano fatto derivare la deducibilità del costo.

Con successivo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate censurava poi la sentenza per avere la Ctr errato nel ritenere che, in materia di transfer pricing, l’Amministrazione fosse anche tenuta all’onere della dimostrazione della esistenza di un regime di miglior favore fiscale dei Paesi esteri in cui hanno sede le altre società del gruppo.
La circostanza del miglior regime fiscale, secondo l’Agenzia, era invece da ritenersi estranea alla fattispecie del transfer pricing e ciò in quanto la disposizione in esame ha la finalità non già di valutare il carico fiscale complessivo gravante sull’operazione infragruppo, ma piuttosto di procedere a una corretta determinazione del reddito imponibile allocabile in Italia. Anche questo motivo, secondo i giudici di legittimità, era fondato.
La Corte suprema evidenzia, infatti, in particolare, che “il cosiddetto transfer pricing costituisce, dal lato economico, un’alterazione del principio della libera concorrenza”. E questo nel senso che transazioni tra società appartenenti a uno stesso gruppo, ma con sede in Paesi diversi, avvengono per prezzi che non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mercato.
Cosicché, proprio allo scopo di preservare l’esatta pretesa impositiva di ciascuno Stato e di tutelare il principio di libera concorrenza, sono state adottate normative nazionali predisposte a eliminare e comunque contrastare il fenomeno del transfer pricing.
Normative che recepiscono il principio del prezzo normale delle transazioni commerciali, contenuto nel modello Ocse, articolo 9, comma 1, convenzione del 1995; principio, questo, recepito anche in Italia.

La disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, ha giustamente evidenziato la Corte suprema, prescinde peraltro dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale. Se si vuole, concludono i giudici di legittimità, “la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare. E questo, appunto, perché la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sé”.
Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing, non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale.

E’ pertanto necessario, da parte dell’Amministrazione, soltanto dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate e “spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali à sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3. Disposizione per la quale, come noto, son da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati “in condizioni di libera concorrenza” con riferimento, “in quanto possibile”, a listini e tariffe d’uso”.
La Ctr, quindi, nel caso di specie, non aveva correttamente interpretato la disciplina, in particolare quando aveva preteso dall’Amministrazione la prova dell’elusione e, nello specifico, la prova di una fiscalità di favore della legge straniera.

Conclusioni su costi “eccessivi”
Le scelte del contribuente, pertanto, come ormai costantemente affermato dalla Cassazione e come ribadito anche nella sentenza in esame, non sono assolutamente insindacabili, in particolare quando si configura chiaramente un’operazione, ex se, antieconomica.
Illuminante, a tal proposito, quanto affermato nel 2002 dalla Corte suprema (Cassazione, sentenza 6337/2002), secondo la quale, “anche in presenza di scritture contabili formalmente corrette, è possibile il ricorso ad un accertamento analitico-induttivo, qualora la contabilità stessa sia complessivamente inattendibile in quanto configgente con i criteri di ragionevolezza”.
Il contribuente deve muoversi quindi, comunque, nei limiti della ragionevolezza e dell’economicità.
Il Fisco non è tenuto, infatti, a credere che il contribuente agisca in modo antieconomico e, quando lo fa, è lecito, quanto meno, dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate, “con la conseguenza che l’Ufficio può presumere maggiori ricavi o minori costi e l’onere della prova si sposta sulla parte privata” (vedi anche Cassazione, sentenze 1821/2000, 12813/2000 e 11645/2001).
Pertanto, in presenza di un comportamento che sfugga a questo parametro di “buon senso”, è sicuramente legittimo il sospetto che l’incongruenza sia soltanto apparente e che dietro di essa si celi una diversa realtà.

Conclusioni su transfer pricing
La condizione di appartenenza allo stesso gruppo rende dunque necessario accertare il procedimento seguito dalla società italiana nella determinazione dei prezzi di trasferimento dei propri prodotti alla consociata estera.
L’ingerenza dell’Amministrazione finanziaria nel merito delle decisioni aziendali discende infatti, in questo caso, dalla presenza nel nostro ordinamento tributario di una precisa disposizione normativa, contenuta oggi nell’articolo 110, comma 7, del Tuir, per cui “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e dei servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito…”.
Il comma 2 dello stesso articolo rimanda poi, per la determinazione del valore normale dei beni e dei servizi, all’articolo 9 dello stesso Testo unico.

Il principio di libera concorrenza rappresenta dunque la regola internazionale che deve essere utilizzata per la fissazione dei prezzi di trasferimento, ai fini fiscali, dai gruppi multinazionali e dalle amministrazioni fiscali.
Il fatto che l’eventuale transfer pricing (la cui ratio, come detto, è quella di preservare le regole internazionali di libera concorrenza, potenzialmente messe in pericolo dalla sussistenza di interessi infragruppo) sia per così dire “aggravato” (e dal punto di vista dell’azienda “incentivato”) dal fatto che con le operazioni eventualmente contestate per illecito transfer pricing si deviano anche redditi imponibili in Italia verso “paradisi fiscali”, con dunque anche ulteriore (illecito) risparmio di imposta, è solo un di più, non rientrando la relativa prova in ordine al miglior regime fiscale tra i presupposti per l’applicazione della disciplina in tema di transfer pricing.

Non è questa, infatti, la ratio del contrasto a tale tipo di transazione (che può anche avvenire nell’ambito di Paesi con tassazione “ordinaria”) e la circostanza descritta rappresenta, eventualmente, soltanto un elemento di giudizio aggiuntivo in ordine all’interesse fiscale all’operazione da parte del contribuente, costituendo un’ulteriore motivazione (oltre alla violazione del principio di libera concorrenza) che può aver spinto la società alle illecite pratiche di pricing.
Nella contestazione l’aspetto probatorio assume, dunque, una valenza importantissima.

Per tali motivi, il concetto di arm’s length è stato, ed è, oggetto di approfondimento anche da parte di organismi sovranazionali, in particolare dal punto di vista dei profili probatori, mediante l’elaborazione di standard di documentazione in grado di fornire, da parte del contribuente, quella prova contraria richiesta, per esempio, anche dall’articolo 29 Cdc (Codice dogale comunitario, Reg. Ce 23 aprile 2008, n. 450/2008), in tema di valore in dogana.
Documentazione tesa appunto ad appurare il rispetto del principio di libera concorrenza, in particolare nei casi di legame tra compratore e venditore sotto forma di rapporti infragruppo.

Giovambattista Palumbo, nuovofiscooggi.it

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