Il giudice può utilizzare il pvc per determinare l’imposta evasa – Cassazione Penale Sentenza 9043/2013
In tema di reati tributari, il giudice penale può utilizzare legittimamente i verbali di constatazione della Guardia di finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonché ricorrere all’accertamento induttivo di cui all’articolo 39 del Dpr 600/1973.
A chiarirlo è la terza sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 9043 del 25 febbraio.
I fatti di causa – Il Giudice per le indagini preliminari disponeva, ai sensi dell’articolo 322-ter del codice penale e dell’articolo 1, comma 143, della legge 244/2007 (Finanziaria 2008), il sequestro per equivalente di beni immobili e mobili registrati appartenenti a contribuenti indagati per il delitto di dichiarazione infedele (articolo 4 del Dlgs 74/2000), ritenendoli tutti nella disponibilità di altri soggetti.
A seguito di riesame, il tribunale confermava il provvedimento di sequestro con ordinanza che, successivamente, veniva impugnata dagli interessati con ricorso per cassazione.
In particolare, nell’ambito del giudizio di legittimità, veniva eccepita la non configurabilità del fumus commissi delicti, il quale sarebbe stato fondato soltanto sull’accertamento induttivo della Guardia di finanza, con la conseguenza che sarebbe stata illegittimamente utilizzata dal giudice penale la presunzione tributaria di cui all’articolo 32 del Dpr 600/1973.
Veniva inoltre eccepita l’illegittimità del sequestro dei beni personali di soggetti terzi in mancanza della prova che quei beni fossero nella disponibilità degli indagati, nonché oggetto d’intestazioni fittizie.
La sentenza della Corte di cassazione
Con sentenza 9043/2013, la Corte di cassazione, nel rigettare il ricorso ritenendolo infondato, ha precisato che il giudice del riesame aveva correttamente ravvisato la sussistenza del fumus commissi delicti, in quanto aveva valutato gli accertamenti effettuati dalla Guardia di finanza e utilizzato le presunzioni tributarie, tenendo comunque conto delle contrarie deduzioni difensive.
In particolare, con riferimento al primo motivo di ricorso per cassazione, i giudici di legittimità hanno chiarito che, con riferimento al delitto di dichiarazione infedele, per imposta evasa deve intendersi “l’intero tributo effettivamente dovuto, che va correlato al risultato economico conseguito e deve essere determinato – sulla base delle risultanze probatorie acquisite nel processo penale – dalla contrapposizione dei ricavi e dei costi d’esercizio fiscalmente detraibili…”.
È proprio al giudice penale che spetta la verifica in concreto dell’avvenuto superamento della soglia di punibilità e, quindi, la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa “attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria” (Cassazione, sentenze 34871/2010 e 21213/2008).
Ora, con riferimento ai reati tributari, non può farsi ricorso alla presunzione, in quanto spetta al giudice penale la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, facendo eventualmente ricorso alle presunzioni di fatto (Cassazione, sentenze 5490/2009 e 35858/2011). Tuttavia, il giudice penale può anche utilizzare i verbali di constatazione redatti dalla Guardia di finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonché ricorrere all’accertamento induttivo.
E ciò può farlo ogni qual volta le scritture contabili imposte dalla legge non siano state tenute o siano state irregolarmente tenute dal contribuente. Infatti, a fronte di una contabilità irregolare, il reddito evaso non può essere ricavato in via meramente aritmetica, mentre gli indici presuntivi tributari permettono di risalire, attraverso un ragionamento induttivo, dal particolare accertato al complessivo imponibile desunto da tali elementi di presunzione (Cassazione 28053/2011).
È proprio alla luce di tali considerazioni che la Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni tributarie, ma solo a condizione “che gli stessi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori”.
E ciò, secondo i giudici di legittimità, si sarebbe verificato proprio nel caso di specie “ove – a fronte di una contabilità societaria che la Guardia di Finanza ha considerato incompleta e non regolare – gli elementi indiziari sono stati tratti anche dalle movimentazioni sui conti correnti bancari intestati al ricorrenti attraverso il ricorso a presunzioni di fatto sia pure valutate con i limiti propri del procedimento incidentale”.
In ultimo, con riferimento al secondo motivo di ricorso, la Cassazione ha ribadito l’orientamento secondo il quale il sequestro per equivalente può avere a oggetto beni formalmente intestati a una persona alla quale non sono stati contestati reati tributari, qualora si ritenga che l’intestazione sia fittizia e che la proprietà effettiva faccia capo piuttosto a chi è indagato.
Michela Grisini
nuovofiscooggi.it