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Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Notifica al legale rappresentante – Corte Costituzionale, Sentenza n. 249/2011

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 43, comma 2, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Salerno

Corte Costituzionale, Sentenza n. 249 del 27/07/2011

Processo penale – Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica -Responsabilità amministrativa da reato – Notificazioni all’ente – Prevista validità delle notificazioni eseguite mediante consegna al legale rappresentante, anche se imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo.

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 43, comma 2, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300), promosso dal Tribunale di Salerno nel procedimento penale a carico di A. R. ed altri, con ordinanza del 20 ottobre 2010, iscritta al n. 31 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 luglio 2011 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Salerno, con ordinanza del 20 ottobre 2010, pervenuta a questa Corte il 1° febbraio 2011 (r.o. n. 31 del 2011), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 43, comma 2, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300) per violazione degli artt. 3, 24, 76, in relazione all’art. 11, comma 1, lettera q), della legge 29 settembre 2000, n. 300 (Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all’articolo K. 3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica), 111 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Il rimettente dà atto che nel giudizio principale si procedeva per varie imputazioni di truffa aggravata ai danni dello Stato per l’ottenimento di finanziamenti pubblici formulate nei confronti di numerose società, i cui rappresentanti erano nella maggior parte dei casi imputati dei medesimi fatti-reato e che il tribunale, alla luce dell’orientamento accolto dalla Corte di cassazione con la sentenza del 19 giugno 2009, n. 41398, aveva invitato le società costituite mediante il legale rappresentante/imputato a eliminare la situazione di incompatibilità in cui versavano ai sensi dell’art. 39 del d. lgs. n. 231 del 2001. Nella successiva udienza si erano costituite in giudizio due società, che avevano sollevato diverse eccezioni, lamentando, tra l’altro, che «i vari avvisi, di conclusione delle indagini o di fissazione dell’udienza preliminare, nonché lo stesso decreto che dispone il giudizio», erano stati notificati ai rispettivi legali rappresentanti, «che erano al contempo imputati nello stesso procedimento e quindi incompatibili, nella prospettazione difensiva, anche rispetto alla ricezione degli atti notificati»; sostenevano quindi le due società costituite di non avere avuto conoscenza del procedimento, se non tardivamente, e di essere state nell’impossibilità di difendersi a partire dalla fase delle indagini preliminari. Il tribunale si era pronunciato sulle eccezioni con un’ordinanza che, secondo il rimettente, non aveva risolto il problema posto dall’art. 43, comma 2, del d. lgs. n. 231 del 2001 di verificare l’effettiva conoscenza del procedimento non solo con riguardo alle due società costituitesi, ma anche in relazione a tutte le altre società rimaste contumaci per le quali la notificazione degli atti (a partire dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari) era sempre avvenuta presso il legale rappresentante/imputato. Di qui la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, sollevata d’ufficio, del citato art. 43, comma 2.

Il rimettente muove dal richiamo all’art. 39, comma 1, del d. lgs. n. 231 del 2001, la cui ratio, così come ricostruita dalla citata sentenza n. 41398 del 2009 della Corte di cassazione, andrebbe individuata nell’esigenza di salvaguardare l’autonomia dell’ente e di evitare l’ingerenza di un terzo nella sua sfera privata, rimettendo all’ente stesso ogni decisione al riguardo, «nel rispetto della stessa struttura e degli organi del soggetto collettivo», che comunque potrà scegliere se designare un nuovo legale rappresentante, se nominarne uno con poteri limitati alla sola costituzione in giudizio oppure se non costituirsi affatto.

Le problematiche derivanti dalla scelta legislativa indicata sorgerebbero proprio in riferimento al caso in cui l’ente rimanga inerte, dal momento che la norma censurata stabilisce che siano comunque valide le notificazioni eseguite mediante consegna al legale rappresentante, anche se imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo; ne discende, secondo il rimettente, che «allorquando la notificazione all’ente, cui è attribuito l’illecito amministrativo, è eseguita a mani del legale rappresentante, che sia al contempo imputato nel procedimento per speculari fattispecie criminose penali a lui ascritte, l’inerzia della società è difficilmente valutabile come libera scelta della stessa, apparendo in tal caso arduo stabilire se la decisione della mancata costituzione in giudizio sia da ascriversi agli organi all’uopo deputati a siffatta valutazione o a un difetto di informazione da parte dell’imputato/legale rappresentante che ebbe a ricevere l’atto e che versa in conflitto di interessi alla stregua del disposto di cui all’art. 39, co. 1, del d.lgs. cit., il quale ricollega l’ipotesi eccettuativa in essa contemplata alla mera posizione di imputato».

Osserva infatti il giudice a quo che a voler ritenere giustificata la soluzione legislativa di rimettere ogni decisione all’ente, occorrerebbe, affinché un valido procedimento valutativo si innesti, un’«utile» notificazione dell’atto, tale da mettere «effettivamente» in condizione l’ente e i suoi organi deliberativi di adottare la decisione del caso; è evidente, soggiunge il rimettente, che «se la notificazione avviene nelle mani dello stesso imputato/legale rappresentante (che ben potrebbe essere, anche in concreto, portatore di interesse contrapposto, laddove l’ente avesse, ad esempio, adottato, e intendesse dimostrarlo in giudizio, misure organizzative idonee a prevenire proprio reati della specie di quello verificatosi – art. 6, comma 1, lett. c) – ovvero intendesse dimostrare in giudizio che il legale rappresentante in realtà ha agito nel suo esclusivo interesse e a vantaggio suo o di terzi e non della società – art. 5, comma 2 – ), la decisione della costituzione in giudizio potrebbe essere compromessa dalla inerzia in mala fede assunta dal legale rappresentante ossia da quella parte non necessariamente coincidente sul piano difensivo-processuale con l’ente». Ad avviso del rimettente, ferma e impregiudicata la libertà di scelta dell’ente, si tratterebbe di assicurare l’effettiva possibilità di estrinsecazione di quella volontà mediante «un sistema di notificazione che prescinda dalla figura del legale rappresentante, affinché (…) la “contumacia, o ancor prima, l’inerzia, siano consapevoli” e non dovute a variabili esterne, difficilmente verificabili. Si tratta allora di garantire la effettiva conoscenza del processo anche all’ente, al quale peraltro ex artt. 34 e 36 del d. lgs. cit. si applicano le disposizioni del codice di procedura penale, comprese quelle relative all’imputato e all’indagato, in quanto compatibili».

Per l’effettività della tutela dell’ente, precisa il ricorrente, il momento conoscitivo dovrebbe retroagire necessariamente alla fase delle indagini preliminari, anch’essa connotata da momenti decisionali importanti; l’effettiva conoscenza del procedimento sarebbe indispensabile affinché le prerogative, le facoltà, i diritti riconosciuti all’imputato e ancor prima all’indagato, siano essi persone fisiche o enti, possano prendere corpo nell’ottica di una concreta difesa, «che per essere tale non può rimanere circoscritta a quella tecnica, – e per di più d’ufficio -, ma deve necessariamente ricomprendere in sé anche quella personale (ne discende che l’assistenza assicurata mediante la designazione di un difensore di ufficio non può in alcun modo esaurire la portata dei diritti di difesa, tra i quali se ne annoverano diversi di natura cd. personalissima, di esclusiva pertinenza del soggetto imputato)».

Il giudice a quo rileva poi che mentre rispetto al conflitto persona offesa/imputato possono trovare applicazione le altre norme in tema di notificazione previste dal codice di procedura penale, nel caso del conflitto ente/rappresentante legale si dovrebbe sempre procedere secondo le norme del codice di procedura civile (cui rinvia l’art. 154, comma 3, cod. proc. pen., richiamato dall’art. 43, comma 1, del d.lgs. n. 231 del 2001), norme queste ultime che delineano un sistema di notificazione comunque incentrato sul legale rappresentante, quale destinatario dell’atto da notificare; si manifesterebbe dunque «la irragionevolezza di un sistema che consente la notificazione al legale rappresentante incompatibile, perché in maniera sistematica e patologica presta il fianco a dubbi di efficacia. In altri termini, laddove, come nel caso di specie, fosse ritenuta, ciò nonostante, possibile la notificazione al soggetto per presunzione assoluta incompatibile, si dovrebbe giungere ad affermare che il controllo in concreto diventa un momento ineliminabile, trattandosi di situazione per sua natura patologica» e ciò con tutte le conseguenze del caso, anche in termini di ragionevole durata del processo.

In base a tali conclusioni, assumerebbe fondamento, secondo il rimettente, la questione di legittimità costituzionale del «meccanismo di notificazione» previsto dalla norma censurata di cui sarebbe palese l’irragionevolezza e la contrarietà rispetto ai principi basilari in materia di giusto processo, ragionevole durata e diritto di difesa di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost. e all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), nonché rispetto alla direttiva dettata dall’art. 11, comma 1, lettera q), della legge n. 300 del 2000, che stabiliva la garanzia della «effettiva partecipazione e difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale». Richiamate alcune pronunce di questa Corte sull’operatività della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009) e l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo sulle garanzie accordate dall’art. 6 della Cedu, il rimettente si sofferma sull’estensibilità della portata della disposizione a settori diversi da quello penale, rilevando che, alla luce del riferimento in essa contenuto all’accusato, dovrebbe essere ricompreso in tale definizione «anche l’ente allorquando sia incolpato di illecito amministrativo, dal momento che, come affermato più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, si versa nella materia penale ogniqualvolta la sanzione, prevista nel singolo ordinamento interno quale conseguenza della violazione di una norma giuridica, rivesta una funzione deterrente e special-preventiva». Analizzando poi la portata del diritto all’informazione garantito dall’art. 6, lettera a), della Cedu, il rimettente sottolinea che nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo «si giunge a parlare di “diritto a difendersi, conoscendo”, tempestivamente, e quindi a “difendersi agendo”, personalmente e mediante l’assistenza di un difensore di fiducia. In siffatta ottica l’informazione sull’accusa e sul procedimento si inserisce a pieno titolo nell’alveo del “giusto processo”, nella misura in cui il principio del contraddittorio non può prescindere dal diritto a difendersi, conoscendo».

Il giudice a quo richiama poi l’art. 111 Cost., che, al primo e al secondo comma, afferma principi relativi a ogni tipo di processo, non solo al processo penale, al quale fa specificamente riferimento il solo terzo comma, il cui dato testuale, peraltro, non costituirebbe un limite interpretativo rispetto all’estensibilità delle garanzie all’ente; in questa prospettiva il principio del contraddittorio vuole che le parti «partecipino in condizioni di parità davanti al giudice terzo», sicché, affinché il contraddittorio possa instaurarsi, «è necessario che le parti siano messe in condizioni di poter prendere parte al processo e di esercitare i loro diritti attraverso un idoneo sistema di informazione». Proprio per garantire un pieno ed effettivo contraddittorio tra la società e il legale rappresentante, il legislatore ha previsto la situazione di incompatibilità di cui all’art. 39 del d. lgs. n. 231 del 2001, stabilendo tuttavia, con la norma censurata e nonostante la direttiva della legge delega sull’effettività della partecipazione dell’ente al giudizio, il principio della validità della notificazione eseguita a mani del legale rappresentante incompatibile. Il sistema di notificazione delineato dalla norma censurata rivelerebbe dubbi intrinseci di efficacia, in considerazione della presunzione assoluta di cui all’art. 39 del d. lgs. n. 231 del 2001, e sembrerebbe rispondere a una «logica efficientistica del legislatore, che non intende rinunciare alla comodità della consegna dell’atto al soggetto normalmente deputato alla ricezione, perché destinatario normale dell’atto, trascurando che nel caso di specie non si versa in ipotesi di normalità, bensì di assoluta criticità». L’opzione legislativa si tradurrebbe in una rinuncia all’effettività della difesa, sia tecnica, che personale, essendo preclusa al legale rappresentante incompatibile anche la nomina del difensore di fiducia, sicché, in caso di inerzia dovuta a ignoranza incolpevole, la società rimarrebbe garantita esclusivamente da una difesa d’ufficio.

Nella prospettazione del giudice a quo, mentre l’art. 39 del d. lgs. n. 231 del 2001 sarebbe insuscettibile di una valutazione di illegittimità costituzionale, essendo riconducibile a una precisa scelta del legislatore di non ingerenza nella vita dell’ente, la norma censurata «non [sarebbe] il frutto di una scelta ragionevole del legislatore, perché espressamente contraria al ragionevole criterio fissato nella legge delega che espressamente richiedeva di assicurare l’effettiva partecipazione dell’ente al processo».

Esclusa la praticabilità di interpretazioni adeguatrici, il rimettente si pone l’interrogativo se la via dell’illegittimità costituzionale sia utilmente percorribile ovvero se essa sia destinata a condurre unicamente all’eliminazione della norma censurata, con la conseguente creazione di una lacuna. Ad avviso del giudice a quo l’integrazione idonea a salvaguardare i principi enunciati potrebbe essere estrapolata dall’art. 78, comma secondo, cod. proc. civ., che disciplina il caso del conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato. Osserva conclusivamente il rimettente che «affinché si possa adottare questa o altra soluzione interpretativa è preliminare la declaratoria di incostituzionalità del disposto di cui all’art. 43, co. 2, che inevitabilmente porterebbe con sé anche la disapplicazione del comma primo che prevede che la notificazione all’ente deve avvenire in base alle norme del codice di procedura civile, il cui ambito operativo dovrebbe rimanere invece circoscritto ai soli casi in cui il legale rappresentante della società non sia anche imputato».

2. – E’ intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità o di infondatezza della questione.

L’Avvocatura dello Stato ritiene insussistenti i profili di illegittimità costituzionale rilevati dal rimettente, in quanto in tema di responsabilità da reato una questione di lesione della sfera di esercizio dei diritti di difesa da parte dell’ente in qualsiasi fase del procedimento sarebbe subordinato alla formale costituzione in giudizio (Cass. pen., Sez. VI, n. 15689 del 5 febbraio 2008), sicché la procedura notificatoria non sarebbe incisa dalla situazione di incompatibilità tra legale rappresentante della società e quest’ultima. La difesa statale evidenzia «l’assoluta connessione tra la posizione soggettiva del legale rappresentante della Società e quella di titolarità dell’Ente sulla base della quale la notificazione di cui trattasi è avvenuta proprio a ragione della qualità rivestita dal rappresentante imputato, la cui attività di informazione nei confronti del soggetto giuridico che rappresenta è certamente presunta, alla stregua di una precisa scelta legislativa che non si presta ad essere utilmente sindacata». Rispetto a tale azione di informativa della pendenza del procedimento penale non sarebbe utilmente prospettabile, secondo l’Avvocatura dello Stato, una questione di possibile lesione del diritto di difesa dell’ente, in quanto la tutela costituzionale riguarderebbe la fase funzionale dell’esercizio di tale diritto, laddove la qualità di rappresentante dell’ente «costituisce il frutto della libera determinazione dell’Ente stesso che conferisce detto “status” al soggetto persona fisica che, evidente, è ritenuta idonea a ricoprire la carica nell’ambito di un rapporto fiduciario, indipendentemente dalla notizia della pendenza del procedimento penale».

Considerato in diritto

1. − Il Tribunale di Salerno ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 43, comma 2, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300), per violazione degli artt. 3, 24, 76, in relazione all’art. 11, comma 1, lettera q), della legge 29 settembre 2000, n. 300, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Il rimettente ritiene la norma censurata affetta da palese irragionevolezza, in quanto configurerebbe un «meccanismo» in forza del quale le notificazioni all’ente sono eseguite mediante consegna al suo legale rappresentante anche quando, essendo questi imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, sussista nei suoi confronti una «presunzione iuris et de iure di incompatibilità».

Dal combinato disposto dei principi costituzionali rinvenibili negli artt. 24 e 111 Cost., si desumerebbe, secondo il giudice a quo, che «il diritto di difesa è innanzitutto diritto di partecipare e di contraddire e tale diritto viene costituzionalmente garantito, nella sua portata minima, a ogni soggetto che sia parte in un procedimento, indipendentemente dalla sua natura penale, civile, amministrativa, e, nella sua massima estensione, nell’ambito del processo penale e più in generale in quei processi in cui vi è un incolpato»; in forza del principio del contraddittorio le parti devono partecipare «in condizioni di parità davanti al giudice terzo», perciò, affinché il contraddittorio stesso possa instaurarsi, è necessario che esse «siano messe in condizioni di poter prendere parte al processo e di esercitare i loro diritti attraverso un idoneo sistema di informazione». Nella prospettiva del rimettente, la situazione di incompatibilità di cui all’art. 39 del d. lgs. n. 231 del 2001 è funzionale a garantire un pieno ed effettivo contraddittorio tra la società e il legale rappresentante: anche il sistema delle notificazioni dovrebbe ispirarsi ai principi del giusto processo e al diritto di difesa, sicché dovrebbero essere garantiti meccanismi di informazione idonei allo scopo, ossia tali da «contemperare l’esigenza di informazione con l’esigenza della celerità, rispetto alle quali eventuali ragioni di mera efficienza amministrativa, fine a sé stessa, sono destinate a rimanere sullo sfondo», non potendo l’esigenza di semplificazione determinare un’illegittima compromissione del diritto di difesa. Prevedendo che la notificazione all’ente si esegua mediante consegna al legale rappresentante, anche qualora questi sia imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo e, pertanto, versi in «conflitto di interessi» a norma dell’art. 39 del d.lgs. n. 231 del 2001, la norma censurata pregiudicherebbe l’effettività del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio dell’ente, anche nella fase delle indagini preliminari, compromettendo altresì il perseguimento della ragionevole durata del processo.

Quanto all’art. 76 Cost., la norma censurata sarebbe in contrasto con la delega di cui all’art. 11, comma 1, lettera q), della legge n. 300 del 2000: secondo il rimettente, mentre l’art. 39 del d. lgs. n. 231 del 2001 sarebbe insuscettibile di una valutazione di illegittimità costituzionale, essendo riconducibile a una precisa scelta del legislatore di non ingerenza nella vita dell’ente, la norma censurata «non è il frutto di una scelta ragionevole del legislatore, perché espressamente contraria al ragionevole criterio fissato nella legge delega che espressamente richiedeva di assicurare l’effettiva partecipazione dell’ente al processo».

Per quanto riguarda infine l’ipotizzata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Cedu, il rimettente, premessa l’estensibilità della norma convenzionale a settori diversi da quello penale, sottolinea che nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo «si giunge a parlare di “diritto a difendersi, conoscendo”, tempestivamente, e quindi a “difendersi agendo”, personalmente e mediante l’assistenza di un difensore di fiducia. In siffatta ottica l’informazione sull’accusa e sul procedimento si inserisce a pieno titolo nell’alveo del “giusto processo”, nella misura in cui il principio del contraddittorio non può prescindere dal diritto a difendersi, conoscendo».

2. – La questione è per più ragioni inammissibile.

3. – Il rimettente muove dall’erroneo presupposto secondo cui le ragioni che determinano l’incompatibilità nel procedimento penale del legale rappresentante imputato del reato contestato all’ente siano automaticamente trasferibili nell’ambito del meccanismo notificatorio e comportino l’inidoneità della notificazione degli atti diretti all’ente, quando sia avvenuta mediante consegna a tale rappresentante. In questo modo vengono però sovrapposte, confondendole, due situazioni diverse, quella relativa alla legittimazione a rappresentare l’ente, costituendosi nel giudizio, e quella relativa all’idoneità a ricevere materialmente in consegna gli atti destinati all’ente.

L’art. 39, comma 1, del d. lgs. n. 231 del 2001 prende atto della possibilità che tra l’ente chiamato a rispondere del reato commesso dal suo rappresentante e questo si verifichi un conflitto di interessi e per questa ragione, anche se si tratta di una mera eventualità, introduce un’incompatibilità processuale, escludendo che le due parti, imputato ed ente, possano essere impersonate nel processo dallo stesso soggetto; in tal modo viene garantita ad entrambe le parti la facoltà di elaborare autonomamente la propria strategia difensiva.

La ratio dell’incompatibilità processuale non si estende però necessariamente alle notificazioni, che sono preordinate a porre l’ente a conoscenza dell’avvio e dello svolgimento del procedimento penale, perché la finalità cognitiva sottesa alla notificazione non è necessariamente pregiudicata dall’eventuale divaricazione degli interessi da far valere nel procedimento. La validità della notificazione al legale rappresentante, anche se imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, muove dalla non irragionevole previsione che questi, nel fedele esercizio del proprio mandato, ponga gli altri organi dell’ente a conoscenza dell’atto notificato e permetta loro di valutare l’opportunità di far costituire l’ente con un diverso rappresentante, eventualmente nominato solo per partecipare al procedimento. L’ipotesi opposta, basandosi sull’infedele condotta del legale rappresentante che si trovi in conflitto di interessi, può certamente verificarsi, ma deve ritenersi eccezionale e patologica.

La norma impugnata non intende, come ritiene il giudice a quo, disconoscere una simile eventualità e precludere il ricorso agli strumenti che l’ordinamento offre al fine di superare il conflitto e di assicurare che l’ente sia messo in condizione di decidere se costituirsi o rimanere contumace. Ove, in presenza di un conflitto di interessi, l’autorità giudiziaria dovesse effettivamente ravvisare l’infedeltà del legale rappresentante e l’inosservanza da parte sua del dovere di informazione dell’ente, un utile strumento, secondo la stessa prospettazione del giudice rimettente, potrebbe essere individuato nella nomina di un curatore speciale, a norma dell’art. 78, secondo comma, cod. proc. civ.; in tale caso però gli atti destinati all’ente andrebbero notificati direttamente al curatore e non sarebbe applicabile l’art. 43, comma 2, del d. lgs. n. 231 del 2001. Questa disposizione infatti non opera sul piano della rappresentanza, che ne costituisce un presupposto, ma su quello della forma della notificazione, da un lato, permettendo l’immediato ricorso alla consegna diretta al legale rappresentante, anziché presso la sede dell’ente, come previsto dall’art. 145, primo comma, cod. proc. civ., e, dall’altro, escludendo che a tali fini sussista la ratio della incompatibilità, su cui si fonda, invece, l’art. 39, comma 1, del d. lgs. n. 231 del 2001.

E’ dunque evidente che il rimettente, muovendo dall’erroneo presupposto interpretativo circa la ratio e la portata normativa delle due disposizioni, trasferisce sul piano della forma della notificazione una questione di sostanza, concernente l’eventuale attivazione degli strumenti previsti dall’ordinamento per rimuovere il contrasto di interessi, ravvisabile nel caso di specie tra ente e legale rappresentante. E’ da aggiungere che questo risultato non potrebbe essere ottenuto rimuovendo solo il secondo comma dell’art. 43 del d. lgs. n. 231 del 2001, in quanto resterebbe applicabile il primo comma dello stesso articolo, per effetto del quale la notificazione dovrebbe essere fatta a norma dell’art. 145 cod. proc. civ. e l’atto sarebbe comunque destinato a pervenire al legale rappresentante in conflitto di interessi con l’ente.

L’erroneità del presupposto interpretativo dal quale prende le mosse la questione di legittimità costituzionale ne comporta l’inammissibilità (sentenza n. 125 del 2009).

4. – La questione è inammissibile anche sotto un altro profilo.

Come si è visto, il dubbio di incostituzionalità manifestato dal Tribunale di Salerno, pur essendo stato prospettato con riferimento al regime delle notificazioni, attiene all’esistenza di un conflitto di interessi tra rappresentante ed ente, tale da far escludere che il primo metta gli altri organi dell’ente in condizione di conoscere la pendenza del procedimento e di deliberare sulla partecipazione allo stesso.

Nel motivare su questo profilo, il rimettente rappresenta la possibilità di superare il conflitto di interessi inserendo, nella fase della notificazione e in via necessaria, un procedimento di nomina di un curatore speciale, ai sensi dell’art. 78, secondo comma, cod. proc. civ. e, dopo aver ricordato che «anche nell’ambito della procedura penale sussistono casi in cui, in presenza di un conflitto di interessi, si deve procedere alla nomina di un curatore speciale», giunge alla conclusione che «affinché si possa adottare questa o altra soluzione interpretativa è preliminare la declaratoria di incostituzionalità del disposto di cui all’art. 43, co. 2», del d. lgs. n. 231 del 2001.

Nella prospettiva del rimettente il curatore perciò non sarebbe un mero intermediario nel procedimento di notificazione, con la funzione di portare l’atto a conoscenza dell’ente, ma avrebbe il compito di interagire con i suoi organi abilitati a deliberare sulla partecipazione al procedimento, sicché la sua nomina e la sua funzione non si inserirebbero nel procedimento di notificazione ma ne sarebbero un presupposto, nel senso che avrebbero la funzione di individuare un diverso destinatario dell’atto da notificare. Se però, come prospetta il giudice rimettente, si dovesse modificare il sistema, in modo da anticipare normativamente l’incompatibilità prevista dal primo comma dell’art. 39 del d. lgs. n. 231 del 2001 al momento della notificazione, sarebbe la regola sulla rappresentanza a dover essere in primo luogo investita dalla questione di legittimità costituzionale e non quella sulla notificazione, che della prima costituisce solo una derivazione.

L’errore nella individuazione della norma impugnata costituisce un’altra ragione di inammissibilità della questione (sentenza n. 325 del 2010; ordinanza n. 120 del 2011).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 43, comma 2, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Salerno con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2011.

F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2011.

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