Indebita detrazione di fatture. La “correttezza” va provata – Ctp di Firenze 69/20/2013.
Se i verbali evidenziano costi fittizi, confermati anche dalle confessioni del rappresentante legale, il contribuente è tenuto a dimostrare la legittimità delle operazioni
È quanto emerge dalla Ctp di Firenze 69/20/2013 del 5 marzo.
In data 9 febbraio 2012 la Guardia di finanza aveva avviato una verifica fiscale a carico di una società per gli esercizi 2003, 2004, 2005, 2006 e 2007.
Tale controllo traeva origine da una segnalazione del nucleo di polizia tributaria della Gdf di Forlì, che evidenziava l’emissione di fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti da parte di una società con sede a Rimini, come peraltro anche espressamente ammesso del legale rappresentante della stessa società.
Le fatture emesse nei confronti della società fiorentina venivano allora segnalate alla Guardia di finanza di Firenze, territorialmente competente, al fine di verificare l’eventuale contabilizzazione e l’effettiva utilizzazione delle fatture summenzionate, relative a prestazioni di sponsorizzazione e consulenza informatica.
I riscontri effettuati confermavano, dunque, che:
- le fatture si riferivano a operazioni inesistenti
- la società aveva contabilizzato le fatture
- la società non aveva inserito le suddette operazioni tra le variazioni in aumento della dichiarazione dei redditi.
In particolare, la società riminese emetteva le fatture per prestazioni di servizi nei confronti dei propri clienti, riceveva regolarmente i pagamenti e, dopo aver provveduto al loro versamento in un conto corrente acceso presso una banca della Repubblica di San Marino, restituiva agli stessi clienti una somma in contanti pari al 75-85% dell’importo complessivo; allo scopo, quindi, simulava pagamenti fittizi nei confronti di un fornitore, inconsapevole, a mezzo di assegni circolari.
Tali circostanze, dichiarate (rectius: confessate) dal rappresentante legale della società, trovavano conferma anche nei riscontri effettuati dalla Guardia di finanza, che, effettuato un controllo sul conto corrente acceso ad altra società facente capo al medesimo rappresentante legale della società con sede a Rimini, presso la stessa banca di San Marino, riscontrava la presenza di prelevamenti in contanti in prossimità delle date di versamento degli assegni fuori piazza. Circostanza riconducibile alla restituzione dell’importo prelevato alla persona che aveva disposto l’emissione del titolo.
Per le rilevate violazioni costituenti reato, i militari della Guardia di finanza avevano interessato la competente autorità giudiziaria in data 17 settembre 2010, visto che le stesse integravano il reato di “emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti” (articolo 8, Dlgs 74/2000).
Già nell’accertamento era stato quindi dato atto che, ai sensi dell’articolo 43, comma 3, del Dpr 600/1973 e dell’articolo 57, comma 3, del Dpr 633/1972, erano raddoppiati i termini ordinari per la notifica degli avvisi di accertamento relativi.
La società, nel ribattere alle contestazioni avanzate, riteneva dunque che le modalità stesse, attraverso le quali si sarebbe realizzato l’illecito, provassero la sua estraneità ai fatti:
- quanto al pagamento dell’importo documentato, la parte sosteneva di aver pagato integralmente la somma documentata da fattura e intrattenuto rapporti con l’incaricato della società riminese
- quanto alla restituzione dell’80% dell’importo documentato, la parte ne sosteneva l’inverosimiglianza, considerato che, a suo dire, le prestazioni di pubblicità/sponsorizzazione erano state effettivamente eseguite: le prestazioni in questione erano state effettuate nel corso di manifestazioni, che avevano richiesto un notevole impiego di risorse e la restituzione quasi integrale dell’importo avrebbe consentito di coprire soltanto le spese e avrebbe reso l’operazione priva di utilità economica.
L’ufficio evidenziava però come tali argomenti fossero del tutto infondati, come dimostrato sia dalle dichiarazioni del rappresentante legale della società riminese e sia dai riscontri effettuati dalla Guardia di finanza, che provavano l’inesistenza delle operazioni.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla parte nei propri scritti difensivi, l’azione accertatrice dell’ufficio e le conclusioni cui erano giunti i verbalizzanti rappresentavano, quindi, il frutto non già di giudizio e/o opinioni generalizzate e arbitrarie, bensì il risultato di attente e accurate indagini, di svariati controlli documentali, di ripetuti riscontri incrociati.
Tutti gli elementi istruttori, come detto, erano stati, poi, confermati dallo stesso rappresentante legale della società riminese, il quale, contro il proprio interesse, con sostanziale confessione, aveva rilasciato chiare e precise dichiarazioni che non davano adito ad alcun dubbio.
Del resto, stante il valore inferenziale che lo stesso codice civile assegna alla confessione, considerandola prova legale (e come tale vincolante per il giudice), l’oggettività delle circostanze affermate con tali dichiarazioni non necessitava in realtà neppure di altri elementi (comunque nel caso di specie anche reperiti), dovendosi già ritenere per acquisita.
Con riferimento all’utilizzo di tale strumento probatorio, inoltre, l’ufficio rammentava il costante insegnamento giurisprudenziale, secondo cui la confessione, per quanto resa in un processo penale, ha pieno valore nel procedimento tributario, ed è “utilizzabile dal giudice tributario anche come prova esclusiva della pretesa tributaria” (Cassazione 20601/2005 e 9320/2003).
In conclusione, secondo l’ufficio, la società aveva intrattenuto rapporti economici con imprese coinvolte in un vorticoso giro di fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti.
Questo elemento di fatto non poteva essere in contestazione.
Tanto premesso, secondo l’ufficio, come anche confermato dalla Corte suprema, “In tema di imposte sui redditi, ove l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture perché relative ad operazioni inesistenti, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente. Detta prova non può, peraltro, essere costituita dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento, che normalmente vengono utilizzati fittiziamente, e che, pertanto, rappresentano un mero elemento indiziario, la cui presenza (o assenza) deve essere valutata nel contesto di tutte le altre risultanze processuali” (Cassazione 1134/2009).
Tali conclusioni sono state del resto da ultimo ancora ribadite dalla Corte suprema con l’ordinanza 4947/2012, secondo la quale le fatture emesse da società cartiere sono prive del valore riconosciuto ai documenti regolari e di conseguenza non possono trovare valido ingresso nella contabilità Iva. In tal caso, è addirittura anche legittimo il sequestro preventivo, anche se i pagamenti sono tracciabili.
Le fatture relative a operazioni economiche inesistenti, in tutto o in parte, sia che indichino un emittente diverso da quello che in realtà ha effettuato la prestazione, sia che rappresentino operazioni mai compiute nella realtà commerciale, sono, infatti, documenti privi del valore di attestazione che l’ordinamento riconosce alle fatture regolari o ad altri documenti aventi “rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie” (Cassazione 647/2012 e 10394/2010).
Vero è che la fattura è di per sé documento idoneo a dimostrare un costo dell’impresa e pertanto l’ufficio ha l’onere di “dedurre argomenti idonei a palesare l’inesistenza o la diversa e minore entità dell’operazione oggetto della fattura”.
Tuttavia, quando l’Amministrazione finanziaria, come puntualmente fatto nel caso di specie, fornisce gli elementi sufficienti per sostenere l’illiceità delle fatture, “l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza e consistenza di tali operazioni si sposta sul contribuente, in virtù delle regole generali vigenti in materia” (Cassazione 8247/2008) e, in assenza di tale prova, ai sensi dell’articolo 21, comma 7, la detrazione dell’Iva, trattandosi di situazioni fraudolente o abusive, non è ammessa.
A fronte di tutto questo, in fatto e in diritto, il contribuente, dopo aver rifiutato anche l’opportunità di chiudere il contenzioso in mediazione, con il pagamento dell’imposta al 100% e le sanzioni ridotte, ex lege, al 40%, opponeva, invece, argomentazioni, non solo non provate, ma anche palesemente infondate, e, di tale comportamento, l’ufficio chiedeva che il giudice ne tenesse conto anche ai fini della condanna al rimborso delle spese di giudizio sostenute dalla controparte, maggiorate forfettariamente del 50% a titolo di spese del procedimento di mediazione (articolo 17-bis, comma 10, Dlgs 546/1992).
La Ctp di Firenze, con la sentenza in esame, ha respinto, dunque, tutti i ricorsi riuniti (per gli anni dal 2003 al 2007), condannando il contribuente al pagamento delle spese di giudizio per 8mila euro.
La Commissione, letti gli atti di causa e sentiti i rappresentanti delle parti nel corso della pubblica udienza, ha dunque ritenuto i ricorsi riuniti non fondati, sottolineando che, se è vero che “l’onere di fornire la prova che le operazioni rappresentate dalle fatture siano oggettivamente inesistenti incombe sull’A.F., come più volte ribadito dalla Corte di Cassazione (vedi ultima sentenza n. del 17 gennaio 2013), tuttavia nel caso di specie tale onere è stato assolto dall’ufficio mediante il deposito del verbale di assunzione di informazioni, di quello di spontanee informazioni e di quello di interrogazione del Sig. … legale rappresentante della … Srl presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Forlì”.
I giudici di merito sottolineano, poi, come dal contenuto di questi verbali risultasse con inconfondibile evidenza che il citato rappresentante legale avesse confessato che aveva bisogno di creare costi fittizi al fine di poter emettere fatture di vendita di spazi pubblicitari parzialmente relative a operazioni inesistenti e ribadiva che tutte le fatture emesse nei confronti di tutti i clienti nel periodo dal 2000 a oggi erano afferenti a operazioni inesistenti.
Secondo la Ctp, pertanto, “a fronte di queste circostanziate dichiarazioni provenienti dallo stesso fornitore, la società ricorrente avrebbe dovuto e potuto fornire almeno una sommaria dimostrazione di aver eseguito la prestazione dedotta. Tale dimostrazione non è stata fornita e quindi i ricorsi riuniti vanno rigettati con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali”.