La sentenza della Cassazione, Sezione Unite Penali, 8 giugno 2012 n. 22225: un cavallo di Troia senza soldati – di Massimiliano Molinari
Qualche giorno fa, imbattendomi in alcune sentenze recenti, è avvenuto che una di queste, proveniente dalla Corte di Cassazione Penale a Sezioni Unite, dopo avermi lasciato eufemisticamente alquanto interdetto, mi ha costretto moralmente ad intervenire.
Dando per scontato che l’abbiate già letta per esteso, comunque per riassumere, questa tratta della valenza giuridica della condotta di colui il quale, consumatore finale, acquista un bene frutto del delitto di contraffazione. (Ndr: Vedi testo integrale della sentenza a fine articolo)
Il caso di partenza era legato ad un soggetto che aveva ordinato, presso un sito straniero, un orologio con marchio Rolex di provenienza cinese, che non giungeva al destinatario in quanto intercettato assieme ad altre merci alla dogana.
Sempre in riassunto, la Suprema Corte a Sezioni Unite, ha stabilito che tale condotta configurasse, in ragione della qualità dell’imputato, di essere consumatore finale del bene contraffatto, non una tentata ricettazione, bensì solamente un illecito amministrativo, ossia la violazione dell’art. 1 comma settimo del decreto legge 35 del 1995, così come modificato dall’art. 17 della legge 99 del 23 luglio 2009, questo in quanto ha ritenuto tale norma speciale, non soltanto rispetto all’incauto acquisto (art. 712 c.p.), bensì anche in relazione alla ricettazione.
La Corte circa l’acquisto da parte del consumatore finale afferma, 1) “che non é ragionevolmente ipotizzabile che l’acquirente finale di un prodotto con segni falsi – si pensi al frequente caso dell’acquisto da venditori ambulanti – non sia consapevole che l’oggetto acquistato rappresenta il provento della violazione dell’art. 474 cod. pen.”;
2) che tale acquisto avviene a fronte di motivi che “inducono a ritenere” l’oggetto quale frutto di contraffazione mentre, nella più grave contravvenzione di incauto acquisto, l’elemento soggettivo essendo invece legato all’“avere motivi di sospetto”, alla Corte parrebbe fattispecie meno grave di quella di cui all’illecito amministrativo, infatti sostiene che l’illecito amministrativo è idoneo ad «abbracciare sia le situazioni di mero sospetto che quelle di piena consapevolezza della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale»(!);
3) che, parole Sue, “deve trovare sempre applicazione la sanzione amministrativa pecuniaria, dovendosi l’illecito amministrativo considerare speciale non soltanto rispetto all’incauto acquisto, bensì anche in relazione alla ricettazione. Tale soluzione poggia…in secondo luogo, sull’esigenza di evitare che la norma sull’illecito amministrativo resti relegata a meri casi di scuola”;
4) che la soluzione interpretativa che attribuisce carattere di specialità all’illecito amministrativo in esame, si fonda sulla progressione modificativa del testo originario della norma dell’art. 1, comma 7, legge n. 35 del 2005, che trova la sua sistemazione finale con la legge n. 99 del 2009, entrata in vigore il 15 agosto 2009.
Suggestivo, ma nulla più.
Partendo dall’esame dell’ultimo punto, diremo da subito che l’utilizzo di tale metodologia è all’evidenza censurabile, in quanto per risolvere il problema giuridico fondamentale, la Corte ha fatto ricorso all’utilizzo di un criterio del tutto residuale, la presunta volontà del legislatore, andando a scomodare il dettato del defunto articolo 1, comma 7 del d.l. 14 marzo 2005, per interpretare quello che è un nuovo articolo, ciò senza aver fatto ricorso, come poteva e come avrebbe dovuto, ad altri criteri interpretativi.
E’ evidente la gravità della circostanza che i Supremi Giudici non abbiano immediatamente pensato ad una approfondita lettura sistematica della norma, ove il sistema è chiaramente formato dagli artt. 648 c.p., 712 c.p., nonché 1, comma 7, del d.l. 35, nella formulazione del 2009.
Proviamo quindi a seguire tale via per vedere a quali conclusioni viene a portare.
Si noterà come andiamo a porre ad esame tre fattispecie che hanno un legame indissolubile tra di loro, ossia l’elemento oggettivo il quale nel delitto, nella contravvenzione e nell’illecito amministrativo è sempre il medesimo cioè, nel caso in esame, l’acquisizione dell’oggetto frutto del delitto di cui all’art. 474 c.p., ma cosa distingue tali fattispecie?
Senza dubbio l’elemento soggettivo, infatti a fronte dell’acquisto di materiale delittuosamente contraffatto (che comporta comunque una risposta da parte del sistema sanzionatorio nei confronti del colpevole), le tre fattispecie che normano tale medesimo fatto costituente reato, operano a fronte di un diverso elemento psicologico che va dal dolo intenzionale alla colpa semplice.
Quindi, secondo lo scrivente, la medesima condotta, qualora venga attuata con dolo sostanzia il delitto di ricettazione, se attuata con colpa grave l’incauto acquisto (mai titolo fu peggiore!), se con colpa semplice, un illecito amministrativo.
Di diverso avviso la Corte secondo la quale, come sopra visto al punto due, ritiene l’elemento soggettivo dell’illecito, più grave e più ampio di quello di cui all’art. 712 c.p. e questo lo fa quando appunto afferma che l’illecito amministrativo è idoneo ad abbracciare sia le situazioni di mero sospetto (art.712 c.p.) che quelle di piena consapevolezza (l’induzione a ritenere di cui all’art.1, comma 7, anche se della parola consapevolezza non vi è traccia nella norma) della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale: si vedrà poi con chiarezza assoluta come tale assunto e gli altri in elenco, non siano assolutamente accettabili.
La lettura alternativa, ad opinione dello scrivente ben più convincente, ravvede invece come la colpa (perché il dolo si ha nella ricettazione) debba ravvedersi più grave lì come decritta nell’art. 712 c.p., in quanto i motivi che farebbero sospettare il bene quale frutto di delitto, non sono un mero sospetto, ma sono motivi di sospetto di tale gravità da implicare la doverosità dell’accertamento della legittimità della provenienza, per cui un tale elemento soggettivo è chiaramente la descrizione di una colpa grave;
tutto questo a differenza dell’illecito amministrativo in esame, nel quale i motivi che inducono a ritenere il bene contraffatto, non sono così gravi da rendere doveroso l’accertamento, per cui vi si descrive una colpa semplice.
Non sussiste quindi, come desunto erroneamente dal giudicante, alcuna volontà legislativa compatibile con l’esclusione dell’applicazione di sanzioni penali ai danni dell’acquirente finale di beni con marchi contraffatti e, l’ illecito amministrativo, non è per nulla idoneo ad «abbracciare sia le situazioni di mero sospetto che quelle di piena consapevolezza della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale».
Ora spiego il perché del sottotitolo: se questa sentenza venisse accettata quale corretta interpretazione della legge, l’articolo 1, comma 7, si rivelerebbe un cavallo di Troia nel sistema, nato per succhiare potere sanzionatorio dagli articoli 648 e 712 c.p., in una logica contraria all’estirpazione del delitto di contraffazione, delitto che si regge sulla domanda ovvero sui consumatori finali.
Per fortuna, rivelandosi il ragionamento logico-giuridico, che é il contenuto del cavallo, privo di capacità offensiva per la sua natura fallace, i soldati non vi sono ed il grande cavallo, potrà venire neutralizzato.
Ecco quindi la prova circa la validità della soluzione offerta, ossia che la norma amministrativa si occupa dei casi di ricettazione di bene contraffatto con colpa non grave, essa, finale ed incontrovertibile, reside nello stesso articolo pietra dello scandalo, così come modificato dall’art. 17 della legge 99 del 23 luglio 2009, al suo odierno secondo periodo, che è di rilevanza dirimente.
Ebbene si, esiste un secondo periodo che forse qualcuno non deve avere ben notato ed eccone il testo con, tra parentesi, le parti che devono essere trasportate dal primo, quello di cui si è parlato fino ad ora:
“Salvo che il fatto costituisca reato, qualora l’acquisto (a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale) sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria é stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni…”.
Ora se applichiamo a questo dettato normativo, perché é collegato ed ha la stessa stesura e quindi esegesi della norma riguardante il consumatore finale, il principio stabilito dalla Corte per il consumatore finale di cui al primo periodo (ossia l’esclusione dell’applicazione di sanzioni penali ai danni dell’acquirente finale di beni con marchi contraffatti, essendo l’illecito amministrativo idoneo ad «abbracciare sia le situazioni di mero sospetto che quelle di piena consapevolezza della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale):
otteniamo che, come non è sanzionabile penalmente colui il quale, consumatore finale, è pienamente consapevole della provenienza delittuosa del bene, così non lo può essere l’operatore commerciale, l’importatore ed altro, aventi il medesimo elemento soggettivo.
Il risultato sarebbe chiaramente inaccettabile in quanto:
1) innanzi tutto tale lettura sarebbe del tutto incompatibile con il dettato dell’art. 474 c.p. e
2) si verrebbe a negare l’esistenza stessa della ricettazione di bene contraffatto, venendo in materia di contraffazione ad essere punibile il solo produttore, mentre coloro che da costui acquisterebbero non sarebbero penalmente sanzionabili (!).
Utilizzando una diversa angolazione, farò un ulteriore ragionamento: quale è l’esegesi del secondo periodo della norma?
Questo dice che, qualora l’acquirente di un bene contraffatto sia, o un importatore (utilizzo un ordine diverso in base alla prossimità al produttore)
od un grossista (qualunque altro soggetto commerciale) od un negoziante (operatore commerciale), comunque un soggetto diverso dall’acquirente finale, salvo che il fatto non costituisca il delitto di cui ricettazione (dolo) od il reato di incauto acquisto (colpa grave) allora, se per la qualità dei beni o la condizione di chi glieli offriva o per l’entità del prezzo, il soggetto avrebbe dovuto essere indotto a ritenere che fosse stato violato l’articolo 474 c.p. (colpa), la sua condotta sarà comunque assoggettata ad una sanzione pecuniaria, di carattere amministrativo, non penale, dai 20.000 euro al milione; è sottinteso che se nel soggetto non sarà addebitabile neppure questa colpa od una minore, allora non sarà soddisfatto l’elemento soggettivo minimo per la punibilità.
Tanto stabilito, come ci si deve comportare con il primo periodo che, parte dello stesso articolo e comma, non potrà avere un’esegesi incompatibile con il restante dettato normativo?
Risulta evidente come l’unica strada logica da seguire sia quella che si può ottenere invertendo i periodi per comodità per cui,
nel caso in cui a fare acquisto di un bene contraffatto sia, invece, il consumatore finale (cioè colui che vuole farne uso personale), che di fronte alle modalità di offerta del bene, avrebbe dovuto essere indotto a ritenerlo una contraffazione, tale condotta verrà sanzionata, per la sua colpa meno grave di quella richiesta dall’incauto acquisto, con una sanzione pecuniaria, non elevata come per i soggetti precedenti, ma comunque di non indifferente rilievo, ossia la cifra dai 100 ai 7000 euro.
Qualora qualcuno non fosse ancora persuaso e volesse, pravamente, ancora credere che l’art. 1 comma 7, primo periodo, per esempio a causa dell’assenza dell’inciso “salvo che il fatto non costituisca reato”, significhi che qualunque sia l’elemento soggettivo del consumatore finale che acquista il bene contraffatto, costui sarà punibile sempre e solo con la sanzione pecuniaria, allora dovrà convincentemente spiegare quale sarebbe, in tale ottica, il senso della dizione “inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale”:
se veramente il primo periodo dell’articolo 1, operando come norma speciale (e non parte di un’articolata norma di legge), fosse stato destinato a normare in tutto e per tutto la figura del consumatore finale, dopo aver “espropriato” di essa, sia il delitto di ricettazione che il reato di incauto acquisto, il dettato di tale norma, 1) sarebbe in tal senso inequivoco e non abbisognerebbe di esegesi alcuna e 2) la locuzione riguardante l’induzione a ritenere non sarebbe presente.
Per essere del tutto chiaro, la norma per essere in linea coi dettami delle Sezioni Unite, dovrebbe apparire in tali termini: “7. E’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale di cose che siano in violazione delle norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma.”, ma non solo così non è, ma allo stato dell’arte della lingua italiana, indurre a ritenere non equivale ad avere la completa certezza, la piena consapevolezza, che non si capisce dove spunti dal primo periodo.
Per completezza ci occuperemo anche dell’ “esigenza di evitare che la norma sull’illecito amministrativo resti relegata a meri casi di scuola”, assunto censurabile sia per il fatto che non è dato comprendere
A) il motivo per cui la Corte ravveda questa “esigenza” di riempire di potere una norma amministrativa, tra l’altro svuotando altre norme, sia
B) come si possa ritenere che altrimenti la norma non verrebbe di fatto mai ad operare, se non in casi di scuola, casi che non vengono esposti.
Caso di colpa non grave, di esperienza comune per chi frequenta mercati rionali, può essere, per esempio, quello dell’anziana signora di campagna la quale, venuta in città, compra al mercatino non ben controllato dalle forze dell’ordine o per la strada, la borsetta contraffatta (magari perché vista portare da una conoscente).
Per quanto ne possa pensare la Corte, non tutta la popolazione italiana è ferrata in materia di marchi, prodotti di lusso e proprietà intellettuale ed industriale, per cui la norma non è stata creata per casi di scuola ma per casi reali verificabili.
La sentenza esaminata, quindi, a mio avviso, si risolve in un incidente di percorso a cui una futura pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite o della Corte Costituzionale, potrà porre rimedio.
Tanto dimostrato, non essendo necessarie ulteriori ma possibili sottolineature, ringrazio per l’attenzione concessami.
Massimiliano Molinari
Cassazione Penale, Sezioni Unite, Sentenza n. 22225 del 08/06/2012
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Bergamo, con sentenza in data 16 giugno 2006, assolveva
F. M. dal delitto di cui agli artt. 56 e 648 cod. pen. perché il fatto non
è previsto dalla legge come reato. Secondo la contestazione, l’imputato, al fine di
profitto, facendo un ordinativo tramite corriere espresso, compiva atti idonei
diretti in modo non equivoco a ricevere un orologio recante il marchio
contraffatto Rolex, cosa proveniente dal delitto di cui all’art. 473 cod. pen.,
senza riuscire nel proprio intento per cause indipendenti dalla sua volontà e,
segnatamente, a causa del controllo doganale cui veniva sottoposto il collo
proveniente dalla Cina,
Il Tribunale osservava che l’elemento oggettivo della fattispecie era previsto dal delitto di cui all’art. 648 cod. pen., dalla contravvenzione di cui all’art. 712 cod. pen. e, infine, dall’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80; e che, pertanto, la distinzione tra i diversi illeciti doveva essere individuata nell’elemento soggettivo. Il Tribunale escludeva nei caso di specie sia il dolo specifico che quello diretto di ricettazione e riteneva incompatibile con la figura delittuosa il dolo eventuale, affermando che non vi era prova che il M., non avendo avuto modo di visionare l’orologio da lui ordinato, potesse essersi rappresentato con certezza o con elevata verosimiglianza la contraffazione del marchio Rolex. Riteneva, infine, ravvisabile l’illecito amministrativo, che doveva considerarsi speciale, ai sensi dell’art. 9 legge 24 novembre 1981, n. 689, rispetto alla contravvenzione di cui all’art. 712 cod. pen,, posto che conteneva tutti gli elementi propri del reato contravvenzionale cui si aggiungeva la limitazione della condotta sanzionata ai prodotti acquistati o accettati in violazione delle leggi di tutela dei marchi
2. Proponeva ricorso per cassazione il Pubblico ministero, il quale, premesso che il primo giudice aveva erroneamente ritenuto l’incompatibilità tra il dolo eventuale e il delitto di ricettazione, osservava che l’illecito amministrativo contemplava il fatto di colui che acquista beni con marchio contraffatto «senza averne prima accertata la legittima provenienza», mentre, nel caso di specie il M. aveva la certezza di acquistare merce contraffatta, essendosi rivolto a canali di fornitura in estremo oriente notoriamente operanti nel settore della contraffazione di marchi di lusso.
3. La Corte di appello di Brescia, a seguito di conversione del ricorso operata dalla Corte di cassazione, con sentenza in data 25 ottobre 2010, dichiarava il M. colpevole del delitto ascrittogli, ritenuta l’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 648 cod, pen., e lo condannava, con sostituzione della pena, alla multa di euro 2.480 e, inoltre, al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite Rolex s.a. e Rolex Italia s.p.a. da liquidare in separata sede.
La Corte di appello rilevava che l’art. 1, comma 7, d.l. n. 35 del 2005 era stato modificato dall’art. 17 legge 23 luglio 2009, n. 99, con la soppressione (fra l’altro) dell’inciso iniziale «salvo che il fatto costituisca reato» ed affermava che l’illecito amministrativo doveva considerarsi speciale rispetto a! reato di cui all’art. 712 cod. pen., qualora oggetto dell’illecito siano cose fabbricate in violazione di norme «in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale». La stessa Corte riteneva, invece, che dall’ambito dell’illecito amministrativo dovessero escludersi le ipotesi in cui l’acquirente abbia la certezza di comperare un oggetto frutto della violazione delle suddette norme. Nel caso di specie, le circostanze relative al prezzo pagato (trenta dollari) e la chiara spiegazione contenuta nel sito internet, su cui era avvenuto l’acquisto dell’orologio, che si trattava di un’imitazione dell’originale portavano la Corte di merito a concludere che il M. aveva direttamente voluto l’acquisto di un oggetto che riproducesse pedissequamente ii prodotto genuino e che fosse con quest’ultimo esteriormente confondibile.
4. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione.
Quanto al primo vizio, la Corte di appello non avrebbe adeguatamente considerato la portata dell’intervento legislativo n. 99 del 2009, avente ad oggetto ii d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, che non solo ha soppresso la clausola «salvo che il fatto costituisca reato», ma ha anche sostituito le parole «da 500 euro fino a 10.000 euro l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose» con l’espressione «da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose», ed ha, infine, sostituito il termine «intellettuale» con quello «industriale». Tali modifiche, secondo il ricorrente, farebbero ritenere la norma «costruita su misura per l’acquisto di prodotti recanti marchi falsi venduti a prezzo bassissimo da persone anche extra-comunitarie sulla pubblica via o tramite internet e sicuramente l’intenzione del legislatore era proprio quella di non criminalizzare l’acquirente finale di prodotti recanti marchi falsi»; pertanto, dovrebbe applicarsi il principio di specialità di cui all’art. 9 legge n. 689 del 1981, considerando, altresì, che la norma amministrativa non fa distinzione fra dolo o colpa e dovrebbe essere applicata in ogni caso quando un privato acquista una cosa che per la qualità, per il prezzo o per la condizione di chi la offre ritenga che sia contraffatta.
La motivazione della pronuncia, comunque, si paleserebbe illogica laddove desume la consapevolezza della contraffazione dalla mera consultazione di una pagina internet, scritta in inglese, dalla quale non si desumeva che l’orologio che si ordinava potesse essere un orologio con marchio contraffatto, e l’imputato, che conosceva una lingua inglese scolastica, poteva ben credere di ordinare un orologio uguale a quello di marca Rolex, dovendosi distinguere tra il modello industriate e il marchio oggetto di tutela, marchio che l’imputato non poteva vedere e non ha potuto vedere perché l’orologio non è mai arrivato a destinazione.
5. La costituita parte civile Rolex s.a,, con due distinte note del 9 settembre 2011 e del 23 ottobre 2010, chiedeva ii rigetto del ricorso sostenendo che l’intervento legislativo del 2009 ha voluto precludere al privato acquirente «ogni possibilità di fuga», ampliando il sistema sanzionatorio, che ora ricomprenderebbe una serie di condotte che, in passato, si ponevano ai margini dell’applicabilità della contravvenzione di incauto acquisto ovvero al di fuori di ogni tipo di previsione normativa. Tale conclusione si ricaverebbe, in primo luogo, dall’Interpretazione della volontà legislativa, che sarebbe nel senso dell’inasprimento della risposta repressiva al dilagante fenomeno della contraffazione mediante l’allargamento delle ipotesi punitive anche al campo delle sanzioni amministrative; in secondo luogo, dall’osservazione per cui la ricettazione ha caratteristiche strutturali, ben evidenziate anche dalle Sezioni Unite penali con la sentenza n. 12433 del 2010 (in tema di configurabiiità del dolo eventuale nella ricettazione), del tutto diverse da quelle della contravvenzione di cui all’art. 712 cod, pen., sicché, benché l’illecito amministrativo possa essere considerato speciale rispetto a quest’ultima fattispecie, non altrettanto potrebbe dirsi rispetto al delitto di ricettazione.
6. La Seconda Sezione penale, cui era stato assegnato il ricorso, con ordinanza del 28 settembre 2011, depositata il successivo 12 ottobre, ha rilevato l’esistenza di due distinte tesi giuridiche sulla questione della specialità o meno del nuovo testo di cui all’art. 1 d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, così come modificato dall’art. 17, comma 2, legge 23 luglio 2009, n. 99, rispetto al delitto di ricettazione.
Secondo un primo orientamento, l’Illecito amministrativo sarebbe speciale solo rispetto alla contravvenzione di cui all’art. 712 cod. pen., ma non rispetto alla ricettazione, atteso che soltanto l’elemento oggettivo della contravvenzione, essendo incentrato sull’acquisto o ricezione di cose di cui si abbia motivo di sospettare la provenienza da reato in ragione deila loro qualità, della condizione di chi le offre o del prezzo, è seriamente sovrapponibile con l’ultima versione dell’illecito amministrativo, mentre non altrettanto può dirsi del delitto di cui all’art. 648 cod. pen., che si sostanzia nell’acquisto o ricezione di cosa proveniente da delitto a fini di profitto.
Secondo il contrario orientamento, invece, deve trovare sempre applicazione la sanzione amministrativa pecuniaria, dovendosi l’illecito amministrativo considerare speciale non soltanto rispetto all’incauto acquisto, bensì anche in relazione alla ricettazione. Tale soluzione poggia, in primo luogo, sull’interpretazione della volontà legislativa, che è maggiormente compatibile con l’esclusione dell’applicazione di sanzioni penali ai danni dell’acquirente finale di beni con marchi contraffatti; in secondo luogo, sull’esigenza di evitare che la norma sull’illecito amministrativo resti relegata a meri casi di scuola, non essendo ragionevolmente ipotizzabile che l’acquirente finale di un prodotto con segni falsi – si pensi al frequente caso dell’acquisto da venditori ambulanti – non sia consapevole che l’oggetto acquistato rappresenta il provento della violazione dell’art. 474 cod. pen.; in terzo luogo, sulla considerazione per cui non è vero che l’illecito amministrativo è maggiormente compatibile con la struttura dell’art. 712 cod. pen., atteso che in esso il legislatore impiega l’espressione «inducano a ritenere», laddove nella contravvenzione la lettera della norma usa le parole «abbia motivo di sospettare», dal che si desume che lo stesso illecito amministrativo è idoneo ad «abbracciare sia le situazioni di mero sospetto che quelle di piena consapevolezza della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale».
Ne conseguiva, secondo ia parte finale dell’ordinanza, l’opportunità di rimettere la questione alle Sezioni unite soprattutto per la sua potenzialità di riguardare «migliaia di acquirenti di beni con marchi contraffatti».
7. Con decreto in data 17 ottobre 2011, il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissandone per la trattazione l’odierna udienza.
8. Le costituite parti civili Rolex s.a. e Roiex Italia s.p.a. in data 30 dicembre 2011 hanno depositato presso la Cancelleria delle Sezioni Unite penali memoria ex art. 121 cod. proc. pen., con la quale insistono nella richiesta di rigetto del ricorso, sostenendo, in punto di diritto, la perdurante sussistenza, nel caso di specie, del delitto di ricettazione anche a seguito dell’intervento legislativo dei 2009.
Al riguardo, ribadiscono che la nuova disposizione ha lasciato un ambito residuale di applicabilità del delitto di cui all’art. 648 cod. pen.
Deporrebbero in tal senso la volontà legislativa, che è orientata all’inasprimento della risposta repressiva al dilagante fenomeno della contraffazione mediante l’allargamento delle ipotesi punitive anche al campo
delle sanzioni amministrative, nonché le caratteristiche strutturali della ricettazione, posto che esse rimangono del tutto diverse da quelle della contravvenzione prevista dall’art. 712 cod. pen.
Ne consegue che, per quanto l’illecito amministrativo possa essere considerato speciale rispetto aita contravvenzione di incauto acquisto, non è altrettanto vero che esso lo sia anche rispetto al delitto di ricettazione. Ove ii legislatore nel 2009 avesse voluto depenalizzare ogni tipo di acquisto, lo avrebbe detto espressamente, astenendosi dall’elencare nella nuova norma gli indici di sospetto, sicché è da opinare che sia stato depenalizzato unicamente l’acquisto in relazione ai quale si poteva muovere all’agente il rimprovero derivante dal “non aver colto” detti indici.
Secondo le parti civili, pertanto, mentre in tale ultimo caso si verserebbe nell’ipotesi dell’illecito amministrativo, la consapevolezza delle provenienza delittuosa delia cosa acquistata resterebbe ancora punita dall’art. 648 cod. pen. Ed anzi, così impostati i rapporti tra le fattispecie in questione, sia contravvenzionali che amministrativamente rilevanti, non si ravviserebbe, a rigore, la necessità di “scomodare” le regole sul rapporto di specialità tra norme. Sul piano effettuale osservano i difensori che, se così non si argomentasse, sarebbe troppo facile per l’agente sfuggire alle maglie del sistema penale semplicemente «iscrivendosi alla categoria del privato consumatore finale del prodotto», il che frustrerebbe ogni sforzo repressivo del fenomeno contraffattivo che il legislatore avrebbe, invece, intenzione di continuare a porre in essere.
Ulteriore dimostrazione della non avvenuta depenalizzazione in parte qua dell’art. 648 cod. pen. deriverebbe dallo studio dei lavori preparatori della legge di modifica del 2009 ed in particolare dalla “Scheda di lettura”, redatta dal Servizio Studi del Senato nel novembre 2008, del disegno di legge A. S. n. 1195, nella quale si osserva che la nuova norma prevede chiaramente la sola punibilità a titolo amministrativo óeW’ìncauto acquisto da parte dell’acquirente finale di prodotti in violazione della disciplina sulla proprietà industriale, con esclusione, dunque, di ogni menzione della condotta di ricettazione, che pertanto esulerebbe dall’ambito applicativo della depenalizzazione.
In calce alla memoria è contenuta una scheda elaborata da «tecnici competenti», il cui contenuto viene «fatto proprio» dalla difesa delle parti civili, nella quale si sostiene che da alcune fonti dell’Unione Europea deriverebbe non solo la necessità di apprestare la massima tutela possibile contro gli atti di aggressione alla proprietà intellettuale, ma anche l’opportunità che ciò avvenga attraverso l’utilizzo delle sanzioni penali, costituendo le stesse un mezzo adeguato per il raggiungimento dello scopo.
A tal riguardo si fa menzione della ed. Direttiva Enforcement (n. 2004/48/CE), che ha fissato detto principio pur non contenendo disposizioni materiali relative alle sanzioni penali da applicare e pur avendo lasciato liberi gli Stati membri di decidere ie misure punitive considerate più idonee. Lo stesso principio sarebbe in corso di ulteriore precisazione in virtù di altri tre atti in via di perfezionamento: si tratterebbe della “Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alle misure penali finalizzate ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale” del 12 luglio 2005, nonché della “Proposta di decisione-quadro del Consiglio relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione delle violazioni della proprietà intellettuale”, recante la stessa data, le quali imporrebbero agli Stati membri di qualificare come reato le violazioni intenzionali dei diritti di proprietà intellettuale; ed inoltre della “Proposta modificata di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle misure penali finalizzate ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale”, del 24 giugno 2006, secondo la quale anche le sanzioni penali devono costituire un opportuno strumento per assicurare il rispetto della proprietà intellettuale, A tali fonti si aggiunge la Comunicazione della Commissione Europea del 16 luglio 2008, rubricata “Una strategia europea in materia di diritti di proprietà industriale”, in cui si osserva che anche le sanzioni penali possono costituire in taluni casi un mezzo per far applicare i diritti di proprietà intellettuale e si confida nella sensibilità degli Stati membri di dotarsi di misure penali efficaci a tal fine.
Alla luce di tali richiami, la Corte di cassazione sarebbe chiamata a leggere in chiave penalistica la norma di cui all’art. 1, comma 7, d.l. n, 35 del 2005, convertito dalla legge n. 80 del 2005, così come modificata nel 2009, in tal modo adempiendo all’obbligo, oramai riconosciuto dalla sua stessa giurisprudenza, di interpretare il diritto nazionale in modo conforme alla normativa comunitaria. Viceversa, in via subordinata, ove la Cassazione propendesse per la tesi della depenalizzazione, sì suggerisce l’opportunità di un rinvio alla Corte di Giustizia in via pregiudiziale al fine di favorire la corretta interpretazione delle disposizioni sopra richiamate e, in via ulteriormente subordinata, di sollevare questione di legittimità costituzionale m riferimento agli artt. 11 e 117 Cost. laddove il contrasto tra le norme non fosse sanabile in via esegetica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: «Se possa configurarsi una responsabilità a titolo di ricettazione per l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata»,
2. Su tale questione non sussiste un concreto contrasto nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, la quale non risulta essersi pronunciata ex professo su di essa.
Si registra soltanto un intervento delle Sezioni Unite (sent. n. 47164 del 20/12/2005, Marino, Rv. 232304), con il quale, nel pronunciarsi in merito al concorso tra il reato di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio abusivo di prodotti audiovisivi abusivamente riprodotti (art. 171-ter legge 22 aprile 1941, n. 633), si esamina anche il disposto dell’art. 1, comma 7, d.l. n. 35 del 2005, nel suo testo originario e si osserva: «questa nuova fattispecie di illecito amministrativo è evidentemente applicabile nei soli casi in cui neppure la presupposta violazione delle norme “in materia di proprietà intellettuale” costituisca reato; al contrario di quanto invece presuppone la fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 712 cod. pen., sulla quale la fattispecie amministrativa è ricalcata pressoché letteralmente, e salva la disciplina eventualmente diversa dettata dalle “norme in materia di origine e provenienza dei prodotti”. Attesa l’apparente identità delle due fattispecie, in realtà, la nuova norma risulterebbe inapplicabile, ove non avesse un ambito di applicazione distinto da quello proprio della fattispecie contravvenzionale prevista dal codice penale. Infatti, come s’è visto, l’art. 1, comma 7, del decreto stabilisce che la nuova fattispecie dì illecito amministrativo è applicabile solo quando il fatto non costituisce reato; ma anche l’analoga fattispecie prevista dall’art. 712 cod, pen. è appunto un reato. Sicché deve ritenersi che l’incauto acquisto di cose provenienti da reato possa integrare gli estremi della contravvenzione prevista dall’art. 712 cod. pen.; mentre l’incauto acquisto di cose di provenienza altrimenti illecita può integrare gli estremi dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80».
La sentenza delie Sezioni Unite è stata pronunciata quando il testo originario dell’art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, 35, conteneva, nel suo incipit, la clausola di riserva “Salvo che il fatto costituisca reato”. Sul punto è rilevante citare la sentenza Sez. 2, n. 35080 del 07/07/2009, la quale dopo aver aderito alla tesi delle Sez. U, n. 47164 del 2005 (cit.), quasi anticipando le successive modifiche normative, afferma che «soltanto l’eliminazione dell’inciso “salvo che il fatto costituisca reato”, renderebbe con sicurezza applicabile, in tale specifica situazione di acquisto, accettazione, ecc. – ed alla luce del generale principio di specialità di cui alla I. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9 – la sanzione amministrativa pecuniaria, eliminando il carattere inutilmente ridondante della disposizione. In questo modo la condotta di acquisto o accettazione, ovviamente, assumerebbe rilevanza – secondo i principi generali di cui alla citata I. n. 689, art. 3 – se connotata da dolo in caso di piena consapevolezza delia provenienza iliecita, ovvero da colpa».
Deve ancora registrarsi una sentenza pronunciata in materia di acquisto di sostanze farmaceutiche assoggettate ad un titolo di proprietà industriale, che incidentalmente esamina la disposizione dell’art. 1, comma 7, d.l. n. 35 del 2005, alla luce delle novelle intervenute nel settore, in particolare la legge 23 luglio 2009, n. 99, ed afferma che, sulla base di tale disposizione, la quale punisce con una semplice sanzione amministrativa l’acquisto di beni assoggettati a privativa industriale, «è di per sé categoricamente da escludersi che il fatto possa essere punito come reato, ostandovi all’evidenza il principio di specialità sancito dalla I. 24 novembre 1981, n, 689, art. 9» (Sez. 2, n, 14053 del 15/03/2011, Fredducci).
3. Dovendosi raffrontare il delitto di ricettazione con l’illecito amministrativo, occorre tener presenti i criteri sull’individuazione della norma speciale di recente ridefiniti dalla giurisprudenza di legittimità, posto che il concorso di norme tra fattispecie penali e violazioni amministrative è disciplinato dall’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in base al quale, se uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale piuttosto che il concorso tra sanzione penale e violazione amministrativa. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722, pronunciandosi in tema di rapporti tra l’art. 334 cod. pen. e l’art. 213, comma 4, cod. strad., hanno affermato che «rilevante è, nel testo dell’art. 9, la differenza rispetto all’art. 15 cod. pen., laddove, invece di parlare di “stessa materia”, si fa riferimento allo “stesso fatto”. Non è, però, da ritenere che con questa formula il legislatore abbia inteso fare riferimento alla specialità in concreto, dovendosi al contrario ritenere che il richiamo sia fatto alla fattispecie tipica prevista dalle norme che vengono in considerazione, evitando quella genericità che caratterizza l’art. 15 cod. pen. con il riferimento alla materia. Valgono infatti, nel caso di concorso tra fattispecie penali e violazioni di natura amministrativa, le medesime considerazioni […] sulla necessità che il confronto avvenga tra le fattispecie tìpiche astratte e non tra le fattispecie concrete. Il che, del resto, è confermato dal tenore dell’art. 9 che, facendo riferimento al “fatto punito”, non può che riferirsi a quello astrattamente previsto come illecito dalla norma e non certo al fatto naturalisticamente inteso».
Nel contempo Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864, in tema di rapporti tra frode fiscale e truffa aggravata ai danni dello Stato, hanno affermato che in caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità di cui all’art. 15 cod. pen. richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle.
Entrambe le sentenze, dunque, chiariscono che il rapporto di specialità deve essere verificato nel confronto strutturale tra le fattispecie astratte; ciascuna di esse, poi, contiene altre importanti affermazioni di principio: la prima sottolinea che il citato art. 9 «diretto a privilegiare la specialità (e quindi l’apparenza del concorso) costituisce un’importante chiave di lettura in tutti i casi in cui, ad una condotta penalmente sanzionata, si aggiunga (soprattutto se ciò avvenga in tempi successivi rispetto all’entrata in vigore della prima norma) una disciplina normativa che la preveda anche come violazione di natura amministrativa»; la seconda invita ad «una applicazione del principio di specialità, secondo un approccio strutturale, che non trascuri l’utilizzo dei normali criteri di interpretazione concernenti la ratio delle norme, le loro finalità e il loro inserimento sistematico, al fine di ottenere che il risultato interpretativo sia conforme ad una ragionevole prevedibilità, come intesa dalla giurisprudenza della Corte EDU».
4. Per la soluzione della questione sottoposta a queste Sezioni Unite è necessario ripercorrere lo sviluppo delle modifiche legislative apportate alla norma di riferimento.
La norma base è quella introdotta con l’art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, come modificato in sede di conversione dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, articolo che porta in rubrica l’indicazione «lotta alla contraffazione» e così dispone al comma 7, nel suo testo originario: «7. Salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.000 euro l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale. La sanzione di cui al presente comma si applica anche a coloro che si adoperano per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza averne prima accertata la legittima provenienza. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70» (l’ultimo perìodo è stato aggiunto dalla legge di conversione).
Successivamente l’art. 2, comma 4-bis, d.l. 30 settembre 2005, n, 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, ha apportato le seguenti modificazioni: «al comma 7, al primo periodo, dopo le parole: “sanzione amministrativa pecuniaria” sono inserite le seguenti: “da 100 euro” e sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: “Qualora l’acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria è stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall’articolo 13 della citata legge n. 689 del 1981, all’accertamento delle violazioni provvedono, d’ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa».
Successivamente ancora l’art. 5-bis, d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, che porta nuovamente in rubrica «lotta alla contraffazione», sostituisce al primo periodo le parole «da 100 euro» con quelle «da 500 euro».
Infine, l’art. 17 legge 23 luglio 2009, n. 99, che reca in rubrica «contrasto della contraffazione», entrato in vigore il 15 agosto 2009, apporta, con il comma 8, all’art. 1, comma 7, citato, le seguenti modificazioni:
«a) nel primo periodo:
le parole: “Salvo che il fatto costituisca reato,” sono soppresse;
le parole: “da 500 euro fino a 10.000 euro l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose” sono sostituite dalle seguenti: “da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose”;
3) la parola: “intellettuale” è sostituita dalla seguente: “industriale”;
6) il secondo periodo è soppresso;
e) nel quinto periodo prima delle parole: “Qualora l’acquisto sia effettuato da un operatore commerciale” sono inserite le seguenti: “Salvo che il fatto costituisca reato,”».
Il comma 3 del citato art. 17, inoltre, dispone:
«3. Fermo restando quanto previsto dall’ articolo 1, comma 7, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, come modificato, da ultimo, dal comma 2 del presente articolo, e salvo che il fatto costituisca reato, è prevista la confisca amministrativa dei locali ove vengono prodotti, depositati, detenuti per la vendita o venduti i materiali contraffatti, salvaguardando il diritto del proprietario in buona fede.»
Il testo finale, attualmente vigente, del comma 7 dell’art. 1 d.l. n. 35 del 2005 è, dunque, il seguente:
«7. È punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. In ogni caso si procede alla confìsca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70. Salvo che il fatto costituisca reato, qualora l’acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria é stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall’articolo 13 della citata legge n. 689 del 1981, all’accertamento delle violazioni provvedono, d’ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa».
5. Dall’esame dello sviluppo delle modifiche legislative al testo originario si desumono elementi interpretativi per chiarire il significato della disposizione attualmente vigente.
Un primo elemento è quello che concerne gli autori dell’illecito amministrativo:
in origine erano puniti con identica sanzione tutti coloro che effettuavano l’acquisto o la ricezione ovvero l’intermediazione all’acquisto o alla ricezione a qualsiasi titolo e per qualsiasi finalità di cose che violavano le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale;
successivamente si prevede una sanzione amministrativa “rafforzata” per gli operatori commerciali o importatori o, comunque, soggetti diversi dall’acquirente finale.
Un secondo elemento è quello relativo alle modalità dell’acquisto:
in origine qualsiasi acquisto, da chiunque effettuato, doveva essere avvenuto «senza avere prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale»;
tali modalità rimangono ferme anche quando successivamente si distingue tra acquirente finale e non finale;
3) con la legge n. 99 del 2009 viene soppressa la formula «senza averne
prima accertata ia legittima provenienza».
Un terzo elemento di fondamentale importanza è quello relativo alla clausola dì riserva:
1) in origine la formula «salvo che il fatto costituisca reato» riguardava indistintamente qualsiasi tipologia di acquisto;
la legge n. 99 del 2009 la clausola di riserva viene soppressa con specifico riferimento all’acquirente finale e viene introdotta solo con riguardo agli acquisti effettuati da qualsiasi soggetto diverso dall’acquirente finale.
Già quest’ultima modifica potrebbe essere sufficiente a ritenere la specialità dell’illecito amministrativo rispetto agli acquisti effettuati dall’acquirente finale sulla base del solo testo della disposizione vigente alla data di entrata in vigore della legge n. 99 del 2009, in applicazione del principio formulato dalle citate Sezioni Unite n. 1963 del 2011 (v. retro par. 3), laddove si afferma che l’art. 9 della I. 24 novembre 1981, n. 689, è diretto a «privilegiare la specialità» in tutti i casi in cui, ad una condotta penalmente sanzionata, si aggiunga, soprattutto se ciò avvenga in tempi successivi rispetto all’entrata in vigore della prima norma, una disciplina normativa che la preveda anche come violazione amministrativa, ciò che appare evidente nel caso di specie, in cui il legislatore ha manifestato chiaramente il suo intento con una mirata e selezionata eliminazione della clausola di specialità.
Se, poi, si procede, sempre in applicazione dei principi formulati dalle citate sentenze delle Sezioni Unite n. 1963 del 2011 e n. 1235 del 2011, ad un raffronto strutturale tra le fattispecie astratte, si deve rilevare, in primo luogo, che il legislatore del 2009 ha voluto delimitare l’ambito dell’illecito amministrativo speciale al soggetto agente costituito dall’ “acquirente finale”, mentre i reati del codice penale (artt. 648 e 712) possono essere commessi da “chiunque”. L’art. 648 cod. pen. richiede che colui che commette il delitto non sia concorrente nel reato presupposto, ma è evidente che la stessa qualifica di “acquirente finale” esclude tale possibilità con riferimento alla contraffazione quale presupposto della condotta amministrativamente illecita, trattandosi di qualifica del soggetto agente che intende escludere un qualsiasi concreto apporto causale all’attività criminosa presupposta, non solo sotto forma di previo concerto o di agevolazione, ma anche di concreta istigazione che abbia determinato l’autore materiale all’azione.
In secondo luogo, il concetto di «cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale», costituisce specificazione di quello di «cose provenienti da un qualsiasi delitto» di cui all’art, 648 cod. pen.
In terzo luogo, la formula relativa alla modalità dell’acquisto che doveva avvenire «senza averne prima accertata ia legittima provenienza» – che aveva fatto porre in raffronto ia fattispecie in esame esclusivamente con quella dell’art. 712 cod. proc. pen., che adottava analoga formula – è stata eliminata, in tal modo evidenziandosi la possibilità di configurare l’illecito amministrativo quale che sia l’atteggiamento psicologico del soggetto agente, poiché la semplice formula «inducano a ritenere» è idonea comprendere sia il mero sospetto che la piena consapevolezza della provenienza illecita del bene che si acquista; mentre non costituisce elemento specialistico “per aggiunta” il fine di profitto che caratterizza il delitto di ricettazione, posto che esso certamente è individuabile nei diversi profili di vantaggio che si propone l’acquirente finale di un prodotto contraffatto, sicché si tratta di un elemento che appare inerente alla fattispecie delineata. Il rapporto di specialità, pertanto, sussiste sia rispetto al delitto che alla contravvenzione del codice penale, posto che, secondo quanto dispone l’art. 3 della legge n. 689 del 1981 «nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa».
6. Dai lavori preparatori della legge di modifica del 2009 non si desume la depenalizzazione in parte qua solo dell’incauto acquisto e non anche dell’art. 648 cod. pen., come affermato nella memoria della parte civile, la quale fa riferimento ad una “scheda di lettura” redatta dal Servizio Studi del Senato con riferimento al disegno di legge, nella quale effettivamente sì osserva che la nuova norma prevede «la sola punibilità a titolo amministrativo dell’incauto acquisto da parte dell’acquirente di prodotti in violazione della disciplina sulla proprietà industriale (anziché intellettuale)». Infatti, il testo dell’art. 17, comma 8, legge n. 99 del 2009, era contenuto, negli stessi termini, nell’art. 12 del disegno di legge n. 1441, presentato in data 2 luglio 2008, d’iniziativa del Governo. Tale articolo, rimasto inalterato nel suo contenuto, venne stralciato, insieme ad altri articoli, con delibera dell’Assemblea della Camera dei Deputati del 5 agosto 2008 (atto n. 1441-ter) e successivamente approvato il 1° luglio 2009. Passò quindi al Senato (atto 1195-B) dove venne definitivamente approvato il 9 luglio 2009. Ebbene, la relazione che accompagnava il disegno di legge governativo, con riferimento al suddetto art. 12, parla di norma che reca «modifiche alla disciplina sanzionatoria del consumatore consapevole». Il concetto di “consapevolezza” dell’acquirente è all’evidenza ben diverso da quello di un acquisto semplicemente incauto, mentre il riferimento al “consumatore” chiarisce che l’intento del legislatore è quello di dettare una disciplina sanzionatoria speciale riguardante appunto l’utente finale, trattandosi di una qualificazione che ha avuto ampia elaborazione nell’ambito della disciplina della tutela dei consumatori e che si riferisce strettamente a «qualsiasi persona fisica che agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale» (art. 2 direttiva dell’Unione Europea 11 maggio n. 2005/29/CE).
In ogni caso, in mancanza di elementi sistematici certi, è arbitrano ritenere che il legislatore, sopprimendo l’inciso «salvo che il fatto costituisca reato», abbia voluto eliminare la riserva con riferimento non a tutte le tipologie di reato, ma solo alle contravvenzioni; tanto più che all’eliminazione di quell’inciso si accompagna anche la soppressione dell’espressione «senza averne prima accertata la legittima provenienza», che consentiva, per questa parte, la sovrapposizione della fattispecie dell’illecito amministrativo a quella dell’incauto acquisto.
D’altro canto, la preoccupazione espressa nella memoria delle parti civili che la depenalizzazione del comportamento dell’acquirente privato consumatore finale «comporterebbe la corsa ad iscriversi a tale categoria», è osservazione di mero fatto che non può incidere nel raffronto tra fattispecie astratte; si tratta di un aspetto che attiene al campo probatorio e riguarda la corretta e prudente valutazione del giudice di merito, il quale terrà conto che il legislatore, facendo riferimento all’acquirente finale, non ha inteso semplicemente contrapporlo all’acquirente “professionale”, posto che la stessa norma del comma 7, dell’art. 1, d.l. n. 35 del 2005 e successive modifiche, distingue quella figura soggettiva non solo dall’operatore commerciale e dall’importatore, ma anche «da qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale»; pertanto, quest’ultimo deve intendersi colui che non partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad un acquisto ad uso personale.
7. Come si è detto, la soluzione interpretativa che attribuisce carattere di specialità all’illecito amministrativo in esame si fonda sulla progressione modificativa del testo originario della norma dell’art. 1, comma 7, legge n. 35 del 2005, che trova la sua sistemazione finale con la legge n. 99 del 2009, entrata in vigore il 15 agosto 2009, così che si comprende come l’interpretazione offerta dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 47164 del 20 dicembre 2005 (v. retro par. 2) resta superata proprio dalle citate modifiche. Del resto, la previsione di un semplice illecito amministrativo per gli acquirenti finali di prodotti contraffatti rende la normativa in esame congruente con quella relativa all’acquisto di supporti audiovisivi, fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, in relazione ai quali la suddetta sentenza delle Sezioni Unite ha ritenuto che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 9 aprile 2003, n. 68, si configuri una fattispecie penalmente rilevante a carico di coloro che effettuino l’acquisto a fine di commercializzazione, «configurandosi l’illecito amministrativo previsto dall’art. 174-ter legge n. 633 del 1941 soltanto quando l’acquisto o la ricezione siano destinati a uso esclusivamente personale». La sostituzione, nel comma 7 dell’art. 1 d.l. n. 35 del 2005, della parola “intellettuale” con quella “industriale” evidenzia il chiaro intento del legislatore di attuare proprio un parallelismo sanzionatolo tra le ipotesi di acquisto per uso personale di prodotti “provenienti” dalle violazioni dei diritti di esclusiva intellettuale e quelle di acquisto di prodotti “provenienti” dalla violazione dei diritti di proprietà industriale.
La interpretazione offerta nella suddetta sentenza, invece, mantiene la sua validità per quanto concerne l’illecito amministrativo previsto nei confronti di soggetti diversi dagli acquirenti finali. Infatti, il legislatore non a caso per questi soggetti ha mantenuto fa clausola «salvo che i! fatto costituisca reato», sicché la nuova norma risulterebbe inapplicabile, ove non avesse un ambito di applicazione distinto da quello proprio delle fattispecie previste dal codice penale, nel senso che solo l’acquisto di cose di provenienza «altrimenti illecita», ovvero non provenienti da reato, configura l’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7, d.l. n. 35 del 2005 a carico di coloro che non sono acquirenti finali.
8. Stabilito che il complesso normativo che regola nella legislazione nazionale la materia in esame configura come illecito amministrativo la condotta dell’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, la parte civile ha posto il problema di una interpretazione del diritto nazionale conforme alla normativa comunitaria, quale si desume, in particolare, dalla direttiva n. 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, oppure di un rinvio alla Corte di giustizia U.E. per la interpretazione della normativa comunitaria in materia, oppure, in via ulteriormente subordinata, di una rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della normativa in esame con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost.
La citata direttiva, dopo avere precisato all’art. 1 che il termine «diritti di proprietà intellettuale» include i diritti di proprietà industriale, definisce all’art. 3 il suo obiettivo, che è quello di individuare «le misure, le procedure e i mezzi di ricorso» che siano «effettivi, proporzionati e dissuasivi», ravvicinando le legislazioni nazionali al fine – come si precisa nel preambolo della stessa direttiva – «di assicurare un livello elevato, equivalente ed omogeneo di protezione della proprietà intellettuale nel mercato interno». Secondo la tesi sostenuta dalla parte civile, ciò comporterebbe l’utilizzo di sanzioni penali costituendo esse un mezzo adeguato per il raggiungimento dello scopo. Nel citato preambolo, in effetti, si legge: «anche le sanzioni penali costituiscono, nei casi appropriati, un mezzo per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale».
9. La questione in tal modo sottoposta all’attenzione di questa Corte comporta, preliminarmente, ancora prima di stabilire se essa sia fondata e rilevante, l’esame di una problematica più ampia: se sia consentito un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia U.E. perché chiarisca se la normativa comunitaria imponga nella fattispecie considerata l’applicazione di sanzioni penali ovvero alla Corte costituzionale perché stabilisca se la normativa nazionale che prevede nei casi esaminati la configurabilità di un illecito amministrativo in luogo di quello penale sia in contrasto con la normativa comunitaria, quale parametro di costituzionalità alla luce degli artt. 11 e 117 Cost.
10. La Corte di giustizia U.E. ha chiarito, con costante giurisprudenza (da ultimo, contenente anche richiami ai precedenti, 5 luglio 2007, causa C-321/05 Kofoed) che il principio della certezza del diritto osta a che le direttive possano, di per se stesse, creare obblighi in capo ai singoli; esse non possono quindi essere fatte valere in quanto tali contro i singoli dallo Stato membro, il quale ha la scelta della forma e dei mezzi di attuazione delle direttive che meglio permettono di garantire il risultato a cui mirano. Peraltro, tutte le autorità di uno Stato membro, quando applicano il diritto nazionale, sono tenute ad interpretarlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo delle direttive comunitarie, ma «tale obbligo di interpretazione conforme non può giungere sino al punto che una direttiva, di per se stessa e indipendentemente da una legge nazionale di trasposizione, crei obblighi per i singoli ovvero determini o aggravi la responsabilità penale di coloro che trasgrediscono le sue disposizioni» (in tali termini, sentenza sopra citata). Si tratta di un limite che deriva dai principi generali del diritto, quello della legalità della pena e quello connesso di applicazione retroattiva della pena più mite, che fanno parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, quindi, fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario (Corte df giustizia, Grande Sezione, 3 maggio 2005, Berlusconi e altri, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02; 16 giugno 2005, Pupino, causa C-105/03). Principi del resto, sanciti anche dall’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (da ultimo, Corte EDU, Grande Camera, 17/09/2009, Scoppola e. Italia); dall’art. 15, n. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici; nonché dall’art. 49, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea .
Tali principi, pertanto, acquistano particolare rilevanza allorché si intenda far valere una norma comunitaria contenuta in una direttiva nell’ambito di procedimenti penali. Infatti, nel caso in cui i giudici del rinvio, sulla base delle soluzioni loro fornite dalla Corte di giustizia, dovessero giungere alla conclusione che le norme nazionali non soddisfano gli obblighi comunitari, ne deriverebbe che gli stessi giudici del rinvio sarebbero tenuti a disapplicare, di loro iniziativa, tali norme, senza che ne debbano chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimento costituzionale. E appunto ciò che è avvenuto:
– con riferimento alle condotte illecite di cui all’art. 171-ter lett. d) e all’art. 171-bis, comma primo, legge n. 633 dei 1941, riguardanti rispettivamente i supporti audio e video e i programmi per elaboratore privi di contrassegno Siae, per l’inopponibilità nei confronti dei privati dell’obbligo di apposizione del contrassegno Siae, in relazione alle quali i soggetti agenti sono stati assolti con la formula “il fatto non sussiste”, quale effetto delia mancata comunicazione alla Commissione dell’Unione Europea di tale “regola tecnica” in adempimento della direttiva europea 83/189/CE, come interpretata dalia sentenza della Corte ài giustizia 8 novembre 2007, Schwibbert (da ultimo, tra le tante, Sez. 3, n. 1073 del 19/11/2009, dep. 2010, Ramonda, Rv. 245758);
– con riferimento al reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine di
allontanamento di cui dell’art. 14, comma 5-ter, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286,
disapplicato, per non essere il fatto più previsto dalla legge come reato a seguito
della sentenza della Corte di giustizia 28 aprile 2011, El Didri (Sez, 5, n. 26027
dei 08/06/2011, Marouani, Rv, 250938; Sez. 1, n. 18586 del 29/04/2011,
Sterian, Rv. 250233; Sez. 1, n. 22105 del 28/04/2011, Thourghi, Rv. 249732).
Quelli sopra citati sono all’evidenza casi in cui l’interpretazione del diritto comunitario da parte della Corte di giustizia ha comportato una sostanziale abolitio crìminis, cioè un effetto penalmente favorevole nei confronti dei destinatari della norma. Ben diverso è il caso in cui si pretenda dalla Corte di giustizia un’interpretazione con conseguenze penali sfavorevoli per i singoli destinatari dei precetti comunitari.
La Corte di giustizia riconosce che «sarebbe difficile per l’Unione adempiere efficacemente alla sua missione se il principio di leale cooperazione, che implica in particolare che gli Stati membri adottino tutte le misure generali o particolari in grado di garantire l’esecuzione dei loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, non si imponesse anche nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale», e che, pertanto, applicando il diritto nazionale, il giudice, chiamato ad interpretare quest’ultimo, è tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della normativa comunitaria, ma tale obbligo di interpretazione “conforme” «trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività. Questi principi ostano in particolare a che il detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione-quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni» (sent. Pupino, cit.). La conseguenza è che un eventuale rinvio pregiudiziale non potrebbe avere come conseguenza che una sostanziale decisione di non liquet da parte della Corte di giustizia, in quanto una normativa comunitaria «non può essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti degli Imputati nell’ambito di procedimenti penali, poiché una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati» (è questo il dispositivo della citata sentenza Berlusconi e altri, pronunciata con riferimento ad un caso in cui si chiedeva alla Corte di giustizia di verificare la compatibilità con il diritto comunitario delle nuove norme di cui agli artt. 2621 e 2622 cod. civ., verifica che avrebbe potuto comportare l’effetto di escludere l’applicazione del regime sanzionatorio più mite previsto dai detti articoli).
In definitiva, non è possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con fa normativa comunitaria, sulla base del principio di preminenza del diritto comunitario, possano conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato. La mancata previsione come fattispecie di reato di comportamenti che ai sensi della normativa comunitaria si sarebbero dovuti considerare come penalmente illeciti, potrebbe, al più, costituire un inadempimento del legislatore nazionale rispetto ad obblighi di fonte comunitaria, ma non consente che i cittadini dello Stato inadempiente siano perseguiti penalmente per fatti considerati illeciti ai sensi della normativa comunitaria, ma non punibili o non più punibili ai sensi di quella interna.
Questa Corte, adeguandosi a tali principi, ha ritenuto, anche a Sezioni Unite, di escludere la possibilità di un rinvio pregiudiziale, quando, appunto, tale rinvio fosse stato chiesto per legittimare un’interpretazione in malam partem della norma penale interna (Sez. 5, n. 38967 dell’11/10/2005, Galliani, Rv. 232571, con riferimento all’art. 2621 cod. civ.; Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244191, che ha escluso che la disciplina in tema di confisca contenuta nella decisione-quadro del Consiglio U.E. 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 possa essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter, comma primo, cod. pen. anche al profitto del reato).
Analogamente non è percorribile la strada della questione di legittimità costituzionale, Infatti, la Corte costituzionale ha più volte chiarito che il principio della riserva di legge (art. 25 Cost.) preclude l’adozione di pronunce con effetto in malam partem, allorché tale effetto discenda dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti, ovvero dal ripristino di una norma abrogata, essendo tali operazioni riservate alla discrezionalità del legislatore, non potendo la Corte costituzionale, senza esorbitare dai suoi compiti, invadere il campo ad esso riservato dall’art. 25, comma secondo, Cost., sovrapponendo alla scelta dallo stesso effettuata una diversa strategia di criminalizzazione (tra le tante: sentenze n. 161 del 2004 e n. 57 del 2009).
In definitiva, l’utilizzo della normativa sovranazionale va escluso allorquando «gli esiti di una esegesi siffatta si traducano in una interpretazione in malam partem della fattispecie penale nazionale» (Sez, U, n. 38691 del 2009, cit.).
Per completezza argomentativa, con riferimento all’obbligo del giudice nazionale di interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme, deve osservarsi, in primo luogo, che la citata direttiva comunitaria 2004/48/CE nel preambolo chiarisce che essa non si propone di stabilire «norme armonizzate», ma solo di “ravvicinare” le legislazioni nazionali al fine di assicurare un livello elevato, equivalente ed omogeneo di protezione della proprietà intellettuale nel mercato interno; in secondo luogo, che la stessa direttiva, pur prevedendo sempre nel preambolo che «anche le sanzioni penali costituiscono, nei casi appropriati un mezzo per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale», nell’articolato definisce analiticamente le misure, le procedure e i mezzi di ricorso di natura civile e amministrativa che gli Stati membri devono adottare e solo in via residuale e aggiuntiva stabilisce all’art. 16 che gli Stati membri “possono” applicare altre “appropriate” sanzioni nei casi in cui il diritto di proprietà intellettuale sia stato violato. È evidente la volontà del legislatore comunitario di lasciare in questo campo libertà di scelta ai singoli Stati in materia di politiche criminali.
Per quanto concerne il concetto di “appropriatezza” non può non rilevarsi, al fine di sottolineare la non sindacabilità in termini di irragionevolezza delle scelte di politica criminale del legislatore, da un lato, che, nel caso di specie, l’imputato è stato condannato, con sanzione sostitutiva, alla pena di euro 2.480 di multa interamente condonata, a fronte dì un illecito amministrativo che prevede una sanzione pecuniaria fino a 7.000 euro, dall’altro lato, che il legislatore ha previsto la confisca amministrativa delle cose che violano le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale, con la conseguente possibilità di procedere a sequestro cautelare ai sensi dell’art. 13, comma 2, legge 24 novembre 1981, n. 689. Ma soprattutto la legge dispone che alla confisca si proceda «in ogni caso»; ciò significa che la confisca deve essere disposta a prescindere da qualsiasi accertamento di responsabilità. Infatti, le cose suddette devono considerarsi “intrinsecamente” illecite, alla stregua di quelle di cui all’art. 240, comma secondo, n. 1, cod. pen,, e di esse non può consentirsi la circolazione sotto qualsiasi forma, anche ad uso personale, a tutela non solo delle imprese che hanno interesse a mantenere certa fa funzione di marchi e segni distintivi, ma anche, più in generale, della pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano i prodotti industriali e ne garantiscono la corretta circolazione.
A completamento del quadro sanzionatorio amministrativo deve anche rilevarsi che, ai sensi del comma 8 d.l. n. 35 del 2005, le somme derivanti dall’applicazione delle sanzioni di cui al precedente comma 7 sono versate al bilancio dello Stato per essere riassegnate ad appositi capitoli da destinare alla lotta alla contraffazione.
In definitiva, deve formularsi il seguente principio di diritto: «Non può configurarsi una responsabiiita penaie per l’acquirente tinaie di cose in relazione alle qua il siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriate».
In applicazione di tale principio, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Non deve essere disposta la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa per l’applicazione delle sanzioni per l’illecito depenalizzato, poiché la depenalizzazione è successiva alla data di commissione del fatto.
Deve essere disposta la confisca dell’orologio in sequestro.
La formula di assoluzione non consente di adottare provvedimenti relativi alla parte civile.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Dispone la confisca dell’orologio sequestrato. Così deciso il 19/01/2012.