La sede principale degli affari prevale sull’iscrizione anagrafica – Cassazione Civile sentenza 6598/2013
L’Amministrazione può accertare la residenza fiscale in base a precisi elementi presuntivi, come la disponibilità di una casa, l’acquisto di beni o la gestione di una società
È da ritenersi fiscalmente residente in Italia il cittadino che qui conserva il proprio domicilio, inteso come sede principale di affari, interessi economici e relazioni personali, pur essendo iscritto all’Anagrafe degli Italiani residenti all’estero.
Nonostante le risultanze anagrafiche, infatti, l’Amministrazione finanziaria può accertare lo status di residente fiscale in base a precisi e puntuali elementi presuntivi, fra i quali l’acquisto di beni immobili, la gestione di affari in contesti societari, la disponibilità di almeno una abitazione in cui trascorrere parte dell’anno e l’intestazione presso un istituto di credito con sede in Italia di conti correnti continuamente movimentati.
Così ha deciso la Corte di cassazione con la sentenza 6598 del 15 marzo.
Il fatto
La controversia trae origine da un avviso di accertamento ai fini Irpef e Ilor, emesso per il recupero a tassazione di maggiori redditi da fabbricati e da lavoro autonomo, notificato a un soggetto che, seppur iscritto all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero perché emigrato in Venezuela, a parere dell’ufficio conservava in Italia il centro dei propri affari e delle relazioni personali.
In sede di appello, accogliendo le doglianze del contribuente, la Ctr provvedeva all’annullamento dell’impugnato atto impositivo.
Le motivazioni della pronuncia si fondavano sul presupposto che, diversamente da quanto accertato, nel caso di specie non ricorreva la condizione di prevalenza della presenza in Italia, prevista dalla norma tributaria: a tal riguardo, i giudici rilevavano che il contribuente non solo non disponeva di un’abitazione, ma aveva altresì divorziato all’estero, dove peraltro i figli studiavano.
I giudici d’appello, inoltre, non davano valenza probatoria a tutti gli elementi presuntivi addotti dall’Amministrazione finanziaria, atti a confermare un collegamento del contribuente con lo Stato italiano, quali il possesso di diversi immobili o la titolarità di cariche societarie.
Contro la sentenza di secondo grado proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia dell’Entrate, denunciando l’omessa e insufficiente motivazione della sentenza su un punto fondamentale della controversia.
In particolare, l’ufficio accertatore lamentava la circostanza che il collegio di secondo grado, omettendo qualsiasi valutazione critica sulle censure sollevate, non avesse considerato il fatto che l’interessato avesse fatto dell’Italia il proprio centro degli affari e degli interessi economici e personali, avvalorati dalle risultanze catastali e dai dati contenuti nell’Anagrafe tributaria, oltre al fatto che il figlio minore fosse residente in Italia.
I giudici della Suprema corte, ritenendo fondati i motivi di ricorso, hanno provveduto al conseguente accoglimento e alla cassazione della sentenza di secondo grado impugnata, rinviando la discussione a una diversa Commissione tributaria regionale.
La decisione
Il tema posto all’attenzione dei giudici di legittimità riguarda l’accertamento dello status di residente fiscale di quel contribuente che, seppur dichiaratosi residente fuori dal territorio dello Stato italiano, qui mantiene il centro dei propri interessi, economici e personali.
In questa sede la Corte conferma il principio, oramai consolidato in giurisprudenza, per cui l’iscrizione di un cittadino nell’Anagrafe dei residenti all’estero non costituisce ex se elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia.
Come noto, infatti, l’articolo 2, comma 2, del Tuir, prevede tre presupposti, alternativi tra loro, per la determinazione della soggettività passiva ai fini delle imposte sui redditi, che devono realizzarsi per la maggior parte del periodo d’imposta: il primo, di natura formale, costituito appunto dalle risultanze anagrafiche; i successivi, di natura sostanziale e alternativi al primo, costituiti dalla residenza o dal domicilio nello Stato.
Per espressa previsione normativa, le nozioni di residenza e di domicilio sono desumibili dall’articolo 43 del codice civile che definisce residenza “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale” e il domicilio “il luogo in cui essa ha stabilito la sede dei suoi affari ed interessi”.
Focalizzando l’attenzione sul presupposto del domicilio, oggetto della controversia in commento, esso deve essere inteso non solo nel senso di sede principale degli affari e degli interessi economici, bensì anche delle relazioni personali.
Ciò in quanto il domicilio non è caratterizzato da una condizione oggettiva, come nel caso della residenza, in quanto richiama una situazione giuridica che si basa sulla volontà del soggetto di stabilire in un determinato luogo la sede dei propri “affari e interessi”, in cui rientrano e assumono rilevanza i rapporti di natura morale, sociale e familiare.
A parere dei giudici, l’esistenza di tali relazioni personali deve essere provata e documentabile, anche sulla base di elementi presuntivi, come ad esempio “l’acquisto di beni immobili, la gestione di affari in contesti societari, la disponibilità di almeno un’abitazione nella quale trascorrere diversi periodi dell’anno, l’intestazione presso una banca avente sede in Italia di conti correnti continuamente implementati”.
In quest’ottica, il “centro principale degli interessi vitali del soggetto” può prescindere sia dalla scelta “soggettiva ed elettiva” di trasferire la propria residenza fuori dallo Stato italiano, sia dall’effettiva presenza fisica del contribuente, dovendosi invece individuare “dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercita abitualmente in modo riconoscibile dai terzi”, contemperando la volontà individuale con le esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi.
Alla luce di tale interpretazione, i giudici della Cassazione hanno avvalorato la tesi dell’Amministrazione finanziaria, che ha accertato con ragionevole certezza l’effettivo centro degli interessi in Italia, nonostante l’iscrizione all’Aire.
Il contribuente, infatti, è risultato proprietario di numerosi immobili, come dimostrato dalle apposite visure catastali, nonché rappresentante legale di un gran numero di società con sede legale in Italia, come emerso dalle indagini presso il sistema informativo dell’Anagrafe tributaria.
Inoltre, è stato acclarata la sua presenza durante diverse riunioni del consiglio di amministrazione di una società con sede legale nel nostro territorio, da cui era stato peraltro incaricato di eseguire le operazioni concernenti l’intera gestione operativa, sia in Italia che all’estero; in ultimo, il figlio minorenne risultava residente in Italia.
Ebbene, la Corte ha ritenuto che tutti gli elementi presuntivi offerti dall’ufficio, sia in sede di accertamento che di contenzioso, ognuno dei quali dotato di idoneo conforto documentale, fossero tali da affermare che il contribuente avesse continuato a mantenere in Italia i propri legami familiari e il centro dei propri interessi economici e patrimoniali, condizioni sufficienti a realizzare un collegamento effettivo e stabile con il territorio italiano.
Di contro, né il contribuente né tantomeno i giudici di merito avevano fornito prove sufficienti a dimostrare che gli elementi contestati dall’ufficio non fossero fiscalmente rilevanti, limitandosi a dare motivazioni vaghe e illogiche: ad esempio, che le visure catastali fossero scarsamente affidabili per dimostrare l’effettiva titolarità degli immobili realmente posseduti, oppure che le cariche societarie fossero in realtà ridotte, sia per numero sia per importanza, rispetto a quelle accertate, tanto da non poter supportare l’indizio di un centro di riferimento economico-sociale in Italia.
Vale la pena osservare, infine, che la posizione della giurisprudenza di legittimità è conforme alle istruzioni fornite dall’Agenzia delle Entrate che, in tema di soggettività passiva, ha chiarito che è sempre necessaria una valutazione specifica, caso per caso, dei molteplici rapporti che un soggetto iscritto Aire detiene con il nostro Paese in un determinato periodo d’imposta, al fine di verificare se e quando egli abbia “effettivamente perso ogni significativo collegamento con lo Stato italiano” e per essere così considerato fiscalmente non residente (risoluzione 351/2008).
L’Amministrazione ha, altresì, chiarito che l’esame delle possibili relazioni con il Paese, sia di natura personale sia reale, può essere effettuata non a priori, ma solo in sede di eventuale accertamento.
Emiliano Marvulli – nuovofiscooggi.it