Assunzioni obbligatorie. Le assenze per lo stato di invalidità non vanno incluse nel periodo di comporto – Cassazione Lavoro, Sentenza 17720/2011
Alla stregua dell’art. 10, primo comma, della legge n. 482 del 1968 (sulla disciplina generale delle assunzioni obbligatorie), il quale stabilisce l’applicabilità agli assunti in quota obbligatoria del normale trattamento economico e giuridico, è da escludere la detraibilità dal periodo di comporto delle assenze determinate da malattia ricollegabile allo stato di invalidità (Cass. 20 marzo 1990, n. 2302; Cass. 16 aprile 1986, n. 2697); tuttavia, nell’ipotesi di rapporto di lavoro con invalido assunto obbligatoriamente ai sensi della legge 12 aprile 1968 n. 482, le assenze dovute a malattie collegate con lo stato di invalidità non possono essere computate nel periodo di comporto, ai fini del diritto alla conservazione del posto di lavoro ex art. 2110 cod. civ., se l’invalido sia stato destinato a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche (in violazione dell’art. 20 della legge n. 482 del 1968), derivando in tal caso l’impossibilità della prestazione dalla violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di tutelare l’integrità fisica del lavoratore (Cass. 15 dicembre 1994, n. 10769; Cass. 23 aprile 2004, n. 7730).
Inoltre, al fine di accertare l’obiettiva incompatibilità fra le malattie che determinano le assenze dal lavoro e la condizione di invalidità del dipendente assunto obbligatoriamente, non si può non prendere in considerazione il principio dell’equivalenza causale di cui all’art. 41 cod. pen. che trova, come noto, applicazione anche nel settore degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali e, comunque, rispetto agli obblighi di tutela ex art. 2087 cod. civ., imponendo di riconoscere un ruolo di concausa anche ad elementi che, in ipotesi, possano avere una influenza causale minima (vedi, per tutte: Cass. 23 dicembre 2003, n. 19682; Cass. 30 dicembre 2009, n. 27845)
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Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 17720 del 29/08/2011
Svolgimento del processo
1.- La sentenza attualmente impugnata respinge l’appello di [OMISSIS] contro la sentenza del Tribunale di Cremona n. 283/04, di rigetto della domanda della [OMISSIS] diretta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatole, con lettera del 31 maggio 2001, dalla [OMISSIS] di [OMISSIS] e C. s.n.c. per superamento del periodo di comporto per malattia.
La Corte d’appello di Brescia, in primo luogo, precisa di non ritenere necessario rinnovare la c.t.u. perché, pur essendo alcune delle affermazioni di diritto ivi contenute non conformi ai principi che si applicano in materia, la parte medico-legale dell’elaborato – che è quella di specifica competenza del medico incaricato – consente di stabilire se in relazione alla prestazione lavorativa svolta in concreto dalla [OMISSIS] che, dalle risultanze processuali, è emerso sia stata in parte difforme e più gravosa rispetto al mansionario prodotto dalla datrice di lavoro – si possa sostenere che le malattie che hanno causato prolungate assenze della lavoratrice siano o meno riconducibili all’inadempimento dell’obbligo di tutela della salute dei propri dipendenti posto a carico del datore di lavoro.
Per effettuare tale valutazione si deve considerare che, in base alla giurisprudenza di legittimità, nella ipotesi – come quella attuale – di rapporto di lavoro con invalidi assunti obbligatoriamente, le assenze per malattie collegate con Io stato di invalidità non possono essere incluse nel periodo di comporto, ai fini dell’art. 2110 cod. civ., se l’invalido viene adibito, in violazione di legge a mansioni incompatibili con le proprie condizioni di salute.
In tal caso, infatti, l’impossibilità della prestazione lavorativa deriva dalla violazione dell’obbligo del datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica del dipendente, il quale però ha l’onere di provare gli elementi oggettivi della fattispecie – su cui si fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro – dimostrando, quindi, l’inadempimento datoriale, il nesso di causalità tra l’inadempimento stesso, il danno alla salute subito e le assenze dal lavoro, che ne conseguono.
Nella specie, dalle risultanze probatorie e, in particolare dalla c.t.u. di primo grado, si desume che:
a) alla [OMISSIS] è stato riconosciuto, in data 23 marzo 1993, un grado di invalidità pari all’80% (per molteplici infermità) e che il 12 gennaio 1998 la [OMISSIS] è stata assunta, ai sensi della legge n. 2 aprile 1968, 482, dalla società [OMISSIS], con adibizione, per circa un terzo dell’anno, al confezionamento delle uova pasquali e per i restanti mesi al confezionamento di piccoli oggetti natalizi di cioccolata;
b) è pacifico che l’attività di sollevamento carichi svolta dalla lavoratrice venisse effettuata in posizione eretta mantenuta per lungo tempo, con l’ausilio di entrambi gli arti superiori e modesta movimentazione manuale;
c) conseguentemente, può concordarsi con il c.t.u. circa il mancato coinvolgimento diretto nell’espletamento dell’attività lavorativa della [OMISSIS] degli apparati funzionali interessati dalle patologie che hanno determinato il riconoscimento dell’invalidità e la conseguente assunzione obbligatoria, salvo che in misura minima con riguardo alla spondiloartrosi a carico del rachide;
d) d’altra parte il prolungamento della posizione eretta non è, di per sé, fonte di uno stato di patologia, se non quando la posizione sia “scorretta”;
e) può anche concordarsi con la conclusione del c.t.u. secondo cui le prolungate assenze dal lavoro per le due principali patologie sofferte dalla [OMISSIS] due interventi chirurgici per patologia del tunnel carpale (prima sinistro e poi destro) e a due interventi chirurgici per ernia discale lombare – non erano riconducibili al quadro clinico accertato al momento del riconoscimento dell’invalidità;
f) infatti la patologia del tunnel carpale risulta documentata in certificati medici solo nell’anno 2000 e la patologia discale comincia ad essere presente nella documentazione medica a partire dal 1998;
g) inoltre, appare condivisibile la tesi del c.tu. secondo la quale l’insorgenza della patologia discale è stata favorita principalmente dal notevole peso corporeo della lavoratrice, senza che possano avere avuto influenza la movimentazione dei carichi seppure con le più onerose modalità descritte dai testimoni e, in particolare, la prolungata stazione eretta.
Conseguentemente, la Corte d’appello esclude che tali ultime patologie possano avere rilievo ai fini del periodo di comporto, il quale quindi risulta ampiamente superato perché le patologie stesse non sono ascrivibili alla gravosità delle mansioni svolte e quindi alla responsabilità del datore di lavoro. Peraltro, sempre concordando con quanto sostenuto dal c.t.u., la Corte d’appello afferma che l’eventuale sopravvenuta incompatibilità delle mansioni rispetto all’aggravamento delle condizioni di salute della lavoratrice non potrebbe mai far sorgere una responsabilità colposa del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., data l’accertata assenza di una richiesta in tal senso da parte della lavoratrice stessa. D’altra parte, la Corte d’appello considera tardiva – perché non formulata in precedenza – la domanda di risarcimento del danno derivante da licenziamento incolpevole e precisa anche che, pur se si volesse prescindere dalla rilevata tardività, la domanda non potrebbe comunque essere accolta nella specie, in quanto il licenziamento della [OMISSIS] non è risultato giudizialmente illegittimo, dal momento che il c.t.u. ha escluso che le patologie che hanno determinato i periodi di assenza più lunghi avessero causa nelle mansioni affidate alla [OMISSIS]
2.- Il ricorso di [OMISSIS] domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, la [OMISSIS] e C. s.n.c., che ha depositato anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
I – Sintesi dei motivi del ricorso
1.- Con il primo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia – in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 10, commi 2 e 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68. Si osserva che, già in appello, la ricorrente ha rilevato che il c.t.u. ha svolto il proprio accertamento senza rispettare né il quesito che gli era stato posto dal Giudice né la legge n. 68 del 1999. Egli, infatti, non solo nella relazione ha più volte espresso suoi particolari convincimenti giuridici, ma soprattutto – al fine di stabilire se le mansioni affidate alla [OMISSIS] nel corso del rapporto fossero compatibili con “la condizione invalidante della ricorrente” (come gli era stato richiesto) – si è limitato a valutare tale condizione facendo esclusivo riferimento alla situazione esistente all’atto dell’assunzione e del verbale di invalidità (1993), arrivando così ad esprimere un giudizio di compatibilità rispetto alle mansioni svolte al momento del licenziamento (31 maggio 2001), pur dopo avere dato atto che tutte le assenze contestate erano dovute a malattie sopravvenute (regolarmente documentate) che avevano notevolmente aggravato lo stato di salute della ricorrente e che riguardavano elementi funzionali direttamente coinvolti nell’espletamento delle mansioni affidate alla lavoratrice stessa. Di tali malattie sopravvenute il c.t.u. però ha ritenuto espressamente di non dovere tenere conto perché, a suo avviso, quelle che rilevavano erano solo le condizioni patologiche che avevano determinato il riconoscimento dell’invalidità e la conseguente assunzione ope legis. Ciò si pone in aperto contrasto con la normativa posta a tutela della salute dei lavoratori e, in particolare, dei disabili. E’ noto, infatti, che così come, in linea generale, in base all’art. 2087 cod. civ., il lavoratore è tutelato nello svolgimento del rapporto, analogamente il disabile, in base alla L. 68/1999 è tutelato non solo al momento dell’assunzione, ma anche nel corso del rapporto, in particolare con riferimento all’obbligo di adibizione a mansioni compatibili con lo stato di disabilità (art. 10, commi 2 e 3, della legge n. 68 del 1999 cit). Nella sentenza impugnata vengono ripetute pedissequamente le conclusioni del c.t.u. senza fornire alcuna motivazione al riguardo e conseguentemente viene, implicitamente, condivisa l’erronea premessa sulla quale il c.t.u. ha basato il proprio accertamento.
2- Con il secondo motivo, illustrato da quesito di diritto, si denuncia – in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ. e dell’art. 10, comma 2, della legge n. 68 del 1999. Si contesta l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui non potrebbe sussistere alcuna responsabilità colposa del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. se questi non sia stato informato dall’interessato della sopravvenuta incompatibilità delle mansioni affidate al disabile a causa dell’aggravamento dello stato di salute del lavoratore verificatosi nel corso del rapporto. In particolare si sottolinea che, dopo una prima verifica di compatibilità disposta dalla datrice di lavoro a distanza di pochi mesi dall’assunzione, la [OMISSIS] non ha più proceduto ad effettuare verifiche analoghe, cui era invece obbligatoriamente tenuta a fronte del susseguirsi di frequenti assenze per la malattia della lavoratrice.
3.- Con il terzo motivo, illustrato da quesito di diritto, si denuncia – in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Si sostiene che, anche se alla [OMISSIS] non fosse stato ritenuto addebitabile l’aggravamento delle condizioni di salute della [OMISSIS] o se si fosse ritenuto insussistente l’obbligo a carico della datrice di lavoro di accertamento della sopravvenuta incompatibilità delle mansioni, ugualmente il licenziamento della ricorrente avrebbe dovuto essere dichiarato illegittimo e inefficace ed avrebbe dovuto essere disposta la reintegrazione della lavoratrice, sia pure con una limitazione dell’entità del risarcimento, in conformità con un orientamento della giurisprudenza di legittimità. La Corte d’appello, tuttavia, ha ritenuto che tale assunto difensivo fosse tardivo perché non avanzato in primo grado senza considerare che, invece, si trattava di un argomento difensivo conseguente all’imprevisto esito del giudizio di primo grado. La Corte bresciana ha, comunque, ritenuto che, nella specie, la questione non si poneva, data la legittimità del licenziamento. Tale affermazione deve considerarsi erronea visto che, per effetto del suddetto orientamento, sarebbe stato possibile scomputare le assenze per le malattie che hanno determinato l’aggravamento, mentre tale soluzione è stata esclusa sul presupposto della mancanza di colpa del datore di lavoro.
4- Con il quarto motivo si denuncia – in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. – omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Si rileva che la Corte d’appello, senza alcuna motivazione, non ha esaminato il motivo di appello con il quale sono state chieste la dichiarazione di nullità della c.t.u. di primo grado e la rinnovazione della consulenza stessa. Al riguardo era stato fatto presente che la relazione del c.t.u.: a) si basava su un presupposto sbagliato e ultroneo rispetto al quesito con riguardo alla valutazione del quadro clinico rilevante per l’accertamento di compatibilità delle mansioni (che, come si è detto, restringeva temporalmente al momento dell’assunzione, risalente ad otto anni prima del licenziamento); b) ometteva di dare conto del fatto che la prova testimoniale aveva consentito di accertare che era veritiera la descrizione delle modalità di svolgimento delle mansioni effettuata dalla [OMISSIS] sicché ne era risultata smentita la diversa descrizione offerta dalla datrice di lavoro; e) si riferiva alle mansioni, come descritte dalla datrice di lavoro, ancorché smentite dalle risultanze processuali, come riconosciuto dalla stessa Corte d’appello. Ciò ha falsato il giudizio della Corte bresciana sulla compatibilità delle mansioni, decisivo per la presente controversia.
II – Esame dei motivi del ricorso
5.- I quattro motivi del ricorso – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – sono fondati.
II-a – Premessa
6.- Come di recente affermato da questa Corte, l’inserimento nel mondo del lavoro delle persone disabili (nel settore pubblico, così come in quello privato) – la cui normativa nazionale, già per effetto del passaggio dalla legge 2 aprile 1968, n. 482 alla legge n. 68 del 1999, ha avuto un importante “salto di qualità”, nel senso di dare migliore attuazione agli artt. 2, 3 e 38, terzo comma, Cost. – ha assunto oggi un ruolo ancora più importante grazie all’art. 26 della carta_dei_diritti_fondamentali_dell’Unione_Europea (cui, com’è noto, l’art. 6 del Trattato di Lisbona ha attribuito il valore giuridico dei trattati) – secondo cui «l’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantire l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità» – nonché all’art. 27 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 (ratificata e resa esecutiva dall’Italia con la legge_18_2009) – che riconosce il diritto al lavoro delle persone con disabilità, da garantire con “appropriate iniziative” volte a favorirne l’assunzione nel settore pubblico ovvero l’impiego nel settore privato – al quale la Corte costituzionale, nella sentenza n. 80 del 2010, ha attribuito valore cogente nel nostro ordinamento (Cass. 6 aprile 2011, n. 7889).
II-b – La vicenda che ha dato origine al giudizio di cui si tratta
1- In questa cornice si inquadra anche la vicenda che ha dato origine al presente giudizio, iniziata il 19 gennaio 1998, con l’assunzione obbligatoria (ai sensi della legge n. 482 del 1968) della [OMISSIS]- riconosciuta invalida civile nel 1993, con riduzione della capacità lavorativa dell’80% – da parte dalla società [OMISSIS] e conclusasi con la lettera del 31 maggio 2001, con la quale la società ha intimato alla lavoratrice il licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia. Avverso il licenziamento la [OMISSIS] ha proposto ricorso al Tribunale di Cremona per sentirne dichiarare l’inefficacia o l’illegittimità, con le conseguenze di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, per errato conteggio delle assenze dovuto alla mancata considerazione: a) della incompatibilità delle mansioni affidatele rispetto alle proprie condizioni di salute; b) del conseguente collegamento delle patologie che avevano determinato le assenze dal lavoro con le mansioni svolte. Il Tribunale di Cremona, previa c.t.u., ha respinto il ricorso, ritenendo tutte le assenze per malattia contestate alla lavoratrice dovevano essere conteggiate perché le relative malattie non erano da collegare alle mansioni svolte dalla lavoratrice. La Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza di primo grado.
II – La motivazione della sentenza attualmente impugnata e le censure della ricorrente
8.- Il perno attorno al quale ruota tutta la motivazione della suddetta sentenza è rappresentato dalla adesione totale (almeno per quel che riguarda la ricostruzione del rapporto tra le malattie che hanno determinato le assenze e le mansioni svolte) alle conclusioni della consulenza tecnica di primo grado, di cui si è ritenuto non fosse necessaria la rinnovazione in appello, pur motivatamente richiesta dalla lavoratrice. D’altra parte, il fulcro delle censure della ricorrente è rappresentato dalla contestazione della impostazione logica della relazione del c.t.u., nonché delle conclusioni cui tale impostazione ha portato prima il consulente tecnico e poi il Giudice del merito, che ad esse ha aderito. 9.- Al riguardo va ricordato che, in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte: 1) la consulenza tecnica d’ufficio – che in genere non è mezzo di prova bensì strumento di valutazione dei fatti già probatoriamente acquisiti – può costituire fonte oggettiva di prova – pur rimanendo un mezzo istruttorio sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso al potere discrezionale del giudice, il cui esercizio incontra il duplice limite del divieto di servirsene per sollevare le parti dall’onere probatorio e dell’obbligo di motivare il rigetto della relativa richiesta (vedi, per tutte: Cass. 8 gennaio 2004, n. 88) – quando si risolva nell’accertamento di situazioni rilevabili solo con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche – come avviene con la consulenza medico-legale – sicché in tal caso il giudice può aderire alle conclusioni del consulente senza essere tenuto a motivare esplicitamente l’adesione, salvo che dette conclusioni formino oggetto di specifiche censure (arg. ex Cass. 19 gennaio 2011, n. 1149); 2) in particolare, qualora il giudice ritenga di aderire al parere del consulente tecnico di ufficio, è tenuto a spiegare in maniera corretta ed esauriente i motivi delle sue conformi conclusioni, nel caso in cui le affermazioni contenute nell’elaborato peritale siano oggetto, nella impostazione difensiva della parte, di critiche precise e circostanziate idonee, se fondate, a condurre a conclusioni diverse da quelle indicate nella consulenza tecnica (Cass. 4 marzo 1983, n. 1628); 3) in tal ultimo caso, non adempie al predetto obbligo di motivazione il giudice che, per confutare le suddette critiche, si limita a generiche affermazioni di adesione al parere del consulente (Cass. 23 giugno 1995, n. 7150; Cass. 24 novembre 1997, n. 11711; Cass. 22 febbraio 2000, n. 1975; Cass. 1 marzo 2007, n. 4797; Cass. 24 aprile 2008, a 10688); 4) comunque, le valutazioni espresse dal consulente tecnico d’ufficio non hanno efficacia vincolante per il giudice ed egli può legittimamente disattenderle, purché lo faccia attraverso una valutazione critica che sia ancorata alle risultanze processuali e risulti congniamente e logicamente motivata, dovendo il giudice indicare gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici per addivenire alla decisione contrastante con il parere del c.t.u. nonché, trattandosi di una questione meramente tecnica, fornendo adeguata dimostrazione di avere potuto risolvere, sulla base di corretti criteri e di cognizioni proprie, tutti i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione (Cass. 3 marzo 2011, n. 5148; Cass. 30 ottobre 2009, n. 23063); 5) peraltro, il controllo del giudice sulle conclusioni del c.t.u. non può in ogni caso mancare quando si tratti di prendere atto delle premesse del detto ragionamento e di verificarne la congruenza logica perché i vizi del processo logico seguito dal consulente si ripercuotono sulla motivazione della sentenza adesiva, senza specifiche argomentazioni, alle conclusioni stesse, in quanto il giudice deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata su una questione tecnica rilevante per la definizione della causa (Cass. 3 gennaio 2011, n. 72; Cass. . 21 agosto 1982, n. 4696; Cass. 26 novembre 1977, n. 5169); 6) in tale ultimo caso, infatti, gli errori e le lacune della consulenza medico-legale divengono suscettibili di esame in sede di legittimità – ovviamente, soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione della sentenza – perché la relativa prospettazione non si traduce in un mero “dissenso diagnostico”, cioè nella semplice difformità tra la valutazione del consulente circa l’entità e l’incidenza del dato patologico e la valutazione della parte, ma attinge lo stesso processo logico che sorregge – per il tramite della relazione del c.t.u. – la decisione ( arg. ex: Cass. 12 gennaio 2011, n. 569; Cass. 11 gennaio 2011, a 459; Cass. 8 novembre 2010, n. 22707).
10.- Nella specie i suddetti principi sono stati disattesi dalla Corte d’appello di Brescia. Infatti, la domanda originaria della lavoratrice – attraverso il richiamo anche dell’art. 2087 cod. civ. – si incentrava sulla non computabilità nel periodo di comporto delle assenze per malattia contestatele nella lettera di licenziamento perché derivanti da malattie causate dalle mansioni cui era stata adibita, incompatibili con il proprio stato di invalidità. Non veniva, invece, in considerazione la diversa deduzione della non computabilità delle assenze medesime perché conseguenti a malattie riconducibili tout court alla minorazione della [OMISSIS].
Conseguentemente, il fulcro dell’indagine medico-legale doveva considerarsi rappresentato dall’accertamento della correlazione, o meno, tra le mansioni espletate e le conseguenti malattie, sulla base del quadro clinico che ha determinato il riconoscimento dell’invalidità e non, invece, dalla correlazione diretta – cioè senza includere le mansioni svolte – tra le patologie sulla base delle quali è stata riconosciuta l’invalidità e quelle che hanno determinato le assenze rilevanti per il superamento del periodo di comporto. Viceversa dalla lettura della sentenza impugnata risulta che è stato proprio quest’ultimo il campo di indagine della c.t.u. di primo grado e che la Corte bresciana – benché nella parte iniziale della motivazione dia l’impressione di inquadrare dal punto di vista teorico la fattispecie in modo corretto – nel fare applicazione dei richiamati principi al caso sub judice se ne è discostata diametralmente, perché ha recepito in toto le conclusioni del c.t.u. stesso dando luogo a risultati del tutto illogici e inadeguati rispetto all’oggetto del giudizio. Dalla sentenza stessa risulta infatti che, soprattutto per le patologie che hanno determinato le assenze più lunghe (due interventi chirurgici per tunnel carpale, prima sinistro e poi destro, nonché altri due interventi chirurgici per ernia discale lombare) le conclusioni del c.t.u. si sono concentrate sulla evidenziazione della mancata riconducibilità delle patologie stesse a quelle per le quali la lavoratrice è stata riconosciuta invalida (nel 1993, cioè ben cinque anni prima dell’assunzione al lavoro). Da tali conclusioni viene desunta la compatibilità delle mansioni – di addetta alla finitura e inscatolamento di uova o piccoli oggetti di cioccolata, svolte per lungo tempo in piedi – cui era stata adibita la [OMISSIS] nel cui quadro patologico di diabetica erano presenti, fin dal 1993, anche la spondiloartrosi e l’obesità – e le menomazioni della lavoratrice stessa. È invece evidente che le conclusioni non collimano, dal punto di vista logico-giuridico, con l’esclusione di una correlazione tra l’insorgere delle – in ipotesi – “nuove” patologie e i compiti assegnati alla [OMISSIS], tanto più che è nozione di comune esperienza che sia la sindrome del tunnel carpale sia l’ernia discale lombare spesso sono dovute a una combinazione di fattori e che gli studiosi non escludono che i movimenti ripetitivi e forzati della mano e del polso durante il lavoro (presumibilmente necessari per l’espletamento delle mansioni affidate alla [OMISSIS] possano causare la sindrome del tunnel carpale, così come pongono tra i fattori di rischio per l’ernia discale lombare il peso corporeo in eccesso (come causa supplementare di stress sui dischi intervertebrali) e lo svolgimento di attività lavorative comportanti il prolungato stare in piedi nella medesima posizione.
È sintomatico della illogicità della decisione che in essa, a tale ultimo riguardo, si affermi -sulla scorta delle valutazioni del c.t.u. secondo cui, in primo luogo, «il prolungamento di una postura, di per sé, non determina uno stato di patologia se non quando la stessa è “scorretta”, indipendentemente che la persona stia in piedi o seduta» e, in secondo luogo, tra i fattori di rischio dell’ernia discale rientrano «la sedentarietà e le posture scorrette rappresentate soprattutto da quella seduta prolungata con associate vibrazioni (ad esempio autisti)» – che «la prolungata stazione eretta, sulla quale molto si insiste nel ricorso, … ha addirittura evitato l’aggravamento della patologia discale», anch’essa, peraltro, «non presente al momento del riconoscimento dell’invalidità», cioè nel 1993, (in quanto manifestatasi per la prima volta nel 1998), sicché la relativa assenza per malattia (dal gennaio al luglio 2001) «non è riconducibile a patologie per le quali la Sig.ra [OMISSIS] era stata riconosciuta invalida». Orbene, per un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, il giudice nel motivare la decisione adottata su una questione tecnica è tenuto ad avvalersi, ad integrazione degli elementi istruttori e delle proprie cognizioni, anche delle massime d’esperienza (o nozioni di comune esperienza), da intendere come proposizioni di ordine generale tratte dalla reiterata osservazione dei fenomeni naturali o socio-economici, sicché il mancato ricorso, da parte del giudice del merito, a dette massime, in quanto interferente sulla valutazione del fatto, è suscettibile di essere apprezzato sotto il profilo del vizio della motivazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (Cass. 28 ottobre 2010, n. 22022; Cass. 3 gennaio 2011, a 72; Cass. 24 febbraio 2011, n. 4416). 11.- Va aggiunto che la Corte bresciana ha pure fatto un uso improprio della relazione della c.tu. in quanto non solo non ha correttamente valutato, in conformità con i principi fin qui riportati, la parte medico-legale della relazione stessa, ma se ne è anche avvalsa per valutazioni di tipo squisitamente giuridico, inammissibilmente effettuate dal consulente e recepite pedissequamente nella sentenza impugnata. In base ad un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, la consulenza tecnica ha un limite intrinseco consistente nella sua funzionalità alla risoluzione di questioni di fatto presupponenti cognizioni di ordine tecnico e non giuridico, sicché così come i consulenti tecnici non possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica di fatti e la conformità al diritto di comportamenti, analogamente se per ipotesi il consulente effettua, di propria iniziativa, simili valutazioni non se ne deve tenere conto, a meno che esse vengano vagliate criticamente e sottoposte al dibattito processuale delle parti (arg. ex Cass. SU 6 maggio 2008, n. 11037; Cass. 4 febbraio 1999, n. 996). Nella specie sulla scorta della consulenza tecnica – recepita, anche su questo punto, senza alcun vaglio critico – la Corte bresciana ha ritenuto che l’eventuale sopravvenuta incompatibilità delle mansioni rispetto all’aggravamento delle condizioni di salute della lavoratrice non potrebbe mai far sorgere una responsabilità colposa del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., data l’accertata assenza di una richiesta in tal senso da parte della lavoratrice stessa. Tale affermazione appare erronea, non solo per la suindicata questione di “metodo” (derivante dalla sua desunzione dalla relazione del c.t.u.), ma anche nel merito, perché è in contrasto con i seguenti consolidati principi affermati in materia da questa Corte, che il Collegio condivide: a) alla stregua dell’art. 10, primo comma, della legge n. 482 del 1968 (sulla disciplina generale delle assunzioni obbligatorie), il quale stabilisce l’applicabilità agli assunti in quota obbligatoria del normale trattamento economico e giuridico, è da escludere la detraibilità dal periodo di comporto delle assenze determinate da malattia ricollegabile allo stato di invalidità (Cass. 20 marzo 1990, n. 2302; Cass. 16 aprile 1986, n. 2697); b) tuttavia, nell’ipotesi di rapporto di lavoro con invalido assunto obbligatoriamente ai sensi della legge 12 aprile 1968 n. 482, le assenze dovute a malattie collegate con lo stato di invalidità non possono essere computate nel periodo di comporto, ai fini del diritto alla conservazione del posto di lavoro ex art. 2110 cod. civ., se l’invalido sia stato destinato a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche (in violazione dell’art. 20 della legge n. 482 del 1968), derivando in tal caso l’impossibilità della prestazione dalla violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di tutelare l’integrità fisica del lavoratore (Cass. 15 dicembre 1994, n. 10769; Cass. 23 aprile 2004, n. 7730); c) inoltre, al fine di accertare l’obiettiva incompatibilità fra le malattie che determinano le assenze dal lavoro e la condizione di invalidità del dipendente assunto obbligatoriamente, non si può non prendere in considerazione il principio dell’equivalenza causale di cui all’art. 41 cod. pen. che trova, come noto, applicazione anche nel settore degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali e, comunque, rispetto agli obblighi di tutela ex art. 2087 cod. civ., imponendo di riconoscere un ruolo di concausa anche ad elementi che, in ipotesi, possano avere una influenza causale minima (vedi, per tutte: Cass. 23 dicembre 2003, n. 19682; Cass. 30 dicembre 2009, n. 27845); d) conseguentemente, sia le assenze derivanti da malattie aventi un collegamento causale diretto con le mansioni svolte dall’invalido, sia le assenze derivanti da malattie rispetto alle quali le mansioni svolte abbiano solo un ruolo di concausa devono essere escluse da quelle utili per la determinazione del periodo di comporto, tenuto conto sia del diritto del lavoratore – tanto più se invalido – di pretendere, sia, correlativamente, dell’obbligo del datore di lavoro di ricercare una collocazione lavorativa idonea a salvaguardare la salute del dipendente nel rispetto dell’organizzazione aziendale in concreto realizzata dall’imprenditore (arg. ex: Cass. 30 dicembre 2009, n. 27845 cit.); e) in particolare, nel caso di un rapporto di lavoro instaurato con un prestatore invalido, assunto obbligatoriamente a norma della legge 2 aprile 1968 n. 482, il datore di lavoro, che a norma dell’ex art. 2087 cod. civ. deve adottare tutte le misure necessarie per l’adeguata tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, deve in ispecie in osservanza delle disposizioni della detta legge far sì che le mansioni alle quali il lavoratore invalido viene adibito siano compatibili con la sua condizione (Cass. 4 aprile 1989, n. 4626; Cass. 18 aprile 200, n. 5066; Cass. 7 aprile 2011, n. 7946); f) in questo ambito, gli accertamenti sanitari di cui all’art 5 della legge n. 300 del 1970, attengono proprio all’interesse del datore di lavoro di controllare l’idoneità fisica del lavoratore, diversamente dagli accertamenti sanitari previsti dalle norme concernenti particolari istituti della sicurezza sociale, che sono finalizzati a soddisfare l’interesse del lavoratore ad un determinato trattamento previdenziale-assicurativo diretto a soccorrere o ad attenuare lo stato di bisogno conseguente alle menomate condizioni di salute (Cass. 12 dicembre 1997, n. 12578; Cass. 16 febbraio 1990, n. 1167). Tali principi, obliterati dalla Corte bresciana, trovano fondamento nella Costituzione (spec, artt. 3, 32, 38, terzo comma, Cosi) e devono essere oggetto di applicazione ancora più rigorosa in conseguenza dell’evoluzione normativa di origine internazionale e UE che si è avuta in questa materia – cui si è accennato sopra al punto 6 – di cui, quando è stata emanata la sentenza impugnata, erano già presenti i prodromi. Infatti, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (detta anche Carta di Nizza) è stata originariamente pro
clamata a Nizza nel 2000 e, pure prima che le venisse attribuito il valore giuridico dei trattati (col Trattato di Lisbona), ad essa era stato riconosciuto «carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei» (Corte costituzionale, sentenze n. 135 del 2002, n. 393 e n. 394 del 2006) avente quindi, come tale, valore di ausilio interpretativo.
III – Conclusioni
12.- Per le suesposte ragioni il ricorso deve essere accolto, con assorbimento di tutti i profili di censura non espressamente esaminati.
Per l’effetto, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Venezia perché proceda al riesame della controversia – uniformandosi ai suindicati principi di diritto – e provveda, contestualmente, al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione (art. 385, terzo comma, cod. proc. civ.).
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Venezia.
Depositata in Cancelleria il 29 agosto 2011