Bancarotta impropria: Il concordato preventivo non salva dalla condanna – Cassazione Penale Sentenza 33230/2012
Le disposizioni legislative sulla bancarotta impropria, commessa cioè dagli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di una società, si applicano anche al concordato preventivo, avendo l’ordinamento giuridico vigente parificato agli effetti penali il decreto di ammissione al concordato preventivo alla sentenza dichiarativa di fallimento. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 33230 del 23 agosto 2012.
I fatti di causa
Con ordinanza del 12 dicembre 2011, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano applicava al direttore amministrativo di una società – ammessa al concordato preventivo – la misura cautelare personale della detenzione in carcere, in quanto indagato per il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione di fondi, misura confermata dallo stesso organo con ordinanza del 5 gennaio 2012.
Avverso tale provvedimento, l’indagato ha proposto ricorso per Cassazione eccependo:
la violazione di legge e dell’articolo 24 della Costituzione in relazione all’apposizione, a opera del pubblico ministero, di alcuni omissis sui verbali delle dichiarazioni rese dall’indagato stesso
la violazione di legge e dell’articolo 3 della Costituzione, nonché vizio di motivazione in ordine all’applicabilità delle norme penali in tema di bancarotta al concordato preventivo a seguito delle modifiche normative intervenute
l’insussistenza delle esigenze cautelari alla base del provvedimento impugnato
l’illogicità della motivazione relativamente all’adeguatezza della misura cautelare applicata.
La pronuncia
Con la sentenza in esame la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso e condannato l’interessato al pagamento delle spese processuali per i motivi di seguito esposti.
Sull’apposizione di alcuni omissis nei verbali delle dichiarazioni dell’indagato
Il ricorrente ha innanzitutto eccepito la violazione di legge e dell’articolo 24 della Costituzione, che sarebbe avvenuta nel momento in cui il pubblico ministero ha inserito alcuni omissis nei verbali delle dichiarazioni rese dallo stesso indagato presentati al giudice.
L’articolo 291 del cpp, così come richiamato dall’articolo 309, comma 5, dello stesso codice, dispone che le misure cautelari sono disposte su domanda del pm, il quale presenta al giudice competente gli elementi su cui la richiesta si fonda, nonché tutti quelli a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate.
Premesso ciò, secondo la Cassazione – che richiama le sentenze 47480/2011 e 7610/2006 della stessa Corte – il pubblico ministero può oscurare parte dei verbali, in quanto il termine “elementi” previsto dalla disposizione citata fa riferimento non soltanto agli atti integrali, ma anche a stralci di essi, al fine di garantire il segreto istruttorio ed evitare che le indagini possano essere compromesse. In altre parole, non è necessario che si mettano a disposizione del Gip, ed eventualmente del Tribunale del riesame, tutti gli atti d’indagine compiuti intesi nella loro integralità. Ciò, secondo la Suprema corte, non viola il principio del contraddittorio, “che comunque può concretamente svilupparsi sulla valutazione dell’entità e della rilevanza degli elementi indiziari posti a base dell’ordinanza impugnata”.
Sulla sussistenza delle esigenze cautelari e sull’adeguatezza della misura cautelare applicata
Nella sentenza in questione la Corte suprema ha affermato, inoltre, che le contestazioni del ricorrente in merito all’illogicità della motivazione – avente a oggetto l’adeguatezza della misura cautelare applicata – sono risultate generiche e, comunque, non potevano trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità, in quanto aventi a oggetto questioni in punto di fatto.
Sull’altra eccezione afferente il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari nel caso di specie, invece, i giudici di legittimità hanno ritenuto congruo e razionale l’impianto accusatorio anche sotto il profilo della motivazione, ribadendo che “in tema di misure cautelari personali, le tre esigenze cautelari relative al pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga e di reiterazione del reato, non devono necessariamente concorrere, bastando anche l’esistenza di una sola di esse per fondare la misura” (Cassazione, sentenze 4829/1995 e 44132/2011).
Sull’applicabilità delle norme penali in tema di bancarotta al concordato preventivo
Infine, l’indagato ha eccepito la non conformità della normativa de qua al principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione, nonché il vizio di motivazione in merito all’applicabilità delle norme sulla bancarotta fraudolenta al concordato preventivo, a seguito delle modifiche normative occorse.
Partendo dalla pronuncia 43428/2010 della stessa Corte a sezioni unite, il giudice di legittimità si è innanzitutto preoccupato di respingere l’eccezione della violazione della norma costituzionale citata, affermando che, a seguito delle modifiche normative intervenute, il presupposto d’accesso alla procedura del concordato preventivo è lo “stato di crisi” dell’impresa, da intendersi comprensivo anche dello stato di insolvenza, così come previsto dall’ultimo comma dell’articolo 160 della legge fallimentare, aggiunto dall’articolo 36 del Dl 273/2005. Alla procedura può accedervi, quindi, anche l’imprenditore che si trova in una situazione di difficoltà non ancora configurabile come dissesto. Per tali motivi, non c’è alcuna violazione di principi costituzionali, in quanto “rientra nei poteri discrezionali del legislatore equiparare quoad penam situazioni concretamente diverse ma aventi in comune la medesima finalità della tutela dei creditori a fronte dell’attività del debitore non ancora impossibilitato del tutto alla fisiologica estinzione delle proprie obbligazioni […] La struttura normativa del concordato preventivo [a differenza dell’amministrazione controllata, n.d.r.] prescinde da qualsiasi idea di necessaria protrazione dell’attività imprenditoriale ed è orientata ad assicurare effetti meramente liquidativi dei crediti attraverso qualsiasi forma ma in misura, di norma, falcidiata”.
In merito all’applicabilità delle norme penali in tema di bancarotta al concordato preventivo, è bene premettere che le modifiche normative intervenute hanno eliminato dall’articolo 160 della Lf i requisiti di meritevolezza per l’ammissione alla procedura e qualsiasi sindacato giudiziale sul merito della proposta. Ciò posto, l’articolo 236, comma 2, della legge fallimentare, dispone che, nel caso di concordato preventivo o amministrazione controllata, si applicano le disposizioni degli articoli 223 e 224 della stessa legge agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società.
Per tali motivi, continua la Suprema corte, le norme sulla bancarotta impropria, commessa cioè nel caso di specie dall’amministratore della società, sono applicabili al concordato preventivo, “avendo parificato, quanto agli effetti penali, il decreto di ammissione al concordato preventivo alla sentenza dichiarativa di fallimento”.
Per quanto riguarda l’ammissibilità dell’emissione delle misure cautelari in questo contesto, la Cassazione ribadisce che le fattispecie penalmente sanzionate dalla norma fallimentare si realizzano “indipendentemente dalla eventuale successiva dichiarazione di fallimento”: tale assunto ha il fine di evitare che comportamenti verificatisi anteriormente al fallimento (o anche in sua assenza) restino impuniti (Cassazione, sentenze 15061/2011 e 39307/2007).
A ciò è strettamente collegata la possibilità data dal legislatore al pubblico ministero di anticipare l’azione penale con l’articolo 238 della Lf, che dispone “Per i reati previsti negli artt. 216, 217, 223 e 224 l’azione penale è esercitata dopo la comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento di cui all’art. 17. È iniziata anche prima nel caso previsto dall’art. 7 e in ogni altro in cui concorrano gravi motivi e già esista o sia contemporaneamente presentata domanda per ottenere la dichiarazione suddetta”.
Tale norma deroga ai principi generali del nostro ordinamento giuridico, consentendo – secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione – l’esercizio dell’azione penale prima della dichiarazione di fallimento e, quindi, in epoca antecedente alla consumazione del delitto. La ratio di tale misura è, pertanto, quella di impedire comportamenti che potrebbero anche in via potenziale ledere gli interessi dei creditori.
In conclusione, “questa Corte di Cassazione ha ritenuto ammissibile in siffatto contesto l’emissione di misure cautelari, non avendo evidentemente considerato che la mancata consumazione del delitto si risolvesse in un ostacolo incompatibile con la nozione di ‘gravi indizi di colpevolezza’, quali richiesti dall’art. 273 cod. proc. pen., comma 1” (Cassazione, sentenze 21288/2007 e 8363/2005).
Giovanni Francescone
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