GiurisprudenzaPenale

Finanziare la società in difficoltà con fondi personali non salva dalla bancarotta – Cassazione Penale, Sentenza n. 32899/2011

Per dissesto deve intendersi, non tanto una condizione di generico disordine dell’attività della società, quanto una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo ed ingravescente, che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d’atto dell’impossibilità di proseguire l’attività, può comportare l’aggravamento inarrestabile della situazione debitoria, con conseguente incremento del danno che l’inevitabile, e non evitata, insolvenza finisce per procurare alla massa dei creditori. In assenza di un serio piano economico di recupero restano irrilevanti le immissioni di fondi personali dei soci, che, in quanto avvenute sotto forma di finanziamento e non di aumento di capitale, hanno ulteriormente aggravato la posizione debitoria della società, divenuta per tale motivo irrecuperabile.

(© Litis.it, 31 Agosto 2011 – Riproduzione riservata)

Cassazione Penale, Sezione Quinta, Sentenza n. 32899 del 26/08/2011

In fatto e in diritto

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza emessa in data 15 aprile 2008 dal locale Tribunale, appellata da M. E. e P. L. G., che li aveva dichiarati responsabili del delitto di bancarotta semplice per aggravamento del dissesto, commesso l’8 aprile 2004, in relazione al fallimento della “N. T. S.r.l.”.

Propongono ricorso per cassazione gli imputati, nonché la parte civile “fallimento N. T.

Gli imputati, con il primo motivo del loro ricorso, deducono violazione di legge in relazione alla ritenuta responsabilità per aver aggravato il dissesto della società essendosi astenuti dal chiederne il fallimento; la Corte territoriale avrebbe male interpretato la nozione di dissesto, che sarebbe stata confusa con il passivo fallimentare.

Poiché dissesto sarebbe il disordine difficilmente sanabile nell’attività della società, ritengono i ricorrenti che una tale situazione non si sarebbe verificata in concreto, in quanto sarebbe stato riconosciuto che la gestione della società era stata del tutto corretta e regolare, anche nella tenuta della scritture contabili; né si sarebbe potuta considerare causa di aggravamento del dissesto la continua immissione di fondi personali da parte dei soci per consentire la prosecuzione dell’attività imprenditoriale. Infatti, a fronte di un’iniziale perdita rilevante, gli imputati avrebbero continuato ad immettere fondi per la fiducia che nutrivano nel progetto imprenditoriale, fallito perché rivelatosi non attuabile nelle concrete condizioni di mercato.

Con il secondo motivo deducono difetto di motivazione sulle modalità con cui si sarebbe verificato il disordine nella società ed il conseguente dissesto. Non avrebbe risposto la Corte territoriale ai rilievi concernenti le garanzie prestate dai ricorrenti ed il loro indebitamento per consentire la prosecuzione della vita della società.

Il ricorso della parte civile deduce difetto di motivazione sulla richiesta, contenuta nell’appello proposto dal fallimento, che la Corte territoriale procedesse alla concreta liquidazione del danno. Come il primo giudice, anche la Corte non avrebbe adeguatamente motivato la sostenuta impossibilità di pervenire in quella sede alla liquidazione del danno che, secondo la p.c. sarebbe individuabile nella differenza fra l’indebitamento nel momento in cui sarebbe stata doverosa la richiesta di fallimento e quello accumulatosi in seguito ed in dipendenza dell’indebita prosecuzione
dell’attività imprenditoriale.

Con un secondo motivo deduce difetto di motivazione in ordine alla mancata concessione di una provvisionale.

Il ricorso degli imputati è infondato.

Osserva il Collegio che per dissesto deve intendersi, non tanto una condizione di generico disordine dell’attività della società, quanto una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo ed ingravescente, che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d’atto dell’impossibilità di proseguire l’attività, può comportare l’aggravamento inarrestabile della situazione debitoria, con conseguente incremento del danno che l’inevitabile, e non evitata, insolvenza finisce per procurare alla massa dei creditori.

Correttamente i giudici del merito hanno evidenziato come fin dall’inizio si fossero manifestati i limiti di redditività dell’attività imprenditoriale dei due imputati con l’accumulo di perdite che avevano eroso l’intero capitale sociale già nel primo anno, ed hanno rilevato con motivazione
adeguata ed esente da vizi logici, come lo squilibrio fosse progressivamente aumentato proprio a causa della caparbia, pervicace, ma altrettanto imprudente prosecuzione dell’attività, in mancanza di un’attenta valutazione delle reali prospettive dell’impresa e di interventi di ricapitalizzazione, irrilevanti essendo state le immissioni di fondi personali dei soci, che, in quanto avvenute sotto forma di finanziamento e non di aumento di capitale, avevano ulteriormente aggravato la posizione debitoria della società, divenuta per tale motivo irrecuperabile.

Inammissibile è poi il ricorso della parte civile.

La decisione sull’impossibilità di addivenire alla liquidazione del danno nell’ambito del processo penale dipende da valutazione ampiamente discrezionale dei giudici del merito e lo stesso ricorrente, nell’ipotizzare l’alternativa fra una liquidazione del danno con riferimento al differenziale
fra gli importi de deficit in due diverse date, e quella di addivenire comunque ad una liquidazione equitativa, rende ragione della correttezza, in relazione alle emergenze processuali, della decisione dei giudici del merito di riservare al giudice civile la precisa quantificazione del danno da risarcire; quanto alla doglianza relativa alla mancata concessione di una provvisionale occorre rilevare che le decisioni in tema di provvisionale, non necessariamente motivate, per la loro natura discrezionale e meramente delibativa, non sono suscettibili di impugnazione in sede di legittimità (per tutte, Sez. 5, sent. n. 40410 del 18/3/2004, Rv. 230105, : Farina ed altri).
Il rigetto del ricorso comporta la condanna di ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, mentre alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso della parte civile consegue, oltre alla condanna al pagamento delle spese del procedimento, anche la condanna al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in €. 1 .000,00.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso degli imputati e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso della parte civile e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di €. 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Depositata in Cancelleria il 26 agosto 2011

 

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