Il giudice dei diritti ha sede a Strasburgo – di Mariabice Schiavi
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con una coraggiosa decisione del 19 febbraio scorso, ha stabilito che la legge austriaca, laddove essa non consente a uno dei componenti la coppia di adottare il figlio dell’altro componente, qualora la relazione che lega i due adulti sia di tipo omosessuale, viola la Convenzione Europea, contravvenendo in specie a quanto disposto dagli articoli 8 e 14 della medesima che assicurano la protezione della vita privata e familiare e sanciscono il divieto di discriminazioni basate anche sull’orientamento sessuale.
La Corte ritiene dunque fondato il ricorso proposto da due cittadine austriache e dal figlio di una di esse convivente in modo stabile con le due donne e nato da una precedente relazione di una delle ricorrenti. La pronuncia si mostra particolarmente interessante e suscita dibattito nella pubblica opinione perché stabilisce in modo chiaro e libero da atteggiamenti compromissori che non si ravvisa, nell’esame della legislazione austriaca che regola la pratica delle adozioni, alcuna ragione giustificatrice per introdurre la previsione di un trattamento differenziato sulla base del tipo di relazione che lega il genitore dell’adottando all’adottante.
Il legislatore austriaco consente infatti l’adozione non solo nel caso in cui il genitore dell’adottando sia legato all’adottante da vincolo coniugale, ma ammette anche che sia condizione sufficiente per legittimare la richiesta di adozione che fra il genitore dell’adottando e l’adottante vi sia un semplice rapporto di stabile convivenza. Si esclude invece esplicitamente che la pratica dell’adozione sia ammissibile nel caso in cui la coppia convivente sia composta da soggetti del medesimo sesso.
La Corte Europea ritiene che non debbano considerarsi idonei a giustificare la palese violazione della Convenzione gli argomenti, allegati in sede di giudizio dal governo austriaco, sulla base dei quali la preclusione in questione sarebbe stata introdotta per rispondere a esigenze di tutela dei minori e nel miglior interesse dei medesimi che costituisce e deve costituire il prioritario criterio orientativo nella disciplina della materia. La realizzazione dell’interesse del minore non si esclude che possa attuarsi anche all’interno di un sia pur non tradizionale, non convenzionale nucleo familiare, non essendo provato in modo rigorosamente scientifico, dato le disparità di esiti raggiunti dai vari studi al proposito, che tale situazione di vita possa incidere, alterando, il corretto sviluppo del figlio medesimo. Differenziare il trattamento a seconda che la coppia di fatto sia eterosessuale o omosessuale è una discriminazione irragionevole che risulta incompatibile con la tutela dei diritti fondamentali che la Corte EDU garantisce.
Nel solco dell’impegno per l’attuazione dei diritti fondamentali già si è posta, forse risentendo delle influenze sovranazionali, la sentenza della Suprema Corte di Cassazione della prima sezione civile, (decisione numero 601/2013) che con rigore e imparzialità ha disposto, confermando le precedenti statuizioni di merito, l’affidamento di un minore alla propria madre convivente con persona del medesimo sesso, argomentando che non sia stata fornita dal padre del minore alcuna prova oggettiva del fatto che vivere in tale contesto familiare avrebbe potuto produrre ripercussioni psicologiche negative sul minore, anticipando con arguta sensibilità alcuni degli argomenti enucleati dal giudice di Strasburgo nella attuale pronuncia. Sempre all’ opera della prima sezione civile si deve l’importante pronuncia in tema di matrimonio fra soggetti del medesimo sesso (decisione 4184/2012 ) con cui il Collegio, pur avendo rigettato la domanda diretta a ottenere la trascrizione del matrimonio di soggetti del medesimo sesso ha affermato che il motivo del rigetto della medesima non è la contrarietà dell’atto all’ordine pubblico, ma la sua inesistenza per il nostro ordinamento in quanto il matrimonio è , per il nostro legislatore, solo quell’unione fondata sul legame tra soggetti di sesso diverso, non escludendosi peraltro che possa acquisire sempre maggiore consistenza in attuazione dell’art.8 CEDU e della giurisprudenza sovranazionale l’idea che la unione omosessuale debba essere tutelata anch’essa al pari di quella eterosessuale, quale declinazione del diritto alla vita familiare. Ciò che emerge dunque dall’analisi comparativa di queste pronunce è innanzitutto il fatto che esse hanno un comune filo conduttore che si identifica e si traduce nell’esigenza, non più derogabile, di sollecitare il Parlamento a rivedere parti consistenti della legislazione vigente per assicurare l’elaborazione di una disciplina che accordi tutele effettive a nuove realtà sociali, eliminando discriminazioni e differenze che si risolvono in una vera e propria limitazione dei diritti inviolabili.
Bisogna evitare infatti di affidare ai giudici nazionali e sovranazionali il ruolo di supplenti e soli garanti delle libertà fondamentali; si auspica infatti che la politica sappia riappropriarsi del proprio ruolo di protagonista e sappia dare risposte rigorose, concrete e chiare alle nuove istanza provenienti dalla società civile che già da tempo si profilano senza trovare soluzioni che non siano il solo frutto di scelte compromissorie, piegate e adattate più all’interesse personale e agli equilibri di sistema che all’interesse generale e alla costruzione di un sistema ordinamentale improntato a razionalità e alla affermazione compiuta dei diritti civili, vera conquista delle società realmente democratiche.
Mariabice Schiavi, dottore di ricerca in diritto costituzionale Università di Milano