Approvazione variante prg – Consiglio di Stato Sentenza 6193/2012
sul ricorso numero di registro generale 9281 del 2011, proposto da:
Casal Pilozzo S.r.l., in persona del legale rappresentante in carica Cantine Colli di Catone Srl, in persona del legale rappresentante in carica rappresentati e difesi dall’avv. Angelo Clarizia, con domicilio eletto presso Angelo Clarizia in Roma, via Principessa Clotilde n.2;
contro
Comune di Monte Porzio Catone, in persona del legale rappresentante in carica in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall’avv. Gabriele Liuzzo, con domicilio eletto presso Gabriele Liuzzo in Roma, via Dora 2;
nei confronti di
Regione Lazio;
per la revocazione della sentenza del consiglio di stato – sezione iv- n. 04938/2011, resa tra le parti, concernente approvazione variante prg
Consiglio di Stato, Sezione Quarta, Sentenza n. 6193/2012 del 04.12.2012
Visti il ricorso per revocazione ed i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Monte Porzio Catone;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 30 ottobre 2012 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Angelo Clarizia, Alfredo Palopoli e Fabio Liuzzo questi ultimi delegati da Gabriele Liuzzo;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con la decisione impugnata per revocazione n. 4938/2011 la Sezione ha accolto il ricorso in appello proposto dall’ odierno intimato in revocazione Comune di Monte Porzio Catone avverso la decisione del Tribunale amministrativo regionale del Lazio– Sede di Roma – n. 7856/2010.
Con la decisione di primo grado era stata esaminata la domanda introdotta dalle odierne ricorrenti in revocazione (la società srl Casal Pilozzo e società srl Cantine Colli di Catone) che avevano agito per l’accertamento da parte del Comune di Monte Porzio Catone dell’inadempimento dell’accordo sottoscritto in data 13 maggio 1998, comportante adozione e approvazione di variante al p.r.g. ed anche per l’annullamento della delibera consiliare del Comune di Monte Porzio Catone n.29 del 2003 di adozione della variante, delle delibere consiliari 50 del 2004 e 43 del 2006 (di controdeduzioni alle osservazioni dei privati), della deliberazione di Giunta Regionale n.242 del 2008 di approvazione della suddetta variante.
Il primo giudice aveva accolto il ricorso di primo grado avendo ritenuto sussistente, dalla documentazione depositata in atti, l’Accordo in data 13 maggio 1998 tra l’Amministrazione comunale e il rappresentante legale delle parti: ciò smentiva quanto sostenuto dal Comune nella nota del 15 dicembre 2009 n.21449, riguardo la non conoscenza dell’esistenza dello stesso.
Il Tribunale amministrativo, poi, aveva parimenti rilevato che le determinazioni dell’Amministrazione derivanti dal predetto Accordo volte alla conclusione dell’iter procedimentale (con la previsione di un termine per la conferenza dei servizi e la conclusione del procedimento) non risultavano adottate dalla stessa, lasciando così aperto il procedimento e condizionando le ulteriori fasi evolutive della vicenda ed i successivi atti adottati dal Comune, con pregiudizio della posizione delle originarie ricorrenti.
In appello il Comune di Monte Porzio Catone aveva prospettato numerosi complessi motivi di censura volti a dimostrare la inammissibilità del ricorso originario sotto diversi profili e la erroneità nel merito della decisione di prime cure.
La Sezione, con la decisione censurata in revocazione dopo avere ricostruito sotto il profilo cronologico la complessa vicenda sottesa al contenzioso, ha accolto il gravame nel merito prescindendo dalla disamina delle censure processuali.
In particolare, la Sezione ha rilevato che la complessa vicenda originava dalla circostanza che le società originarie ricorrenti, proprietarie di superficie ricadente in area in zona estensiva rada 1 (nel periodo precedente la gravata variante), avevano presentato due piani di lottizzazione; successivamente, in data 13 maggio 1998 esse erano addivenute ad un accordo con il Comune ai sensi dell’art. 11 della legge n.241 del 1990.
Con tale accordo, si era stabilito che la Casal Pilozzo srl avrebbe presentato sull’area interessata un nuovo progetto per la realizzazione di un albergo o complesso alberghiero, sostitutivo del progetto precedente; entrambe le società intendevano realizzare il progetto relativo alla installazione di ombrai e serre, nonché una struttura destinata alla commercializzazione di prodotti attinenti all’attività vivaistica, con volume pari all’indice di fabbricabilità 0,20 mc/mq relativo all’intero terreno.
In attuazione dell’accordo veniva presentato in data 19 maggio 1998 il progetto edilizio per la realizzazione di un albergo.
In data 1 marzo 2000 si concludeva la conferenza di servizi ( ben oltre il termine stabilito nell’accordo con il Comune).
Nel 2003 il Comune aveva adottato la delibera consiliare n.59 relativa alla variante generale, in cui le aree delle società istanti erano classificate zona H, sottozona H1A – attrezzature turistiche-ricettive- e sottozona H1E – commerciale florovivaistica – ambedue con indice fondiario pari a 0,8 mc/mq.
Le due società pertanto avevano presentato osservazioni al fine del ripristino della originaria destinazione ( che non erano state accolte) ed avevano proposto il mezzo di primo grado deducendo (anche ex art. 11 l.n.241 del 1990) che l’amministrazione comunale aveva provveduto senza considerare il venir meno dell’accordo per sua inadempienza e senza tenere nella dovuta considerazione le caratteristiche della zona confinante.
La Sezione, ha in primo luogo accolto il motivo d’appello con il quale il Comune aveva dedotto che doveva essere negato che il termine previsto per la conclusione della conferenza di servizi potesse ritenersi essenziale nella volontà delle parti perché dal tenore e dalla interpretazione secondo legge della suddetta clausola(accordo del 13 maggio 1998 punto 4: “Il Comune convocherà, non appena presentato il progetto dell’albergo che dovrà avvenire entro 19 giorni dalla data del presente accordo, apposita conferenza di servizi ai sensi della legge 142/90 il cui iter amministrativo dovrà avere termine entro la fine del mese di luglio 1998”) non si evinceva tale caratteristica.
Comunque, anche nella (negata) ipotesi di termine essenziale dovevano essere accertati la sussistenza e la imputabilità dell’inadempimento: e l’ amministrazione comunale non poteva essere ritenuta responsabile procedimentalmente per comportamenti di soggetti terzi, una volta mantenuto un comportamento responsabile e diligente, consistente nella fissazione della scansione delle fasi procedimentali che da essa amministrazione dipendevano (id est, nella convocazione in breve termine della prima seduta, ciò che era nella sua potestà e disponibilità).
Ciò perchè alla seduta del 24 giugno 1998 le altre amministrazioni non si erano presentate e in quella sede si era dato atto della esistenza di quanto osservato per le vie brevi dalla Regione Lazio ( con riguardo ai fatti impeditivi dovuti alla incidenza delle previsioni del Piano Territoriale Paesistico e dei vincoli paesaggistici :in tal senso deponeva quanto rappresentato dal Geom. Cupellini alla conferenza di servizi del 24 giugno 1998 sulla impossibilità di rilasciare autorizzazioni e pareri paesaggistici fino alla data di approvazione dei Piani Paesistici).
Pertanto, ad avviso della Sezione considerata sia la esiguità del termine di soli settantacinque giorni, previsto per la conclusione della conferenza di servizi (il reale interesse per la costruzione dell’albergo era per la occasione del Giubileo del 2000) che il principio di inimputabilità per comportamenti altrui, difettava l’inadempimento colpevole, anche nella (comunque negata) ipotesi che si fosse ritenuto sussistente la essenzialità del termine.
La Sezione, poi, proseguendo nell’esame dell’appello, ha affermato la fondatezza degli altri motivi volti ad avversare la conclusione cui era giunto il primo giudice secondo cui l’amministrazione comunale si era resa inadempiente a quanto previsto dall’accordo del 1998 (con i detti motivi, in particolare, si era dedotto che la variante contestata del 2003 non poteva in alcun modo essere ritenuta collegata all’accordo del 1998, ma si trattava soltanto di scelte di piano successive, legate alla impostazione della variante generale; che era insindacabile la scelta di piano effettuata dall’amministrazione e quindi non sussisteva l’asserito difetto di motivazione; che l’accordo del 13 maggio 1998 non poteva assumere valenza vincolante in relazione ai poteri di pianificazione -pagina 7 dell’appello- ; che non tutti i terreni in questione avevano destinazione residenziale sulla base degli strumenti del 1972).
Nella sentenza gravata in revocazione, infatti, si è sul punto precisato che la variante del 2003 non poteva essere ritenuta collegata all’accordo del 1998, come si evinceva dalla constatazione che né le osservazioni presentate dalle due società a tale variante (quelle presentate in data 29 novembre 2003 dalla Casal Pilozzo srl depositate in atti), né le controdeduzioni comunali facevano in alcun modo riferimento al suddetto accordo od al suo inadempimento.
Si è poi rilevato che al punto 3 dell’accordo del 13 maggio 1998 si era disposto che “L’Amministrazione Comunale ritiene compatibili con i proprio indirizzi programmatici di politica del territorio gli interventi richiesti (dalle due società) ed avvierà le procedure amministrative conseguenti alle richieste sopra menzionate sia per quelle compatibili con l’attuale PRG (albergo) che quelle da determinare in sede di variante generale al PRG (vivaio e strutture per attività commerciale connessa)” il che collideva con il principio per cui esistevano limiti ai contenuti degli accordi che, ai sensi degli articoli 11 e 13 della legge n.241 del 1990, non potevano avere ad oggetto i poteri futuri di pianificazione e programmazione.
Ciò si legava al principio per cui le scelte effettuate dalla pubblica amministrazione in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale erano accompagnate da un’amplissima valutazione discrezionale che, nel merito, erano insindacabili e per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, per abnormità e irrazionalità delle stesse.
In ragione di tale discrezionalità, l’Amministrazione non era tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate nella predetta sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificavano l’impostazione del piano (né, sussistevano particolari doveri motivazionali sulla base del pregresso accordo, del quale in alcun modo si era fatta menzione durante tutto l’iter procedimentale successivo).
In ultimo, la Sezione ha riscontrato la fondatezza della tesi avanzata dall’amministrazione comunale di Monte Porzio Catone secondo cui era errata l’affermazione contenuta nel ricorso originario, laddove si era sostenuto che i terreni oggetto di causa avessero tutti, nel piano regolatore generale del 1972, esclusiva destinazione residenziale ( per farne derivare una illegittima e immotivata variazione peggiorativa).
Al contrario, come si evinceva dallo stralcio planimetrico del 1972, i terreni oggetto di causa nel piano regolatore del 1972 non avevano una esclusiva destinazione residenziale, ma, le norme tecniche dell’epoca non davano specifiche indicazioni sui tipi di destinazione, permesse o vietate, nelle varie zone del piano regolatore generale.
Con la ulteriore impugnativa che viene all’esame del Collegio, le originarie appellate – rimaste soccombenti in appello – hanno chiesto la revocazione della sentenza pronunciata dalla Sezione n. 4938/2011 in quanto asseritamente affetta da errore di fatto incidente su un punto decisivo della controversia.
Tale doveva considerarsi l’affermazione del primo giudice, secondo cui la variante del 2003 non poteva essere ritenuta collegata all’accordo del 1998, (convincimento tratto dalla circostanza che né le osservazioni presentate dalle due società a tale variante -quelle presentate in data 29 novembre 2003 dalla Casal Pilozzo srl depositate in atti-, né le controdeduzioni comunali facevano in alcun modo riferimento al suddetto accordo od al suo inadempimento).
Al contrario di quanto affermato dalla Sezione, infatti, l’accordo stipulato dalle parti nel 1998 era stato sotteso all’intero iter procedimentale della variante del 2003.
Tanto che nel verbale conclusivo della Commissione urbanistica consiliare del 6.12.2004, in risposta alla osservazione n. 7 proposta dalla odierna ricorrente in revocazione si faceva riferimento all’accordo del 1998 (ed alcuni componenti della commissione votarono a favore dell’accoglimento della osservazione in quanto ci si trovava al cospetto di un accordo sottoscritto il 18 maggio 1998).
Detto verbale venne poi approvato dal Consiglio Comunale (unitamente a tutti gli atti) con la delibera n. 50 del 10.12.204: era evidente che l’accordo era stato bene tenuto presente in sede di variante (contrariamente al decisum oggetto di revocazione).
La detta svista era anche essenziale e decisiva: la variante al Prg, in quanto modificativa di una aspettativa ingenerata sul privato necessitava di appropriata motivazione: la sentenza d’appello, ove avesse tenuto in conto il detto consolidato principio, non avrebbe potuto che confermare la decisione del Tar.
Con una articolata memoria il Comune di Monte Porzio Catone ha chiesto di respingere il gravame perché inammissibile (attingendo soltanto uno dei profili della statuizione accoglitiva del proprio appello) e comunque infondato (il marginale cenno all’accordo contenuto in un verbale di riunione non era stato minimamente “ripreso” nell’iter procedimentale della variante).
Con una articolata memoria conclusionale le società ricorrenti in revocazione appellate hanno puntualizzato e ribadito le proprie difese rimarcando che la circostanza (obliata) circostanza che il pregresso accordo del 1998 era stato tenuto presente durante l’iter della variante del 2003 viziava l’intero decisum e che, – contrariamente a quanto sostenuto dal Comune- la sentenza non conteneva altri profili motivazionali idonei – isolatamente considerati – a disattendere le doglianze delle odierne impugnanti.
Queste ultime risultavano titolari sin dal 1972 di una aspettativa qualificata (la potenzialità edificatoria per alberghi pensioni ed abitazioni) che avrebbe imposto un onere di specifica motivazione allorchè (come avvenuto con la variante del 2003) si fosse voluta imprimere all’area una destinazione peggiorativa (che escludeva financo la possibilità di realizzare abitazioni).
Alla odierna pubblica udienza del 30 ottobre 2012 la causa è stata posta in decisione.
DIRITTO
1.Il ricorso per revocazione è infondato, se non anche, almeno in parte, inammissibile.
1.1. Una pluralità di ragioni milita a supporto della infondatezza della impugnazione revocatoria proposta.
2. Invero si rammenta in proposito che la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che l’errore di fatto, idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall’art. 395 n. 4 c.p.c., deve consistere in un “travisamento di fatto costitutivo di “quell’abbaglio dei sensi” che cade su un punto decisivo ma non espressamente controverso della causa.” (ex multis, Consiglio Stato , sez. IV, 07 settembre 2006, n. 5196).
La ratio di tale condivisibile orientamento riposa nella necessità di evitare che detta forma di impugnazione si trasformi (soprattutto, ovviamente, il problema si pone con riferimento alle sentenze pronunciate nell’ultimo grado di giudizio di merito, ovvero, per ciò che attiene ai procedimenti innanzi al giudice ordinario, in sede di legittimità) in una forma di gravame, teoricamente reiterabile più volte, idoneo a condizionare sine die il passaggio in giudicato di una pronuncia giurisdizionale ( ex multis Cassazione civile , sez. I, 19 giugno 2007, n. 14267).
Il rimedio in esame non è pertanto praticabile, allorchè incida su un aspetto della controversia che ha formato oggetto di valutazione giudiziale (tra le tante, Cassazione civile , sez. II, 22 giugno 2007, n. 14608) e men che meno allorchè l’errore segnalato verta nella interpretazione od applicazione di norme giuridiche.
Il Consiglio di Stato ha in passato condiviso pienamente tale orientamento ed ha affermato che “ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., sono soggette a revocazione per errore di fatto le sentenze pronunciate in grado di appello, quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare” (Consiglio Stato , sez. VI, 21 giugno 2006, n. 3721, Consiglio Stato , sez. VI, 05 giugno 2006, n. 3343, Consiglio Stato , sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2278).
Inoltre, è stato chiarito dalla giurisprudenza che “l’errore di fatto idoneo a legittimare la revocazione non soltanto deve essere la conseguenza di una falsa percezione delle cose, ma deve avere anche carattere decisivo, nel senso di costituire il motivo essenziale e determinante della pronuncia impugnata per revocazione. Il giudizio sulla decisività dell’errore costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione, non inficiata da vizi logici e da errori di diritto.”(Cassazione civile , sez. I, 29 novembre 2006 , n. 25376).
2.1. Più in particolare, e con riferimento allo specifico “vizio” prospettato nel gravame revocatorio, si è condivisibilmente affermato, in passato, “che rileva come errore di fatto ex art. 395 n. 4, c.p.c. l’omessa pronuncia su un profilo della controversia devoluta in appello, qualora la ragione di siffatta omissione risulti causalmente riconducibile alla mancata percezione dell’esistenza e del contenuto di atti processuali.”(Consiglio Stato , sez. V, 17 settembre 2009 , n. 5552),
con ciò definitivamente superandosi il più restrittivo, pregresso, orientamento, secondo cui
l’ omessa pronuncia su censure o motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e, pertanto, non è deducibile in sede di revocazione . (Consiglio Stato , sez. V, 20 ottobre 2004 , n. 6865).
Si è detto poi, che “l’omessa pronuncia su una censura sollevata dalla parte è riconducibile all’errore di fatto idoneo a fondare il giudizio revocatorio ogni qualvolta esso risulti evidente dalla lettura della sentenza e sia chiaro che in nessun modo il giudice abbia preso in esame la censura medesima.”(Consiglio Stato , sez. VI, 04 settembre 2007 , n. 4629,Consiglio Stato , sez. V, 19 marzo 2007 , n. 1300).
Al condivisibile fine di evitare la proposizione di azioni revocatorie certamente inutili, quanto a tale aspetto si è puntualizzato ” che il vizio di omessa pronuncia su un vizio deve essere accertato con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché esso può ritenersi sussistente soltanto nell’ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d’impugnazione risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile.(Consiglio Stato , sez. VI, 06 maggio 2008, n. 2009).
Tale condivisibile affermazione, che costituisce jus receptum, costituisce corollario di quel più ampio principio che privilegia la “decisività” dell’errore, secondo il quale
“l’errore di fatto revocatorio (così come per il motivo di revocazione previsto al n. 4 dell’art. 395) deve essere “decisivo”, nel senso che se non vi fosse stato la decisione sarebbe stata diversa.”
(Consiglio Stato , sez. III, 29 novembre 2010 , n. 4466).
E’ necessario quindi – in tema di revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c, – che l’errore di fatto rappresenti elemento decisivo, rilevante ed ineliminabile ai fini di pervenire ad una decisione differente rispetto a quella che si sarebbe dovuta (asseritamente) adottare. Allorché la giurisprudenza parla di nesso causale tra errore e decisione, si riferisce non alla causalità storica, ma ad un nesso logico-giuridico, nel senso che la diversa soluzione della lite deve imporsi come inevitabile sul piano, appunto, della logica e del diritto, non degli accadimenti concreti. Non si tratta, in altri termini, di stabilire come si sarebbe, nei fatti, determinato il giudice se non avesse commesso l’errore; si tratta, invece, di stabilire quale sarebbe dovuta essere, per necessità logico-giuridica, la decisione una volta emendatene le premesse dall’errore.
L’errore di fatto ex art. 395, n. 4, cit. deve essere essenziale e decisivo (nel senso che tra l’erronea percezione del giudice e la pronuncia da lui emessa deve sussistere un rapporto causale tale che senza l’errore la pronuncia medesima sarebbe stata diversa).
La pacifica giurisprudenza di legittimità, inoltre, perimetra il suddetto rimedio straordinario evidenziando che “l’errore di fatto previsto dall’art. 395, n. 4, c.p.c., idoneo a costituire motivo di revocazione, si configura come una falsa percezione della realtà, una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, la quale abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolga l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività; ne consegue che non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico.” (Cassazione civile , sez. lav., 03 aprile 2009 , n. 8180).
3.La parte odierna ricorrente in revocazione ha tentato di “superare”, tali condivisibili orientamenti in punto di ammissibilità costruendo l’impugnazione in modo da evitare la declaratoria di inammissibilità “testuale”, ma non ha apportato alcun elemento tale da fare propendere per la fondatezza della impugnazione proposta.
3.1. Invero nella decisione gravata è stato espresso con chiarezza un convincimento: quello per cui la variante del 2003 non poteva essere ritenuta collegata all’accordo del 1998, come si evinceva dalla constatazione che né le osservazioni presentate dalle due società a tale variante (quelle presentate in data 29 novembre 2003 dalla Casal Pilozzo srl depositate in atti), né le controdeduzioni comunali facevano in alcun modo riferimento al suddetto accordo od al suo inadempimento.
Tali elementi non sono stati contestati, dall’appellante, che però ha sostenuto (al fine di contestare l’approdo cui è giunto il primo giudice) una circostanza di natura diversa: id est che, nel corso dei lavori della competente commissione consiliare, il tema della pregressa formazione dell’accordo del 1998 fosse stato ben tenuto presente.
Ad avviso della impugnante, poi, siccome il Consiglio comunale aveva approvato (tra gli altri) i verbali della commissione urbanistica, ne conseguiva che risultava destituita di fondamento l’affermazione del primo giudice.
3.2. Il Collegio non concorda con la tesi dell’impugnante, per due ordini di considerazioni,
La prima, di natura sostanziale, consente di elidere radicalmente la fondatezza della proposta impugnazione.
Invero la circostanza che nel corso dei lavori istruttori di una commissione consiliare sia emersa una circostanza, e perdipiù quale motivazione sottesa ad una dichiarazione di voto di alcuni consiglieri, non implica (a cagione del fatto che detto verbale della commissione era stato approvato dal Consiglio Comunale) che la detta circostanza costituisca “motivazione” sottesa o comunque tenuta presente nella delibera di approvazione del 10 dicembre 2004 n. 50 che, non a caso, non reca in alcuna parte menzione del detto accordo.
Secondariamente, poi, posto che il giudice d’appello non ha fatto menzione di tale circostanza ma si è richiamato – ben correttamente ad avviso della Sezione- al contenuto della delibera del 10 dicembre 2004 n. 50 per affermare che ivi non si era fatta alcuna menzione dell’accordo del 1998 predetto, a tutto concedere l’errore in cui sarebbe incorso il primo giudice non avrebbe natura fattuale (il che semmai, costituisce mera illazione di parte impugnante) ma eventualmente giuridica.
L’”errore”, infatti, riposerebbe nel non avere ritenuto che l’oggetto della deliberazione non dovesse trarsi (unicamente) dal contenuto della delibera e dalla circostanza che né le osservazioni presentate dalle due società a tale variante (quelle presentate in data 29 novembre 2003 dalla Casal Pilozzo srl depositate in atti), né le controdeduzioni comunali facevano in alcun modo riferimento al suddetto accordo od al suo inadempimento ma che si dovesse trarre anche dalle tematiche emerse nel corso delle sedute della commissione urbanistica consiliare.
L’”errore”, quindi, a tutto concedere, sarebbe stato giuridico e non fattuale (quantomeno: non sarebbe stata fornita prova alcuna che trattavasi di errore fattuale) e pertanto il gravame revocatorio avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile.
Ma neppure di errore giuridico potrebbe fondatamente discorrersi, nel caso di specie: il Collegio non concorda affatto, infatti, con la tesi che permea di sé l’intera impugnazione secondo cui qualsiasi tematica, anche marginalmente affrontata in sede di lavori delle commissioni consiliari possa ergersi a motivazione provvedimentale ovvero a presupposto determinante dell’adozione di un atto amministrativo (dovendo la motivazione del provvedimento impugnato ricavarsi dal testo dello stesso ed essendo incontroverso che questa nessuna traccia recava del predetto Accordo pregresso).
4.In ultimo, v’è una ulteriore considerazione che milita per la non accoglibilità della impugnazione (e che, per il vero, avrebbe deposto per la declaratoria di inammissibilità della medesima).
Si è chiarito in premessa che condizione di ammissibilità del gravame revocatorio riposa nella decisività del supposto “errore” lamentato, tale da condurre all’affermazione che in mancanza del detto errore la decisione avrebbe avuto segno diverso (e, ovviamente, favorevole alle ragioni dell’impugnante).
Così certamente non è nel caso di specie, laddove si consideri che la Sezione si è espressa nei seguenti termini: “è da condividersi anche la conclusione di parte appellante circa la insussistenza di impegni assunti – sulla base del più volte menzionato accordo procedimentale, datato 13 maggio 1998 – relativamente alla successiva e futura attività pianificatoria, se tale voleva essere la domanda proposta in primo grado.
Al punto 3 dell’accordo del 13 maggio 1998 si dispone che “L’Amministrazione Comunale ritiene compatibili con i proprio indirizzi programmatici di politica del territorio gli interventi richiesti (dalle due società) ed avvierà le procedure amministrative conseguenti alle richieste sopra menzionate sia per quelle compatibili con l’attuale PRG (albergo) che quelle da determinare in sede di variante generale al PRG (vivaio e strutture per attività commerciale connessa)”… per poi concludere che …..né, nella specie, dovevano ritenersi sussistenti particolari doveri motivazionali sulla base del pregresso accordo, del quale, come visto, in alcun modo si era fatta menzione durante tutto l’iter procedimentale successivo.”.
Il caposaldo motivazionale riposante nell’assenza di riferimento alcuno al predetto precedente accordo del 1998, quindi, si salda con la considerazione che in seno a quest’ultimo non erano stati assunti da parte del Comune impegni condizionanti la propria futura attività pianificatoria, di guisa che, ed a tutto concedere, se anche fosse stato provato (il che per le già chiarite ragioni recisamente si nega) che l’accordo del 1998 era stato “tenuto presente” al momento della adozione della delibera di variante, lo stesso non avrebbe potuto spiegare alcuna valenza condizionante sulla medesima e, di conseguenza, non sarebbe stato possibile affermare la illegittimità di quest’ultima.
Anche sotto il profilo della “decisività” del supposto errore, quindi, il mezzo non appare accoglibile.
5. Conclusivamente,l’impugnazione deve essere integralmente disattesa.
6. Le spese processuali del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza, e pertanto parte ricorrente in revocazione deve essere condannata al pagamento delle medesime in favore dell’intimata amministrazione comunale, in misura che appare equo quantificare in Euro duemila (€ 2000,00) oltre accessori di legge, se dovuti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sul ricorso in revocazione in epigrafe proposto numero di registro generale 9281 del 2011 lo respinge.
Condanna parte ricorrente in revocazione al pagamento delle spese processuali in favore dell’intimata amministrazione comunale nella misura di Euro duemila (€ 2000,00) oltre accessori di legge, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 ottobre 2012 con l’intervento dei magistrati:
Anna Leoni, Presidente FF
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Andrea Migliozzi, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere
Giulio Veltri, Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/12/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)