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Consulta: vanno distrutte le intercettazioni al capo dello Stato

napolitano-mancino(ASCA) – Roma, 5 dic – La Consulta ha accolto il ricorso del presidente della Repubblica che aveva sollevato il conflitto di poteri con la procura di Palermo sulle sue conversazioni telefoniche con l’ex ministro Nicola Mancino, intercettate nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia dei primi anni Novanta. Di conseguenza, le intercettazioni in questione, mai rese pubbliche, dovranno essere distrutte.

Le motivazioni della decisione saranno pubblicate a gennaio, prima che scada il mandato della presidenza della Consulta di Alfonso Quaranta. ”Le decisioni della Consulta non si commentano”, dichiara Francesco Messineo, procuratore capo di Palermo. Anche dal Quirinale non ci sono reazioni in attesa di conoscere nel dettaglio le motivazioni della sentenza. ”Vado avanti nel mio lavoro con la coscienza tranquilla ritenendo di aver sempre agito nel pieno rispetto della legge e della Costituzione”, commenta il pm Nino Di Matteo, tra i magistrati titolari dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto della Procura di Palermo, rilascia una polemica dichiarazione dal Guatemala, dove ora lavora su incarico dell’Onu, a ”Repubblica”: ”Sono profondamente amareggiato. Le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto. La sentenza della Corte costituzionale rappresenta un brusco arretramento rispetto al principio di uguaglianza e all’equilibrio fra i poteri dello Stato. Definirei bizzarra questa decisione e sono convinto della bonta’ della mia scelta di lasciare l’Italia. Se fossi stato ancora a Palermo, me ne sarei andato proprio oggi”. ”E’ un tema complesso e l’intervento della Consulta ha fatto chiarezza su una situazione non regolata da una norma specifica del codice di Procedura penale e che si prestava a diverse interpretazioni”, e’ il giudizio di Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Michele Giuseppe Dipace, avvocato generale dello Stato, prendendo la parola nell’udienza pubblica, ha sostenuto che i pm palermitani hanno ”trattato” le telefonate tra Mancino e Napolitano mentre era stato intercettato un soggetto che non lo poteva essere per ”salvaguardare i supremi interessi della nazione” e ”la funzione preposta” del presidente della Repubblica.

Il costituzionalista Alessandro Pace, in rappresentanza della Procura di Palermo, aveva invece avanzato la tesi del ricorso all’apposizione del segreto di Stato sulle intercettazioni per superare il problema del ”surplus di garanzie” che, secondo la sua tesi giuridica, sarebbe andato oltre il dettato costituzionale. La Corte costituzionale non ha accettato questa impostazione. Le utenze di Mancino, ex ministro dell’Interno, erano state intercettate dai pm palermitani che indagavano sulla presunta trattativa Stato-mafia dei primi anni Novanta (il numero delle intercettazioni sarebbe di 9 mila). Secondo la Procura di Palermo, Mancino sarebbe stato indagato perche’ non avrebbe detto la verita’ sui rapporti tra pezzi di Stato e Cosa Nostra in quella fase. Napolitano, che compare in quattro di quelle intercettazioni, ha giudicato violate le sue prerogative di capo dello Stato e ha fatto ricorso alla Consulta. Secondo la Corte costituzionale, non spettava alla Procura di Palermo valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica. A giudizio della Consulta ”neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271, 3* comma, c.p.p. e con modalita’ idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti”. ”Non ho mai voluto interferire con le indagini e ho sempre voluto la verita”’, ha dichiarato piu’ volte il presidente della Repubblica a proposito delle presunte trattative tra Stato e mafia, precisando che il ricorso alla Consulta da parte sua era ”una decisione obbligata per chi abbia giurato dinanzi al Parlamento di osservare lealmente la Costituzione”.

Per Napolitano, occorreva difendere il ruolo della presidenza della Repubblica: ”anche e soprattutto per chi verra’ dopo di me”. Nel ricorso dell’Avvocatura dello Stato, si sosteneva a tale proposito che ”il divieto di intercettazione riguarda anche le cosiddette intercettazioni indirette o casuali” che quindi avrebbero dovuto essere destinate a ”distruzione immediata” ai sensi ”dell’ articolo 271 del Codice di procedura penale. Anche se non espressamente richiamate dal citato articolo 271”. Il dispositivo della sentenza della Consulta ora non lascia adito a interpretazioni. gar/sam/

via– ASCA.it.

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