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La Corte Costituzionale predilige il superiore interesse del minore – Corte Costituzionale, Sentenza n. 7/2013 – di Mairabice Schiavi

La recente decisione ( sentenza numero 7/2013 ) della Corte Costituzionale si pone, per quanto attiene ai risultati cui perviene il giudicante, in una linea di evidente continuità con la propria precedente giurisprudenza, ( sentenza numero 31/ /2012 ) prediligendo, in sede di giudizio di bilanciamento fra interessi contrapposti, l’interesse e la protezione dei minori rispetto alle esigenze di certezza della sanzione.

Il Supremo Collegio è chiamato, nel caso di specie, a valutare la costituzionalità dell’art. 569 c. p. nella parte in cui dispone che in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di soppressione di stato previsto dall’art. 566 c. p. consegua di diritto la sanzione della decadenza della potestà genitoriale, precludendo al giudice ogni valutazione del caso concreto.

Sarebbe proprio l’impossibilità per l’organo giudicante di svolgere una verifica – caso per caso – in ordine all’opportunità di applicare la sanzione accessoria della decadenza della potestà genitoriale, a seguito della commissione di reati contro lo stato di famiglia, a richiedere il sollecito intervento del giudice delle leggi.

La Corte nell’accogliere la questione di costituzionalità riprende argomenti già spesi nella propria precedente pronuncia – emessa per rapporto alla diversa fattispecie di reato di alterazione di stato (art.567 c. p. ) – e ribadisce l’illegittimità dell’automatismo sanzionatorio introdotto dal legislatore.

Precludere una valutazione del caso di specie da parte del giudice contrasta con la previsione costituzionale di cui all’art. 27 3° comma che enuncia la necessaria finalità rieducativa della pena, finalità che può essere realizzata solo nell’ipotesi in cui si assicuri una personalizzazione del trattamento sanzionatorio, personalizzazione che costituisce proprio l’antitesi del vigente principio dell’automatismo.

La salvaguardia delle esigenze affettive ed educative del minore potrebbero essere compromesse ove infatti si disponesse una non necessaria interruzione del rapporto parentale in applicazione di un automatismo normativo che, per rapporto ai singoli casi concreti, non risponda ad esigenze di ragionevolezza e proporzionalità. Alla regola dell’automatismo occorre dunque sostituire – dice il Collegio – quale soluzione costituzionalmente più congrua una valutazione del giudice per garantire in concreto l’interesse preminente del minore.

La pronuncia perviene a tali esiti – e questo costituisce il profilo davvero innovativo della determinazione attuale – non soltanto evidenziando una violazione del principio di ragionevolezza da parte della disciplina vigente, ma richiamando la necessità di conformare il quadro normativo agli impegni internazionalmente assunti nel rispetto dell’art. 117 Costituzione. La disciplina in esame contrasta infatti e si pone in una insanabile frizione con le Carte internazionali prima fra tutte la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, le linee guida dettate dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa le quali definiscono prioritario assicurare l’interesse dei minori in ogni questione che li veda diretti protagonisti. L’intervento interpretativo del giudice costituzionale ha dunque come propria fonte di riferimento non più e non soltanto quelle norme già presenti nell’ordinamento interno tese a garantire il soggetto debole della controversia, come dimostrano i recenti interventi in tema di affido condiviso e di assegnazione della casa familiare, predisposti con il fine di proteggere il minore e di operare per la stabilità psicologica del medesimo, ma si arricchisce del contributo offerto dalle fonti sovranazionali. Esse sono lo strumento attraverso il quale completare e anzi rafforzare il panorama delle tutele accordate e riconosciute ai diritti fondamentali e la loro capacità di influire sull’ordinamento interno, sia pur nella posizione di parametri interposti del giudizio di costituzionalità, dimostra e rende evidente il fatto che sul sistema delle fonti incide in modo sempre più determinante e condizionante il diritto sovranazionale i cui principi e valori ispiratori pervadono con sempre maggiore incisività e autorevolezza la legislazione degli stati aderenti alla Convenzione. Non può certo non apprezzarsi ogni iniziativa diretta a rinsaldare le forme di tutela dei diritti fondamentali, ma quando i meccanismi e gli strumenti di protezione nascono e si consolidano al di fuori dell’ordinamento degli stati membri e però implementano e arricchiscono la tavola costituzionale dei valori, il rischio da affrontare è quello di assistere a profonde e incisive trasformazioni del sistema regolato da una nuova concezione dei rapporti tra fonti.

L’auspicio per il futuro è che il legislatore coadiuvato dall’attività interpretativa degli organi giurisdizionali sappia contenere la incidenza che tali trasformazioni producono nei rapporti fra fonti e sappia fornire sempre soluzioni equilibrate.

Mariabice Schiavi , dottore di ricerca in Diritto Costituzionale, Università di Milano

Corte Costituzionale, Sentenza n. 7 del 16/01/2013

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 569 del codice penale promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di C.F. e D.M.C., con ordinanza del 12 giugno 2012, iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Udito nella camera di consiglio del 5 dicembre 2012 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto in fatto

1.— La Corte di cassazione solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 29, 30 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 569 del codice penale, nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di soppressione di stato, previsto dall’art. 566, secondo comma, del codice penale, consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto.
Premette la Corte rimettente di essere stata investita a seguito di ricorso per cassazione proposto dalla difesa degli imputati avverso la sentenza con la quale la Corte di appello di Brescia aveva confermato la sentenza di primo grado, la quale, a sua volta, aveva dichiarato gli imputati colpevoli del delitto di cui all’art. 566, secondo comma, del codice penale, per avere, nella loro qualità di genitori di una bambina nata a Brescia il 13 ottobre 2000, omesso di dichiarare all’ufficiale di stato civile la nascita della stessa entro il termine previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) e fino al 27 gennaio 2005, occultando la neonata e sopprimendone così lo stato civile. Entrambi gli imputati erano stati condannati alla pena ritenuta di giustizia e, in applicazione dell’art. 569 del codice penale, alla perdita della potestà genitoriale sulla minore. Veniva altresì concessa la sospensione condizionale della pena principale e di quella accessoria e applicato l’indulto alla pena principale.
Dopo aver analiticamente passato in rassegna la articolata motivazione posta a fondamento della sentenza pronunciata dai giudici dell’appello e scandagliato i motivi di ricorso – nei quali si è, in sintesi, prospettato che gli imputati si sarebbero limitati a far formare tardivamente l’atto di nascita con dichiarazione resa all’ufficiale di stato civile, completa della prescritta esposizione dei motivi a giustificazione del ritardo, con la conseguenza che non sarebbe nella specie ravvisabile il delitto di cui all’art. 566, secondo comma, del codice penale – la Corte segnala che, in prossimità della udienza, gli stessi ricorrenti avevano presentato una “istanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale”, denunciando la illegittimità degli articoli 566 e 569 del codice penale.
Tanto premesso, la Corte rimettente rileva come, successivamente alla presentazione del ricorso, sia intervenuta la pronuncia di questa Corte n. 31 del 2012, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 569 del codice penale, nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato previsto dall’art. 567, secondo comma, del codice penale, consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto. «Una situazione – si è puntualizzato – riferibile a fortiori all’ipotesi di reato di cui all’art. 569, 2° comma, c.p. [verosimilmente: 566, secondo comma, del codice penale], vulnerando l’automatismo dell’applicazione della pena accessoria i medesimi parametri costituzionali posti a base della sentenza n. 31 del 2012».
In punto di rilevanza osserva la Corte rimettente che agli imputati è stata inflitta la pena accessoria della perdita della potestà genitoriale quale conseguenza del reato per il quale è stata pronunciata condanna, mentre il beneficio della sospensione condizionale della pena accessoria non incide sulla rilevanza, sia perché il beneficio stesso è revocabile a norma dell’art. 168 del codice penale, sia per i profili di ordine morale e sociale connessi alla applicazione della pena accessoria, anche se sospesa.
Sempre in punto di rilevanza, la Corte sottolinea altresì che, nella vicenda in esame, una dichiarazione di nascita, anche se tardiva, vi fu e che in conseguenza di essa la bambina fu allevata da entrambi i genitori, al punto che la stessa Corte territoriale non mancò di segnalare come da parte degli imputati non vi fosse stata una «volontà di privare la nuova nata delle attenzioni materiali e anche dell’affetto e dell’assistenza che certamente non le sono mancate».
In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo richiama i princìpi posti a fondamento della richiamata sentenza di questa Corte. Inevitabile sarebbe, dunque, il riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 30 Cost., vulnerati perché, escludendosi in capo al giudice qualsiasi valutazione degli interessi del minore, non sarebbero tutelati i relativi diritti inviolabili nel caso concreto, quali sono quelli di crescere con i genitori e di essere da loro educati, salvo che da ciò scaturisca un grave pregiudizio.
Vengono poi evocati, in riferimento all’art. 117 Cost., l’art. 3, primo comma, della Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989) il quale prevede che «In tutte le decisioni relative ai fanciulli di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente»; la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996) la quale stabilisce che l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualsiasi decisione riguardante un minore, deve acquisire «informazioni sufficienti al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore»; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che all’art. 24, secondo e terzo comma, da un lato, prescrive che «In tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente» e, dall’altro, che «Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora sia contrario al suo interesse». L’ordinamento internazionale, considera, dunque, preminente l’interesse del fanciullo e analoga centralità sarebbe stata posta a fulcro della riforma del diritto di famiglia e della disciplina dell’adozione.
A fronte di tali rilievi, posti a base della richiamata pronuncia di illegittimità costituzionale, la norma denunciata si rivelerebbe dunque irragionevole, in quanto ignora gli interessi del minore stabilendo la perdita della potestà genitoriale in forza di un mero automatismo, preclusivo di qualsiasi apprezzamento del giudice del caso concreto.

Considerato in diritto

1.— La Corte di cassazione – chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto avverso la sentenza di appello con la quale era stata confermata la condanna per il delitto di cui all’art. 566, secondo comma, del codice penale, pronunciata nei confronti dei due genitori di una bambina della quale era stata dichiarata la nascita oltre il termine di legge, e nei confronti dei quali era stata disposta l’applicazione, a norma dell’art. 569 del codice penale, della pena accessoria della perdita della potestà genitoriale sulla minore – ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29, 30 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 569 del codice penale, nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di soppressione di stato, previsto dall’art. 566, secondo comma, del codice penale, consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto.
Nel richiamare le affermazioni contenute nella sentenza n. 31 del 2012 di questa Corte, il giudice a quo reputa il quadro normativo coinvolto dal dubbio di costituzionalità in contrasto con gli articoli 2, 3, 29 e 30 Cost., dal momento che essendo precluso al giudice qualsiasi potere di valutazione degli interessi del minore, non risulterebbero salvaguardati i relativi diritti inviolabili nel caso concreto, «quali sarebbero quelli di crescere con i genitori e di essere educati da questi, salvo che da ciò derivi un grave pregiudizio».
Risulterebbe altresì compromesso l’art. 117 Cost., richiamandosi a tal proposito l’art. 3, primo comma, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, il quale prevede che «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente». Viene pure evocata, quale normativa interposta, la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, la quale stabilisce che l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualsiasi decisione riguardante un minore, deve «esaminare se dispone di informazioni sufficienti in vista di prendere una decisione nell’interesse superiore del fanciullo».
Si richiama, infine, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la quale, all’art. 24, secondo e terzo comma, da un lato prescrive che «In tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente» e, dall’altro, che «Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse». L’ordinamento internazionale – sottolinea la Corte rimettente – considera, dunque, preminente l’interesse del fanciullo e analoga centralità sarebbe stata posta a fulcro della riforma del diritto di famiglia e della disciplina dell’adozione.
2. — La questione è fondata.
3. — La soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolge, come è evidente, i princìpi affermati da questa Corte nella sentenza n. 31 del 2012, relativa alla finitima fattispecie del delitto di alterazione di stato di cui all’art. 567, secondo comma, del codice penale.
In quella pronuncia, infatti, come ha puntualmente rilevato il giudice a quo, venne dichiarata, in riferimento all’art. 3 Cost., la illegittimità costituzionale dell’art. 569 del codice penale, nella parte in cui prevedeva che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato previsto dall’art. 567, secondo comma, del codice penale, dovesse conseguire automaticamente la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto. In quella vicenda, la questione venne sollevata nel corso di un procedimento penale promosso nei confronti di una donna imputata del delitto di cui all’art. 567, secondo comma, del codice penale, per avere alterato lo stato civile della figlia neonata nella formazione dell’atto di nascita, mediante false attestazioni consistite nel dichiararla come figlia naturale, sapendola legittima in quanto concepita in costanza di matrimonio. La Corte sottolineò come l’art. 569 del codice penale, nel prevedere la perdita della potestà dei genitori come conseguenza automatica derivante dalla commissione di uno dei delitti previsti nel medesimo capo, compromettesse anche «l’interesse del figlio minore a vivere e a crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione».
Da ciò, la violazione del principio di ragionevolezza, posto che la norma, ignorando del tutto l’interesse del minore, precludeva al giudice – attraverso l’automatismo che la caratterizzava – qualsiasi bilanciamento tra quell’interesse e «la necessità di applicare comunque la pena accessoria in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso, tali da giustificare la detta applicazione appunto a tutela di quell’interesse».
Considerazioni, quelle appena accennate, che traevano ulteriore fondamento alla luce del fatto che il delitto di cui all’art. 567, secondo comma, del codice penale, «diversamente da altre ipotesi criminose in danno di minori, non reca in sé una presunzione assoluta di pregiudizio per i loro interessi morali e materiali, tale da indurre a ravvisare sempre l’inidoneità del genitore all’esercizio della potestà genitoriale».
4. — Ebbene, tenuto conto della ratio decidendi che ha informato la richiamata pronuncia, appare evidente che lo stesso ordine di rilievi può riguardare anche il delitto di soppressione di stato, oggetto del giudizio a quo, posto che l’automatismo che caratterizza l’applicazione della pena accessoria risulta compromettere gli stessi interessi del minore che la richiamata sentenza della Corte ha inteso salvaguardare; mentre è certo che anche per la soppressione di stato valgono le stesse considerazioni di non necessaria “indegnità” del genitore che sono state evocate per la alterazione di stato.
Va infatti evidenziato – come il giudice a quo non ha mancato di sottolineare in punto di rilevanza della questione – che nella specie, una dichiarazione di nascita, seppure tardiva di oltre quattro anni, vi è stata, mentre, quanto agli interessi del minore ed alla condotta serbata dai genitori, il giudice dell’appello ha avuto modo di puntualizzare che, pur dovendosi stigmatizzare il fatto- reato loro addebitato, «non fu presente negli imputati la volontà di privare la nuova nata delle attenzioni materiali e anche dell’affetto e dell’assistenza che certamente non le sono mancate».
La nota problematica che affligge i perduranti caratteri di automatismo – e, per il caso qui in esame, anche la fissità che connota l’applicazione della pena accessoria, in perenne tensione rispetto alle esigenze di personalizzazione del trattamento sanzionatorio e della sua necessaria finalizzazione rieducativa – assume, con riferimento al quadro normativo qui coinvolto, una dimensione di particolare acutezza, proprio perché viene a proporsi in tutto il suo risalto, come necessario termine di raffronto (e, dunque, quale limite costituzionale di operatività della sanzione), la salvaguardia delle esigenze educative ed affettive del minore: esigenze che finirebbero per essere inaccettabilmente compromesse, ove si facesse luogo ad una non necessaria interruzione del rapporto tra il minore ed i propri genitori in virtù di quell’automatismo e di quella fissità: connotati, questi, in varie circostanze stigmatizzati da questa Corte, la quale, anche di recente, non ha mancato di segnalare «l’opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie» (sentenza n. 134 del 2012).
5. — In sostanza, incidendo la pena accessoria su una potestà che coinvolge non soltanto il suo titolare ma anche, necessariamente, il figlio minore, è evidente che, in tanto può ritenersi giustificabile l’interruzione di quella relatio (sul piano giuridico, se non naturalistico), in quanto essa si giustifichi proprio in funzione di tutela degli interessi del minore. All’irragionevole automatismo legale occorre dunque sostituire – quale soluzione costituzionalmente più congrua – una valutazione concreta del giudice, così da assegnare all’accertamento giurisdizionale sul reato null’altro che il valore di “indice” per misurare la idoneità o meno del genitore ad esercitare le proprie potestà: vale a dire il fascio di doveri e poteri sulla cui falsariga realizzare in concreto gli interessi del figlio minore.
6. — Ma la questione risulta fondata anche sul versante della necessaria conformazione del quadro normativo agli impegni internazionali assunti dal nostro Paese sul versante specifico della protezione dei minori. Come ha infatti puntualmente rammentato la Corte rimettente, sulla falsariga dei rilievi svolti nella richiamata sentenza n. 31 del 2012, vengono qui in discorso, quali norme interposte rispetto al principio sancito dall’art. 117, primo comma, Cost., una serie di importanti – e per quel che qui rileva, del tutto univoci – strumenti di carattere pattizio. La disciplina oggetto di impugnativa, infatti, viene a porsi in evidente ed insanabile frizione, anzitutto con la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989), posto che l’art. 3, primo comma, di tale Convenzione stabilisce che «In tutte le decisioni relative ai fanciulli di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».
Del pari viene in discorso anche la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996), la quale, nel disciplinare il processo decisionale nei procedimenti riguardanti un minore, detta, all’art. 6, le modalità cui l’autorità giudiziaria deve conformarsi «prima di adottare qualsiasi decisione», stabilendo che l’autorità stessa deve «esaminare se dispone di informazioni sufficienti in vista di prendere una decisione nell’interesse superiore del fanciullo».
In tale contesto non sembrano, infine, neppure trascurabili le specifiche indicazioni enunciate nelle Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa su una “giustizia a misura di minore”, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098^ riunione dei delegati dei ministri, posto che, fra gli altri importanti princìpi, il documento espressamente afferma che «Gli Stati membri dovrebbero garantire l’effettiva attuazione del diritto dei minori a che il loro interesse superiore sia al primo posto, davanti ad ogni altra considerazione, in tutte le questioni che li vedono coinvolti o che li riguardano».
7. — Deve conseguentemente essere dichiarata, per contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. – restando assorbiti i profili di censura riferiti agli ulteriori parametri evocati dal giudice a quo – l’illegittimità costituzionale dell’art. 569 del codice penale, nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di soppressione di stato, previsto dall’art. 566, secondo comma, del codice penale, consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto.

Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 569 del codice penale, nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di soppressione di stato, previsto dall’articolo 566, secondo comma, del codice penale, consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2013.

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