IVA – Termini per la notifica degli avvisi di rettifica o di accertamento – Corte Costituzionale, Ordinanza n. 247/2011
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) – comma inserito dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 –, e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, in riferimento all’art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), con l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del suddetto combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Corte Costituzionale, Ordinanza n. 247 del 25/07/2011
Imposte e tasse – Imposta sul valore aggiunto (IVA) – Termini per la notifica degli avvisi di rettifica o di accertamento – Raddoppio del termine ordinario in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – Necessità a tal fine che la denuncia avvenga anteriormente allo spirare del termine ordinario – Mancata previsione;
Applicabilità alle sole annualità successive all’entrata in vigore del d.l. n. 223 del 2006 – Mancata previsione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) – comma inserito dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 – e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, nel corso di due giudizi riuniti vertenti tra la ricorrente s.r.l. Dagar e la resistente Agenzia delle entrate, ufficio di Nola, con ordinanza depositata il 29 aprile 2010, iscritta al n. 266 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti l’atto di costituzione della s.r.l. Dagar e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore Franco Gallo;
uditi gli avvocati Livia Salvini e Mario Papa per la s.r.l. Dagar nonché l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso di due giudizi riuniti promossi da una società a responsabilità limitata avverso due avvisi di accertamento dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) riguardanti, rispettivamente, gli anni 2002 e 2003, la Commissione tributaria provinciale di Napoli, con ordinanza depositata il 29 aprile 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione nonché all’art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), questioni di legittimità dell’art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), quale modificato dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, in vigore dal 4 luglio 2006 [recte: del combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 – comma inserito dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006 – e del comma 26 dell’art. 37 del medesimo decreto-legge n. 223 del 2006].
Il censurato terzo comma del citato art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, nel testo in vigore dal 4 luglio 2006, stabilisce che, «In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti [cioè, nel testo applicabile ratione temporis ai due suddetti periodi d’imposta in contestazione: in caso di presentazione della dichiarazione, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, aumentato – nel caso di richiesta di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione – di un periodo di tempo pari a quello compreso tra il sedicesimo giorno successivo a quello di notificazione della richiesta di documenti da parte dell’ufficio e la data di consegna di tali documenti; in caso di omessa presentazione della dichiarazione, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata] sono raddoppiati relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione». Inoltre, il comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006 prevede che «Le disposizioni di cui ai commi 24 [relativo alle imposte sui redditi] e 25 [relativo all’IVA] si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma dell’art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 [relativo alle imposte sui redditi] e dell’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 [relativo, come visto, all’IVA]».
Tali disposizioni sono denunciate, in base a quanto espressamente indicato nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, nella parte in cui non prevedono che, in presenza delle ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del 2000: 1) la normativa sia applicabile solo alle annualità successive al 2006, anno nel quale sono entrati in vigore i commi 25 e 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006; 2) «l’eventuale denuncia» ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. debba essere presentata anteriormente allo spirare dei termini di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
1.1. – Secondo quanto premesso, in punto di fatto, dal giudice rimettente: a) la società aveva richiesto la definizione automatica dell’IVA “per gli anni pregressi” 2001 e 2002, ai sensi dell’art. 9 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003), ed aveva utilizzato negli anni successivi il credito di € 146 milioni, risultante dalla dichiarazione, per compensare l’IVA a debito relativa ad anticipi su forniture fatturate ad altra società dello stesso gruppo; b) l’Agenzia delle entrate aveva apposto un diniego alla suddetta domanda di definizione agevolata dei rapporti tributari, affermando che la dichiarazione di condono non era comprensiva di tutti i periodi di imposta ancora accertabili, come invece richiesto dalla legge; c) la Commissione tributaria provinciale di Napoli, con sentenza n. 185/02/09 del 31 marzo 2009, aveva accolto l’impugnazione della società avverso il suddetto diniego di condono; d) l’Agenzia delle entrate, con due avvisi notificati il 18 novembre 2008, aveva proceduto all’accertamento dell’IVA dovuta dalla società, rispettivamente, per gli anni 2002 e 2003, basandosi su una verifica della Guardia di finanza (delegata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Nola), la quale, con processo verbale di constatazione del 25 luglio 2008, aveva ritenuto sussistere alcuni reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, perché, da un lato, aveva rilevato, per l’anno 2002, che la dichiarazione dell’IVA conteneva l’indicazione di «operazioni passive fittizie», con conseguente inesistenza del credito tributario dichiarato dalla contribuente, e, dall’altro, aveva contestato, per l’anno 2003, le operazioni effettuate dalla stessa contribuente con un’altra società del gruppo al fine di trasferire a quest’ultima una parte dell’inesistente credito risultante dalle dichiarazioni; e) la società destinataria degli avvisi di accertamento li aveva impugnati con distinti ricorsi, deducendo, in primo luogo, che il perfezionamento del condono aveva precluso la possibilità, per l’Amministrazione finanziaria, di effettuare gli accertamenti di cui agli impugnati avvisi; in secondo luogo, che non era applicabile, a favore dell’Amministrazione finanziaria, la proroga biennale dei termini per l’accertamento prevista dall’art. 10 della legge n. 289 del 2002 in favore dei contribuenti che non si avvalgano delle disposizioni concernenti i condoni previsti dagli articoli da 7 a 9 della stessa legge; in terzo luogo, che il terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, se inteso nel senso che consente «la riapertura dei termini di accertamento con riferimento ad annualità ormai “cristallizzate” e “stabilizzate”», si pone in contrasto con la Costituzione; in quarto luogo, che gli avvisi erano invalidi anche per ulteriori e subordinati motivi, dettagliatamente specificati nei ricorsi; f) la resistente Agenzia delle entrate aveva obiettato a tali motivi di impugnazione, in primo luogo, che la richiesta di definizione automatica non aveva prodotto effetti, perché non era comprensiva di tutte le annualità d’imposta e, pertanto, non precludeva gli accertamenti; in secondo luogo, che la normativa sul raddoppio dei termini di accertamento non violava la Costituzione; in terzo luogo, che gli altri motivi di ricorso non erano fondati; g) i giudizi instaurati con i due ricorsi erano stati riuniti.
1.2. – Su tali premesse, il giudice a quo deduce che le disposizioni denunciate violano: a) gli artt. 3 e 24 Cost., nonché l’art. 3, ultimo comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente) – in quanto applicativo degli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost. –, perché irragionevolmente prorogano o riaprono, per gli accertamenti delle imposte, termini di decadenza ormai «scaduti», cosí ledendo l’esigenza di «certezza dei rapporti giuridici» ed il diritto di difesa dei contribuenti; b) l’art. 24 Cost., perché la denuncia penale, se proposta dopo il decorso degli ordinari termini di decadenza, potrebbe intervenire quando il contribuente, ritenendo non piú accertabile il rapporto tributario, non sia piú in possesso delle scritture e dei documenti contabili (che, ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è tenuto a conservare fino alla definizione degli accertamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta); c) lo stesso art. 24 Cost., perché, non prevedendo un «ragionevole» ed «oggettivamente determinato» termine di notificazione dell’atto impositivo e consentendo «una distanza eccessiva tra il fatto e la contestazione», comportano una «indeterminata soggezione del contribuente all’azione esecutiva del fisco» e, quindi, vanificano la difesa del contribuente; d) gli artt. 3 e 97 Cost., perché, non condizionando il raddoppio dei termini né all’avvio dell’azione penale prima del decorso degli ordinari termini di decadenza dall’accertamento né all’esito di tale azione, attribuiscono all’amministrazione finanziaria − irragionevolmente ed in contrasto con i princípi di imparzialità e di buon andamento − il potere discrezionale di estendere i termini dell’accertamento, in base ad una soggettiva e non controllabile valutazione circa la necessità di presentare denuncia penale per violazioni ricondotte ad ipotesi di reato, «magari su elementi puramente indiziari e strumentalmente enfatizzati»; e) l’art. 3 Cost., perché, «consentendo discipline differenziate per la notifica dell’accertamento», introducono «irragionevoli elementi di disparità di trattamento»; f) l’art. 25 Cost., perché, in presenza di ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 per le quali vi sia l’obbligo di denuncia, rendono retroattivamente applicabile la sanzione del raddoppio dei termini per l’accertamento dell’imposta.
1.3. – Quanto alla rilevanza delle questioni, il giudice rimettente afferma che, nella specie, sono state riscontrate dalla Guardia di finanza ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 per le quali vi è l’obbligo di denuncia e che pertanto, nei giudizi principali riuniti, occorre fare applicazione delle disposizioni denunciate. A quest’ultimo riguardo precisa che tali disposizioni sono entrate in vigore anteriormente alla scadenza del termine ordinario per gli avvisi di accertamento impugnati.
2. – La società a responsabilità limitata ricorrente nei giudizi riuniti a quibus si è costituita in giudizio aderendo alla prospettazione del rimettente e deducendo, pertanto, la fondatezza e la rilevanza delle sollevate questioni.
2.1. – La fondatezza deriverebbe dalla natura retroattiva e sanzionatoria delle disposizioni denunciate, le quali comporterebbero, per effetto di una valutazione meramente discrezionale ed incontrollabile dell’amministrazione finanziaria, la reviviscenza o la proroga di poteri di accertamento fiscali e comunque la soggezione del contribuente all’azione accertativa dell’erario per periodi di tempo indefiniti od eccessivamente lunghi.
Al riguardo, la parte afferma che la disciplina denunciata, ove ricorra l’obbligo di denuncia dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, consente – in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. – la «reviviscenza» di poteri accertativi «già esauriti» per decorso dei termini decadenziali ordinari fissati dai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’accertamento dell’IVA o comunque la loro «proroga». A suo avviso, tale ampliamento temporale dei poteri di accertamento non soddisfarebbe alle due condizioni che la giurisprudenza della Corte costituzionale richiede per la legittimità costituzionale delle norme che prevedono il prolungamento di termini di accertamento fiscale già scaduti o ancora pendenti: e cioè, da un lato, la sussistenza di un’obiettiva esigenza di razionalizzazione, al fine di fronteggiare una situazione contingente, eccezionale, straordinaria e generale, e, dall’altro, la possibilità per il contribuente di esercitare il proprio diritto di difesa, senza subire limitazione alcuna (vengono citate le sentenze n. 356 del 2008 e n. 238 del 1984). Nella specie, infatti, non ricorrerebbe alcuna situazione eccezionale idonea a giustificare la normativa censurata. Tale difetto di eccezionalità sarebbe ancora piú evidente ove il prolungamento dei termini di accertamento si ritenesse applicabile – come sostiene l’amministrazione finanziaria – non solo in relazione a fatti di rilievo penale ed agli elementi acquisiti in sede penale, ma anche per «le ipotesi di violazioni fiscali […] verificabili nel termine ordinario e […] estranee a quelle correlate al fatto costituente il reato». Da tutto ciò deriverebbe, sempre a parere della suddetta società, la violazione del principio della certezza dei rapporti giuridici e, per l’effetto, la lesione del diritto di difesa del contribuente. La medesima società riferisce che, proprio per tali ragioni, con «atto prot. n. 1089/09 del 19 novembre 2009», il Garante del contribuente per la Regione Campania – adíto proprio in relazione alla fattispecie oggetto del giudizio principale – ha ritenuto illegittimo, per l’amministrazione finanziaria, «iniziare o procedere in operazioni di verifica o di controllo concernenti periodi d’imposta coperti da decadenza ordinaria». In definitiva, per la contribuente, la disposizione denunciata è illegittima, perché «la sua irretroattività [lapsus calami per «retroattività»] reca una irragionevole lesione a valori e interessi costituzionalmente protetti (quali il diritto di difesa, la certezza dei rapporti giuridici, il legittimo affidamento, il buon andamento e l’imparzialità della P.A. […]».
2.1.2. – La contribuente deduce, poi, che la disposizione denunciata, estendendo i termini di accertamento fiscale oltre il limite temporale dell’obbligo di conservazione della documentazione contabile previsto dall’art. 22 del d.P.R. n. 600 del 1973 (che lo fissa fino alla definizione degli accertamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta), «assoggetta il contribuente ad un pregiudizio nella sua difesa», in violazione dell’art. 24 Cost. Nella specie, il pregiudizio deriverebbe dalla «reviviscenza, a termine già spirato, del potere di accertamento», in quanto – sempre ad avviso della parte – il termine era scaduto nel 2006 e nel 2007 per i periodi d’imposta rispettivamente del 2001 e del 2002 e, quindi, non v’era piú l’obbligo di conservare le scritture contabili e le fatture relative a detti periodi, «non solo quando la Guardia di finanza aveva richiesto tali scritture (maggio 2008), ma anche quando era stato effettuato il primo accesso (aprile 2008), e tanto piú quando era stato inoltrato rapporto all’a.g.o. penale (giugno 2008)».
2.1.3. – L’indicata società a responsabilità limitata, con riferimento alla lesione dell’art. 24 Cost. (prospettata sotto il profilo dell’eccessività ed imprevedibilità del raddoppio dei termini di accertamento), pone in rilievo che l’incertezza dell’estensione temporale del potere accertativo deriva dalla mera eventualità dell’emersione, secondo l’opinione dell’amministrazione finanziaria, di un delitto previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000, cioè da una circostanza “casuale”, non oggettiva, imprevedibile, «del tutto eventuale, incerta e comunque indipendente dal dominio dell’accertato», in quanto rimessa – per effetto del sopra menzionato regime di autonomia tra processo penale e tributario (cosiddetto «doppio binario») – alla sola valutazione discrezionale della stessa amministrazione procedente. La parte ammette che «il Giudice tributario, quale organo di controllo della legittimità dell’azione accertativa, una volta adíto dal contribuente, potrà ritenere […] insussistente il presupposto del raddoppio dei termini […] a prescindere dagli esiti del parallelo giudizio penale […] e, per l’effetto, annullare gli avvisi emessi dall’Agenzia delle Entrate». La stessa parte aggiunge, tuttavia, che «ciò non vale a rendere ragionevole il potere accertativo» di cui alle disposizioni censurate e ad evitare che l’imprevedibilità e l’eccessiva durata del termine da esse previsto ledano il diritto di difesa del contribuente, data la «dignità costituzionale dell’esigenza del contribuente ad essere assoggettato ad un termine non eccessivamente lungo» (vengono richiamate, in relazione a tale principio, le sentenze della Corte costituzionale n. 11 del 2008 e n. 280 del 2005). Tale conclusione sarebbe avvalorata dalla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione concernente l’art. 84 del d.P.R. n. 431 del 1973 (Testo unico in materia doganale), il quale, ad avviso della medesima parte, «presenta forti analogie» rispetto a quella censurata, disponendo che «L’azione dello Stato per la riscossione dei diritti doganali si prescrive nel termine di tre anni. […] Qualora il mancato pagamento […] dei diritti abbia causa da un reato, il termine di prescrizione decorre dalla data in cui il decreto o la sentenza, pronunciati nel procedimento penale, sono divenuti irrevocabili». La contribuente sottolinea che la Suprema Corte di cassazione (ex plurimis, sentenza n. 9773 del 2010), al fine di evitare che il termine di revisione dei dazi sia «privo di riferimento temporale e dilatabile all’infinito», interpreta il citato art. 84 del testo unico doganale nel senso che la proroga del termine triennale può operare solo ove la notitia criminis che ne costituisce il presupposto «sia intervenuta nel corso di tale termine e non dopo la sua scadenza (ancorché l’atto accertativo possa essere notificato dopo)». Nell’atto di costituzione, la parte osserva che – a differenza di quanto previsto in via generale per il procedimento amministrativo dall’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) – non sussiste alcun obbligo per l’amministrazione finanziaria di concludere il procedimento di accertamento entro un termine prefissato rispetto all’inizio dell’istruttoria. Da ciò la suddetta società trae la conseguenza che l’«unico baluardo di garanzia per l’accertamento è il rispetto del termine decadenziale posto dall’art. 57 del d.P.R. n. 633/1972 (e, ai fini delle imposte dirette, dall’art. 43 del d.P.R. n. 600/1973)» e che, pertanto, il legislatore, modificando tali disposizioni e, quindi, incidendo sul diritto di difesa del contribuente, avrebbe dovuto «ben ponderare la misura del […] bilanciamento con gli interessi contrapposti», introducendo una disciplina rispettosa di quei «caratteri di certezza, adeguatezza e proporzione» che costituiscono il «corollario imprescindibile» di quel diritto.
2.1.4. – In riferimento alla violazione degli artt. 3 e 97 Cost., la contribuente, sempre a sostegno dell’ordinanza di rimessione, osserva che il censurato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 non può essere inteso nel senso che il raddoppio dei termini di accertamento presupponga un accertamento giudiziale definitivo del reato, perché tale interpretazione è impedita dalla vigenza del principio del cosiddetto «doppio binario» tra accertamento penale e tributario, comportante l’inesistenza sia di una pregiudiziale penale nell’accertamento delle violazioni fiscali (art. 654 cod. proc. pen.; art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000; art. 12 del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, recante «Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516), sia di una pregiudiziale tributaria nell’accertamento delle violazioni penali (venuta meno con l’abrogazione, ad opera del citato decreto-legge n. 429 del 1982, dell’ultimo comma dell’art. 21 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, recante «Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie»). Poiché né l’amministrazione finanziaria né il giudice tributario sono vincolati ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria penale, siano essi favorevoli (archiviazione; declaratoria di prescrizione; assoluzione nel merito) o sfavorevoli al contribuente, ne deriva – prosegue la società – che il denunciato raddoppio dei termini consegue ad una valutazione irragionevolmente lasciata all’amministrazione finanziaria, la quale, esercitando un «potere […] abnorme» e non disinteressato, può ravvisare nella fattispecie da essa esaminata uno o piú reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, per effetto di «mere congetture», secondo una «discrezionalità […] libera di trasmodare in arbitrio, o, comunque, di risolversi in una scelta libera e svincolata da valutazioni comparative». La prospettata illegittimità costituzionale sarebbe, dunque, palese, «tanto laddove […] l’applicabilità» della disposizione censurata si «ricolleghi […] alla sola denunzia, quanto laddove l’A.F. mantenga un potere discrezionale in ordine alla valutazione del fatto di reato». In particolare, ove si ritenesse che l’obbligo di denuncia sorga non appena il pubblico ufficiale ravvisi il fumus di un reato, con l’esclusione di ogni sua valutazione sulla ricorrenza di cause di estinzione del reato o di non punibilità diverse dalla insussistenza del fatto (secondo quanto precisato da varie decisioni della Corte di cassazione penale), l’illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate deriverebbe dal fatto che «si attribuirebbe all’Amministrazione il potere-obbligo di “autogenerare” il presupposto di estensione (o addirittura di reviviscenza) del proprio potere di accertamento». Ove, invece, «in linea con la dottrina maggioritaria», si riservasse un margine di discrezionalità valutativa all’amministrazione finanziaria, cosí da consentirle di non denunciare quei «fatti […] che, con un minimo di indagine, si rivelino prima facie penalmente irrilevanti», l’illegittimità conseguirebbe al fatto che tale amministrazione verrebbe a trovarsi «in un palese conflitto di interessi», posto che il suo fine istituzionale è quello di «perseguire il massimo livello di adempimento degli obblighi fiscali» (art. 2 dello statuto dell’Agenzia delle entrate). Né, secondo la medesima parte, l’illegittimità sarebbe evitata dalla possibilità, per il contribuente, di far sindacare dal giudice tributario la sussistenza del presupposto per il raddoppio dei termini di accertamento. E ciò per la duplice ragione che: a) il ricorso tributario costituisce un non necessario aggravio, ragionevolmente evitabile mediante la predisposizione di norme recanti termini certi per l’accertamento; b) il giudice tributario non è in grado di effettuare con completezza il predetto sindacato, perché non può conoscere in via principale della sussistenza del reato sia per i limiti di prova del processo tributario sia per il divieto di estensione della giurisdizione dei giudici speciali stabilito dalla VI disposizione transitoria e finale della Costituzione.
2.1.5. – Per quanto attiene alla violazione dell’art. 3 Cost. per ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei contribuenti in ordine ai termini di notificazione dell’accertamento, la contribuente osserva che la sottolineata discrezionalità dell’amministrazione finanziaria nella valutazione dei fatti di reato (che può portare a determinazioni diverse in casi simili), la natura meramente “congetturale” della denuncia penale (la quale, di per sé, nulla prova in ordine alla commissione del fatto reato) e l’assoggettabilità al termine “lungo” anche per un fatto di reato riferibile ad un soggetto terzo (ad esempio nell’accertamento nei confronti della società controllante per un fatto di reato riconducibile alla società controllata, come affermato nella circolare dell’Agenzia delle entrate n. 54 /E del 2009) rendono irragionevole far derivare dalla suddetta eventuale denuncia penale (che può provenire dalla stessa amministrazione finanziaria) l’automatico prolungamento dei termini di accertamento fiscale (come risulterebbe dalle rationes decidendi delle sentenze della Corte costituzionale n. 78 del 2005; n. 206 del 1999; n. 296 e n. 173 del 1997). Piú in particolare, la disciplina censurata comporterebbe – sempre ad avviso della parte – una inevitabile disparità di trattamento: a) tra reati non lesivi per l’erario (come nel caso di emissione di una fattura soggettivamente inesistente, per l’importo di un solo euro), per i quali opererebbe il raddoppio dei termini, e violazioni tributarie prive di rilevanza penale, ma dannose per l’erario (come nel caso di dichiarazione infedele dell’importo di € 100.000,00 e, quindi, al di sotto della soglia di punibilità prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000), assoggettate al termine ordinario di accertamento; b) tra «identici contribuenti», casualmente «assoggettati a termini differenti», a seconda che siano stati raggiunti o no «da una determinazione dell’Autorità giudiziaria (ripresa dall’Amministrazione finanziaria) in ordine ad una fattispecie di reato ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000»; c) tra contribuenti che si trovano nella «medesima situazione sostanziale», «esposti […] a trattamenti differenziati, […] in ragione di scelte dell’Amministrazione, sganciate da ogni ragionevole parametro di controllo». La società costituita rileva, infine, che il delineato conflitto tra principio di eguaglianza e norma denunciata, in quanto derivante dai «caratteri strutturali» della norma e non legato all’applicazione retroattiva di questa, non potrebbe essere risolto con la considerazione che lo stesso fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore di situazioni che si svolgono nel tempo (considerazione che costituisce, invece, la ratio decidendi di alcune pronunce della Corte costituzionale: ex multis, sentenze n. 367 del 1987 e n. 238 del 1984)
2.1.6. – Con riferimento, poi, al denunciato contrasto con l’art. 25 Cost., la contribuente ritiene che il raddoppio dei termini di accertamento ordinari in presenza di reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, per i quali vi sia obbligo di denuncia, si configuri non come lo strumento “procedimentale” per soddisfare l’esigenza di utilizzare «per un tempo piú ampio di quello ordinario gli elementi istruttori emersi nel corso delle indagini condotte dall’autorità giudiziaria» (secondo quanto affermato nella relazione di accompagnamento al decreto-legge n. 223 del 226), ma come una «sanzione impropria», cioè come una conseguenza avente «prioritariamente funzione repressiva» e rientrante, perciò, nell’ampia nozione di «pena» di cui all’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 21 marzo 2006. La natura essenzialmente punitiva della disciplina sarebbe evidenziata sia dalla lettera della legge, che fa discendere dal presupposto della sussistenza di un reato previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000 un generale potere accertativo, oltretutto «esercitabile (anche) in relazione a fatti diversi da quelli costituenti il reato presupposto» (viene richiamata, a sostegno di tale argomentazione, la circolare 1° febbraio 2008 prot. n. 35534 del Comando generale della Guardia di finanza, ufficio tutela entrate), sia dalla retroattività della norma, applicabile anche ai periodi d’imposta ancora accertabili al momento dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del 2006, tanto da comportare – in forza di una vera e propria «reviviscenza» del potere accertativo – la tempestività della notificazione, nel 2008, di un avviso di accertamento relativo al periodo d’imposta 2002, per il quale il termine ordinario di accertamento era già venuto meno il 31 dicembre 2007. L’applicazione retroattiva della “sanzione” del raddoppio del termine ad un fatto commesso prima del 4 luglio 2006, cioè prima della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del 2006 che la prevede, violerebbe, pertanto, non solo il secondo comma dell’art. 25 Cost., ma anche la presunzione di non colpevolezza di cui al secondo comma dell’art. 27 Cost., perché deriverebbe non da un accertamento definitivo del reato, ma da una valutazione dell’amministrazione finanziaria che sarebbe solo imperfettamente controllabile in via incidentale dal giudice tributario, privo degli strumenti di cognizione propri del giudice penale.
2.2. – Infine, ad avviso della parte, la rilevanza delle questioni deriverebbe: a) dalla necessità di applicare nei giudizi riuniti a quibus il denunciato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, data la sua efficacia retroattiva e posto che gli avvisi di accertamento impugnati sono stati notificati dopo «l’inutile decorso dell’ordinario termine quadriennale» previsto dal primo comma dello stesso art. 57 e dopo che l’organo verificatore, in data 6 giugno 2008, aveva segnalato la sussistenza di fatti penalmente rilevanti ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000 alla competente Procura della Repubblica (la quale aveva poi proceduto all’iscrizione del legale rappresentante della società nel registro degli indagati ed allo svolgimento di ulteriori indagini, le cui risultanze, previo regolare nulla osta rilasciato dall’autorità giudiziaria procedente, erano state successivamente utilizzate per l’emissione dei suddetti avvisi di accertamento); b) dal nesso di consequenzialità tra l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale e l’accoglimento delle domande della contribuente nei giudizi principali.
3. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza o, comunque, non fondate.
Quanto all’inammissibilità, la difesa dello Stato osserva che il rimettente non ha fornito elementi sufficienti ad evidenziare la necessità dell’applicazione, nei giudizi riuniti a quibus, della normativa denunciata, in quanto: a) con riguardo alla sentenza n. 185/02/09 – con cui la Commissione tributaria provinciale di Napoli aveva riconosciuto il perfezionamento e l’efficacia del condono richiesto dalla società per gli anni 2001 e 2002, in forza dell’art. 9 della legge n. 289 del 2002 – non ha precisato né se la decisione abbia un rapporto di pregiudizialità con il giudizio principale (come sostenuto nei giudizi a quibus dalla contribuente, ad avviso della quale il riconoscimento dell’efficacia del condono precluderebbe il potere di procedere alla rettifica della dichiarazione resa per le suddette annualità) né se la medesima decisione sia passata in giudicato né le ragioni della mancata sospensione, ai sensi dell’art. 295 del codice di procedura civile, dei giudizi riuniti a quibus, in attesa della definizione del giudizio sull’efficacia del condono; b) non ha chiarito se, nell’ipotesi di valido perfezionamento del condono, ricorrono nel caso concreto i presupposti dell’applicazione del principio secondo cui il condono non opera sui crediti vantati dal contribuente verso il fisco, nel senso che tali crediti restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’amministrazione finanziaria (Corte di cassazione, sentenza n. 375 del 2009 e ordinanza n. 18942 del 2010; Corte costituzionale, ordinanza n. 340 del 2005); c) non ha considerato né che l’art. 10 della legge n. 289 del 2002 aveva prorogato di due anni i termini per l’accertamento nei confronti dei contribuenti che non si erano avvalsi della definizione agevolata (Corte costituzionale, sentenza n. 356 del 2008) né che, nella specie, non era stato dimostrato il valido perfezionamento del condono né che, pertanto, l’avviso di accertamento relativo al 2002 era stato notificato tempestivamente, cioè prima del «31 dicembre 2009», data di scadenza della suddetta proroga biennale.
Quanto alla non fondatezza delle questioni, l’Avvocatura generale dello Stato rileva innanzitutto che, contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza di rimessione, le disposizioni denunciate non riaprono termini ormai scaduti, perché riguardano solo periodi d’imposta o successivi a quelli in corso alla data della loro entrata in vigore (4 luglio 2006) oppure ancora in corso, ma per i quali, nella medesima data, non è ancora maturata la decadenza dal potere di accertamento. Ad avviso della difesa dello Stato, le suddette disposizioni rispondono alla evidente e ragionevole ratio di concedere all’amministrazione finanziaria tempi piú ampi per l’accertamento, al fine di meglio contrastare fenomeni di evasione fiscale che – integrando le ipotesi di reato perseguibili d’ufficio previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 – sono caratterizzati da maggiore gravità ed insidiosità, tanto da rendere opportuna l’acquisizione degli elementi istruttori emersi nel corso delle indagini svolte dall’autorità giudiziaria e per i quali «occorre anche attendere la rimozione del segreto investigativo». L’intervenuta Presidenza del Consiglio dei ministri osserva, poi, che il prolungamento dei termini per l’accertamento non presuppone la materiale presentazione della denuncia penale, essendo sufficiente la «presenza di fattispecie implicanti in astratto l’obbligo di denuncia». In particolare, la difesa dello Stato nega che gli evocati parametri siano violati, perché: a) quanto ai princípi di eguaglianza e ragionevolezza, la diversa ampiezza dei termini di accertamento trova giustificazione nella «maggiore pericolosità delle fattispecie di evasione realizzate attraverso modalità delittuose»; b) quanto all’imparzialità, la necessità di un controllo del giudice del caso concreto circa la serietà della prospettazione di ipotesi investigative che possano condurre all’accertamento dei fatti reati indicati dalle disposizioni denunciate esclude il prospettato pericolo della strumentalità od arbitrarietà del comportamento dell’amministrazione finanziaria; c) quanto al diritto di difesa, la mancata conservazione della documentazione contabile da parte del contribuente deriva da una sua scelta personale, non conforme a legge (dato l’obbligo di conservazione previsto dall’art. 22 del d.P.R. n. 600 del 1973); d) sempre quanto al diritto di difesa, il termine censurato opera entro confini certi e non comporta la denunciata indefinita soggezione del contribuente all’azione di accertamento degli uffici tributari (viene citata la sentenza di questa Corte n. 356 del 2008, punto 7 della motivazione); e) quanto al principio di irretroattività delle sanzioni penali, il censurato raddoppio dei termini non ha natura sanzionatoria, ma mira a consentire l’accertamento della reale capacità contributiva anche in presenza di fattispecie complesse, quali quelle riguardanti violazioni tributarie a rilevanza penale.
4. – Nell’imminenza della pubblica udienza, la società a responsabilità limitata e la difesa dello Stato hanno depositato memorie difensive a sostegno delle proprie posizioni.
Considerato in diritto
1. – La Commissione tributaria provinciale di Napoli dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione nonché all’art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), della legittimità del combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) – comma inserito dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 – e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006.
Detto combinato disposto stabilisce, in tema di IVA, che: a) «In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione» (art. 57, terzo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973); b) «Le disposizioni di cui ai commi […] 25 [comma che ha introdotto il citato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973] si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto [4 luglio 2006] sono ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma […] dell’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633»). In forza di tali disposizioni e con riguardo agli anni di imposta 2002 e 2003, oggetto degli avvisi impugnati nei giudizi riuniti a quibus, sono raddoppiati (ove ricorrano le indicate condizioni) i seguenti termini di accertamento dell’IVA previsti dai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972: 1) il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, aumentato – nel caso di richiesta di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione – di un periodo di tempo pari a quello compreso tra il sedicesimo giorno successivo a quello di notificazione della richiesta di documenti da parte dell’ufficio e la data di consegna di tali documenti (primo comma); 2) il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata, nel caso di omessa presentazione della dichiarazione (secondo comma).
Ad avviso della Commissione tributaria rimettente, la normativa denunciata víola gli evocati parametri, nella parte in cui non prevede che: a) la normativa sul raddoppio dei termini di accertamento sia applicabile solo alle annualità successive all’anno 2006, nel quale sono entrati in vigore i commi 25 e 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006; b) «l’eventuale denuncia» debba essere presentata, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., anteriormente allo spirare dei termini di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
In particolare, vengono prospettate cinque diverse censure, con riferimento, in primo luogo, agli artt. 3 e 24 della Costituzione, e 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente); in secondo luogo, all’art. 24 Cost.; in terzo luogo, agli artt. 3 e 97 Cost.; in quarto luogo, all’art. 3 Cost.; in quinto luogo, infine, all’art. 25 Cost.
2. – Prima di esaminare analiticamente le suddette censure, occorre valutare le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui dall’ordinanza di rimessione emergerebbe l’omessa o l’insufficiente motivazione della rilevanza delle questioni.
Nessuna di tali eccezioni può essere accolta.
2.1.− La difesa dello Stato ha eccepito, innanzitutto, che il rimettente non ha sufficientemente motivato sulla rilevanza, perché non ha precisato: a) né se la sentenza n. 185/02/09 della Commissione tributaria provinciale di Napoli, da lui stesso menzionata, che ha riconosciuto il perfezionamento del cosiddetto “condono tombale” richiesto dalla società per gli anni 2001 e 2002, abbia un rapporto di pregiudizialità con i giudizi principali riuniti e, quindi, se il perfezionamento del condono precluda il potere di accertamento dell’amministrazione finanziaria; b) né se la medesima decisione sia passata in giudicato; c) né le ragioni della mancata sospensione, ai sensi dell’art. 295 del codice di procedura civile, dei giudizi riuniti a quibus, in attesa della definizione del giudizio sull’efficacia del condono.
L’eccezione non è fondata.
2.1.1.− Va premesso che gli articoli da 7 a 9 della legge n. 289 del 2002 prevedono tre diverse ipotesi di definizione agevolata di tributi: 1) la «definizione automatica di redditi di impresa e di lavoro autonomo per gli anni pregressi mediante autoliquidazione» (art. 7); 2) l’«integrazione degli imponibili per gli anni pregressi» (art. 8); 3) la «definizione automatica per gli anni pregressi», denominata anche “condono tombale” (art. 9). Tali agevolazioni rendono definitive le liquidazioni d’imposta da esse derivanti e precludono all’amministrazione finanziaria successivi accertamenti, ma non modificano l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate (artt. 7, comma 13, e 9, comma 9) e non costituiscono titolo per rimborsi di importi precedentemente non dichiarati (art. 8, comma 3). L’art. 10 della legge stabilisce una proroga biennale degli ordinari termini di accertamento per i contribuenti «che non si avvalgono delle disposizioni recate dagli articoli da 7 a 9» (cioè relative alle tre ipotesi di definizione agevolata sopra menzionate).
Nella specie, in riferimento all’IVA 2001 e 2002, la contribuente (una società a responsabilità limitata) ha presentato la domanda di «definizione automatica per gli anni pregressi» di cui al suddetto art. 9.
2.1.2. − Il rimettente non affronta espressamente il tema dell’incidenza del perfezionamento del “condono tombale” sul potere accertativo dell’amministrazione finanziaria. Il silenzio serbato sul punto dall’ordinanza di rimessione non integra, però, l’eccepita insufficiente motivazione della rilevanza, perché è giustificato dalla notorietà ed evidenza della ragione adducibile a sostegno dell’assoluta irrilevanza del condono (ancorché perfezionato) sui poteri di accertamento dell’amministrazione finanziaria con riferimento alla sussistenza dei crediti vantati dal contribuente.
Tale ragione risiede nell’incontestata vigenza del principio, enunciato da questa Corte (ordinanza n. 340 del 2005) e, piú volte, dalla Corte di cassazione (Cassazione civile, sentenze n. 5586 del 2010 e n. 375 del 2009; ordinanze n. 12337 del 2011 e n. 18942 del 2010; Cassazione penale, sentenza n. 42462 del 2010, emessa proprio con riguardo alla fattispecie di causa), secondo cui il condono impedisce di accertare i debiti tributari coperti dall’agevolazione, ma non esclude il potere dell’amministrazione finanziaria – esercitato concretamente nella specie – di accertare la sussistenza dei crediti vantati dal contribuente.
Gli avvisi di accertamento impugnati, in quanto diretti a negare proprio l’esistenza del credito IVA indicato dalla società contribuente, non possono perciò essere influenzati dal condono tombale precedentemente richiesto dalla contribuente stessa (e ciò indipendentemente dall’efficacia di tale condono). Da ciò consegue che: a) non sussiste alcuna pregiudizialità tra la controversia sulla legittimità del diniego di condono ed i giudizi a quibus; b) non era necessaria una specifica motivazione al riguardo da parte del rimettente, avendo egli correttamente applicato nella specie un principio – da considerare diritto vivente – la cui sussistenza e pertinenza al caso concreto dovevano darsi per scontate; c) il rimettente non aveva alcuna ragione per sospendere i giudizi principali fino alla definizione della controversia sulla validità del condono; e ciò anche a prescindere dal fatto che, in ogni caso, detta sospensione non sarebbe stata consentita dagli artt. 2, comma 3, e 39 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), i quali limitano le ipotesi di sospensione ai casi di querela di falso e di questioni di stato e capacità delle persone (diversa dalla capacità di stare in giudizio) ed impongono al giudice, in tutti gli altri casi, di risolvere in via incidentale ogni questione pregiudiziale.
Va infine ricordato che, comunque, il “condono tombale” in materia di IVA del quale ha inteso avvalersi la società contribuente è stato ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE in contrasto con l’ordinamento comunitario, in quanto comporta una rinuncia generale ed indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili in materia di IVA e, pertanto, integra un inadempimento agli obblighi che sullo Stato italiano incombono «in forza delle disposizioni dell’art. 2, n. 1, lettere a), c) e d), e degli artt. 193 – 273 della direttiva del Consiglio 28 novembre 2006, 2006/112/CE, relativa al sistema d’imposta sul valore aggiunto, che hanno sostituito, dal 1° gennaio 2007, gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, nonché dell’art. 10 CE» (sentenza 11 dicembre 2008, causa C-174/07; analogamente, la sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06). Il rilevato contrasto con l’ordinamento comunitario comporta l’obbligo del giudice e dell’amministrazione finanziaria italiani di non applicare le norme nazionali relative al suddetto condono (in tal senso, espressamente, le pronunce della Cassazione civile, sezioni unite, dal n. 3673 al n. 3677 del 2010; sezione semplice, n. 24586 e n. 24587 del 2010). Da ciò discende la riespansione del potere accertativo dell’amministrazione finanziaria e, per quanto qui interessa, l’applicabilità della denunciata normativa concernente il raddoppio dei termini di accertamento in presenza di violazioni tributarie di rilevanza penale ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000.
2.2. − L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, poi, l’inammissibilità delle questioni – sempre sotto il profilo della omessa od insufficiente motivazione della rilevanza – affermando che il rimettente non ha chiarito se nella specie ricorrano i presupposti dell’applicazione del sopra menzionato principio secondo cui il condono non opera sui crediti vantati dal contribuente verso il fisco, nel senso che tali crediti restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’amministrazione finanziaria.
Anche tale eccezione non è fondata, perché – come osservato nel punto precedente − proprio l’evidente adesione del rimettente al suddetto notorio e consolidato principio giurisprudenziale gli ha fatto ritenere superflua l’indicazione nell’ordinanza di rimessione di una espressa motivazione al riguardo.
2.3.− L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, infine, l’inammissibilità delle questioni, deducendo che il rimettente non avrebbe considerato che l’art. 10 della legge n. 289 del 2002 prevede la proroga di due anni dei termini di accertamento nei confronti dei contribuenti che non si siano avvalsi delle disposizioni recanti la definizione agevolata. Nella specie, pertanto, l’avviso di accertamento relativo al 2002 sarebbe stato notificato tempestivamente, cioè prima del «31 dicembre 2009», data di scadenza della suddetta proroga biennale. Secondo tale prospettiva, l’applicazione della proroga avrebbe escluso la necessità di far ricorso alla normativa denunciata per definire i giudizi principali riuniti e, quindi, avrebbe reso irrilevanti le questioni.
L’eccezione non è fondata.
L’Avvocatura muove dalla premessa dell’applicabilità della suddetta proroga biennale nel caso in cui il condono richiesto dal contribuente non si sia perfezionato.
Tale premessa è erronea, perché – come correttamente sostenuto dalla parte privata – per escludere l’applicazione della proroga biennale è sufficiente la presentazione della richiesta di condono, indipendentemente dal suo accoglimento o diniego. A tale interpretazione inducono sia la lettera dell’art. 10 della legge n. 289 del 2002 (che non condiziona l’applicazione della proroga biennale al perfezionamento del condono, ma si limita ad affermare che essa è prevista nei confronti dei contribuenti che «non si avvalgono» delle disposizioni recate dagli articoli da 7 a 9 della stessa legge, cioè nei confronti di coloro che omettono di avanzare le suddette richieste agevolative non avvalendosi della facoltà loro concessa da tali articoli); sia la ratio della proroga (diretta a consentire agli uffici tributari di procedere all’accertamento in un termine piú ampio nei soli confronti dei contribuenti che non hanno portato all’attenzione degli uffici le loro posizioni tributarie attraverso la presentazione delle istanze di condono, come evidenziato da questa Corte con la sentenza n. 356 del 2008); sia la natura eccezionale di ogni ampliamento temporale dei poteri accertativi (ampliamento di stretta interpretazione e, quindi, non estensibile ai contribuenti che abbiano presentato la richiesta di agevolazione e non abbiano, poi, di essa effettivamente goduto).
3.− Neppure può sostenersi, infine, che l’inammissibilità delle questioni possa derivare dall’omesso tentativo del rimettente di pervenire ad una interpretazione idonea a superare i prospettati dubbi di legittimità costituzionale; ad una interpretazione, cioè, che consenta di ritenere, da un lato, che la normativa sul raddoppio dei termini di accertamento si applichi solo alle annualità successive all’anno 2006, nel quale è entrata in vigore la normativa denunciata; dall’altro, che «l’eventuale denuncia» debba essere presentata, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., anteriormente allo spirare dei termini “brevi” di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
In effetti, il rimettente muove da una interpretazione non implausibile delle disposizioni denunciate. Egli assume che, in forza di esse, il raddoppio dei termini di accertamento si applichi: a) anche se la denuncia penale per i reati di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 non sia stata presentata prima del decorso del termine ordinario di accertamento; b) anche alle annualità antecedenti all’anno 2006, nel quale sono entrate in vigore tali disposizioni.
3.1. – Quanto al punto sub a), la non implausibilità dell’interpretazione discende dal fatto che il censurato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 («In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati […]») prevede, quale unica condizione per il raddoppio dei termini, la sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento. A maggior ragione, la lettera della legge impedisce di interpretare le disposizioni denunciate nel senso che il raddoppio dei termini presuppone necessariamente un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato. Del resto quest’ultima interpretazione – come riconosciuto dalla stessa parte privata – contrasterebbe anche con il vigente regime del cosiddetto «doppio binario» tra giudizio penale e procedimento e processo tributari, evidenziato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000 (il quale, in correlazione a quanto previsto dagli artt. 3, 479 e 654 cod. proc. pen., dispone che «Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione»).
Né, al fine di sostenere un’interpretazione conforme a Costituzione – nel senso che il raddoppio dei termini opererebbe solo se la denuncia penale sia presentata prima del decorso dei termini “brevi” di accertamento –, può farsi riferimento alla giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di termine triennale di «prescrizione» per il recupero “a posteriori” di diritti doganali previsto dall’art. 84, terzo comma, del d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale). Tale disposizione stabilisce due diversi termini triennali di «prescrizione», a seconda che il mancato pagamento abbia o no causa da un reato. Nel caso in cui non risulti che il mancato pagamento abbia avuto causa da reato, il termine decorre dal momento in cui l’importo dei diritti doganali originariamente richiesto sia stato contabilizzato o, in difetto, sia divenuto esigibile; nell’ipotesi, invece, in cui il mancato pagamento abbia avuto causa da reato il termine – in deroga al sopra visto principio del cosiddetto «doppio binario» – decorre dalla data in cui il decreto o la sentenza pronunziati nel procedimento penale siano divenuti irrevocabili. La lettera di tale disposizione, secondo la giurisprudenza di legittimità, renderebbe indeterminabile il periodo intercorrente tra la data di contabilizzazione o di esigibilità del debito doganale e la data in cui è divenuta irrevocabile la decisione penale, con la conseguenza che il termine per la revisione dei dazi, in presenza di reato, «sarebbe privo di riferimento temporale e dilatabile all’infinito» (sentenza della Cassazione civile n. 9773 del 2010). Per ovviare a tale «compromissione della certezza dei rapporti giuridici» (sentenze della Cassazione civile n. 19193 e n. 22014 del 2006), la Suprema Corte ha interpretato l’art. 84 nel senso che, in caso di reato che ha causato il mancato pagamento, l’«originario» termine triennale, decorrente dalla contabilizzazione o dall’esigibilità dell’obbligazione doganale, è «prorogato» fino ai tre anni successivi alla data di irrevocabilità della decisione penale, ma ciò solo nel caso in cui sia stata formulata una «ipotesi delittuosa», posta «alla base di una notitia criminis», nel corso dell’«originario» termine triennale (Cassazione civile, decisioni n. 9773 del 2010, n. 19195, n. 20513, n. 21377 e n. 22014 del 2006).
È evidente che – contrariamente a quanto sostenuto dalla parte privata – il citato art. 84, terzo comma, del d.P.R. n. 43 del 1973 reca una disciplina del tutto diversa da quella posta dalle disposizioni denunciate e, pertanto, non può essere invocata a sostegno della tesi secondo cui il raddoppio dei termini opera solo ove la denuncia penale sia presentata prima del decorso dei termini “brevi”. Infatti, mentre il censurato combinato disposto non presuppone alcun accertamento penale definitivo del reato ed ha un preciso riferimento temporale (entro il 31 dicembre dell’ottavo anno o del decimo anno successivo a quello in cui, rispettivamente, è stata o doveva essere presentata la dichiarazione); invece il terzo comma dell’art. 84 del d.P.R. n. 43 del 1973 presuppone una sentenza od un decreto penale di condanna divenuti irrevocabili ed indica un termine complessivo indefinito e non prevedibile nel momento in cui è contabilizzata o diviene esigibile l’obbligazione doganale. Di qui la non pertinenza della normativa e della giurisprudenza di legittimità invocate dalla società contribuente e la correttezza dell’interpretazione fornita dal rimettente.
3.2. – Quanto all’interpretazione del rimettente indicata al punto sub b) – secondo cui il raddoppio si applicherebbe anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni denunciate (4 luglio 2006) –, la sua non implausibilità discende dal fatto che il raddoppio, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del 2006, incide necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data. Questo effetto non deriva dalla natura retroattiva della normativa censurata, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di regola, «la legge non dispone che per l’avvenire» (art. 11, prima parte del primo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile; analogamente, l’art. 3, comma 1, della legge n. 212 del 2000, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo»). La stessa società contribuente, del resto, pur facendo piú volte riferimento nelle sue difese alla “retroattività” della normativa denunciata, ammette che questa, in realtà, dispone solo per il futuro ed è “retroattiva” in «senso improprio».
3.3. – Dai rilievi che precedono deriva, dunque, che l’interpretazione data dal rimettente alle disposizioni denunciate e sulla quale egli fonda le sollevate questioni è sostanzialmente corretta. Questa Corte deve pertanto muovere da tale interpretazione per effettuare il richiesto scrutinio di costituzionalità.
4. – Nel motivare in ordine agli altri aspetti della rilevanza delle questioni, il rimettente afferma che: a) dal processo verbale di constatazione redatto nel 2008 dalla Guardia di finanza risultano, per gli anni 2002 e 2003, ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 per le quali vi è l’obbligo di denuncia penale; b) nei giudizi principali riuniti egli deve fare applicazione delle disposizioni denunciate, perché queste sono entrate in vigore il 4 luglio 2006, anteriormente alla scadenza del termine “breve” quadriennale previsto, per gli accertamenti per cui è causa, dal primo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
Tali elementi sono sufficienti per ritenere rilevanti le questioni.
5. – Nel merito, è necessario esaminare analiticamente le cinque censure prospettate dal rimettente.
5.1. – Con la prima censura viene affermato che il denunciato combinato disposto si pone in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nonché con l’art. 3, comma 3, della legge n. 212 del 2000, perché irragionevolmente «proroga o riapre», per gli accertamenti delle imposte, termini di decadenza ormai «scaduti», cosí ledendo l’esigenza di «certezza dei rapporti giuridici» ed il diritto di difesa dei contribuenti.
5.1.1. – Va preliminarmente rilevato, al riguardo, che l’art. 3, comma 3, della legge n. 212 del 2000 (secondo cui «I termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati») non può essere qui evocato quale parametro di legittimità costituzionale. Come piú volte osservato da questa Corte, infatti, le disposizioni di detta legge non hanno rango costituzionale e non costituiscono, neppure come norme interposte, parametro idoneo a fondare il giudizio di legittimità costituzionale di leggi statali (sentenza n. 58 del 2009; ordinanze n. 13 del 2010, n. 185 del 2009, n. 180 del 2007, n. 428 del 2006, n. 216 del 2004).
La questione riferita all’art. 3, comma 3, della legge n. 212 del 2000 è, dunque, inammissibile.
5.1.2. – La questione riferita agli artt. 3 e 24 Cost. non è fondata, perché il rimettente muove dall’erroneo presupposto interpretativo che la normativa censurata «proroghi o riapra termini di decadenza ormai scaduti».
L’erroneità di tale presupposto è evidente, ove si consideri che i termini raddoppiati di accertamento non costituiscono una “proroga” di quelli ordinari, da disporsi a discrezione dell’amministrazione finanziaria procedente, in presenza di “eventi peculiari ed eccezionali”. Al contrario, i termini raddoppiati sono anch’essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva (allorché, cioè, sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000), senza che all’amministrazione finanziaria sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione. In altre parole, i termini raddoppiati non si innestano su quelli “brevi” di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 in base ad una scelta degli uffici tributari, ma operano autonomamente allorché sussistano elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000. Sotto questo aspetto non può parlarsi di «riapertura o proroga di termini scaduti» né di «reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti», perché i termini “brevi” e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono diversi termini di accertamento. Piú precisamente, i termini “brevi” di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale di reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000; i termini raddoppiati di cui al terzo comma dello stesso art. 57 operano, invece, in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è l’obbligo di denuncia. è, perciò, del tutto irrilevante che detto obbligo, come osservato al punto 3.1., possa insorgere anche dopo il decorso del termine “breve” o possa non essere adempiuto entro tale termine. Ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo, perché essa soltanto connota, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento.
Tali conclusioni non mutano neppure ove si faccia riferimento al censurato comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006. Questa disposizione non prevede una «riapertura di termini di accertamento già scaduti», ma risolve solo un problema di successione di leggi nel tempo, senza dettare una disciplina sostanziale ad hoc. Essa si limita, infatti, a stabilire che «Le disposizioni di cui ai commi […] 25 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma […] dell’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633». In tal modo non viene retroattivamente “riaperto” un termine già scaduto, ma viene solo escluso che il raddoppio dei termini si applichi alle violazioni tributarie per le quali, alla data di entrata in vigore del decreto (4 luglio 2006), fosse già decorso il termine di accertamento previsto dalla normativa anteriore (secondo quanto già rilevato al punto 3.2.).
È opportuno sottolineare che l’introduzione legislativa di un piú ampio termine di decadenza è evenienza frequente nel diritto tributario ed è pacifico che una siffatta nuova normativa, in difetto di diversa espressa statuizione di legge, si applichi solo ove il precedente e piú ristretto termine non sia già decorso e, quindi, il rapporto non sia esaurito. Le disposizioni denunciate, dunque, sono conformi ai princípi piú volte applicati dalla giurisprudenza in materia di successione delle leggi nel tempo che abbiano previsto l’ampliamento di termini decadenziali. A titolo di esempio, tra i molti che potrebbero essere indicati, può qui ricordarsi che la Corte di cassazione, in tema di sopravvenuto prolungamento dei termini di decadenza per la richiesta in via amministrativa del rimborso delle imposte dirette, ha costantemente affermato che il piú ampio termine di decadenza (48 mesi in luogo di 18 mesi) trova applicazione nel caso in cui, alla data di entrata in vigore della legge recante l’ampliamento del termine, sia ancora pendente il termine originario, mentre non è applicabile qualora, alla data predetta, tale termine sia già scaduto (ex plurimis, Cassazione civile, sentenze n. 2376, n. 10123 e n. 582 del 2010; n. 25610, n. 22748, n. 22745 e n. 16927 del 2008).
È irrilevante, infine, l’assunto che gli evocati parametri sarebbero violati per l’incertezza in cui versa il contribuente, il quale deve attendere il decorso del termine raddoppiato per avere la sicurezza dell’insussistenza dell’obbligo di denuncia penale. Si è visto, infatti, che tale incertezza è meramente eventuale e soggettiva e dipende non da una discrezionale valutazione dell’amministrazione finanziaria sulla denunciabilità penale dei fatti, ma solo dal momento in cui l’ufficio tributario venga concretamente a conoscenza degli elementi obiettivi comportanti l’obbligo di denuncia. Essa costituisce, perciò, una circostanza di mero fatto inidonea ad influire sullo scrutinio di legittimità costituzionale.
5.2.– Con la seconda censura è affermato che il denunciato combinato disposto si pone in contrasto con l’art. 24 Cost., sotto due profili: a) perché la denuncia penale, se proposta dopo il decorso dei termini “brevi” di decadenza, potrebbe intervenire quando il contribuente, ritenendo non piú accertabile il rapporto tributario, non sia piú in possesso delle scritture e dei documenti contabili; b) perché, non prevedendo un «ragionevole» ed «oggettivamente determinato» termine di notificazione dell’atto impositivo e consentendo «una distanza eccessiva tra il fatto e la contestazione», comporta una «indeterminata soggezione del contribuente all’azione esecutiva del fisco» e, quindi, vanifica la difesa del contribuente.
Nessuno dei prospettati profili di illegittimità costituzionale è fondato.
5.2.1.– Quanto alla lesione del diritto di difesa – dedotta sotto il profilo che il contribuente non sarebbe piú in grado di difendersi qualora non fosse piú in possesso delle scritture e dei documenti contabili da lui «legittimamente» eliminati dopo il decorso del termine “breve” di accertamento –, va rilevato che il rimettente procede da un erroneo presupposto interpretativo. Egli assume che l’obbligo di conservazione delle suddette scritture e documenti persista solo fino alla scadenza del termine “breve” di accertamento previsto dai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
In realtà il contribuente, per effetto dell’art. 22 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è tenuto a conservare le scritture ed i documenti fino alla definizione degli accertamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta. Pertanto, se il termine previsto dalla legge, in presenza dell’obbligo di denuncia delle suddette violazioni tributarie penalmente rilevanti, è quello raddoppiato di cui alla normativa censurata, ne segue che il contribuente ha l’obbligo di conservare le scritture ed i documenti fino alla definizione degli accertamenti relativi e, quindi, non può ritenersi esonerato da tale obbligo fino alla scadenza del termine raddoppiato.
L’eventuale soggettivo affidamento del contribuente a che non siano fatti valere, dopo il decorso del termine “breve” di accertamento, elementi obiettivi (giudizialmente controllabili ex post, come si vedrà in prosieguo, al punto 5.3.) comportanti l’obbligo di denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000 non è rilevante ai fini del giudizio di costituzionalità, trattandosi di una circostanza di mero fatto. Ciò che invece rileva sul piano giuridico è che il contribuente, ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. n. 600 del 1973, è tenuto a conservare la predetta documentazione fino allo spirare dei termini raddoppiati. Il che, evidentemente, non comporta alcuna lesione del diritto di difesa, proprio perché l’obbligo di conservazione documentale fino al decorso di tali termini è contenuto, dal predetto articolo, in limiti certi.
5.2.2.– Quanto, poi, alla lesione del diritto di difesa, dedotta sotto il diverso profilo dell’irragionevole ed eccessiva distanza temporale tra «il fatto e la contestazione», tale da comportare una indeterminata soggezione del contribuente all’azione «esecutiva» (rectius: accertativa) del fisco, è agevole osservare che – contrariamente a quanto affermato dal rimettente – il termine non è né indeterminato né irragionevolmente ampio.
Non è indeterminato, in quanto esso, in presenza del suddetto obbligo di denuncia penale, è individuato dalla normativa in modo certo; e cioè: a) entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione; b) entro il 31 dicembre del decimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata. Né tale obiettiva certezza può ritenersi esclusa dall’eventuale soggettiva incertezza del contribuente sulla astratta ravvisabilità delle indicate ipotesi di reato. L’impossibilità per il contribuente di avere la sicurezza ex ante della non ricorrenza dei presupposti di denunciabilità penale della sua condotta costituisce infatti, come si è appena visto, un inconveniente di mero fatto, irrilevante ai fini del giudizio di legittimità costituzionale. Per contrastare possibili abusi degli uffici tributari sono invece sufficienti, come sarà meglio precisato al punto 5.3., da un lato, la previsione dell’obbligo dei pubblici ufficiali – e, quindi, anche dei verificatori fiscali – di inoltrare senza ritardo la denuncia penale (obbligo sanzionato dall’art. 361 del codice penale) e, dall’altro, la controllabilità giudiziale circa la sussistenza dei precisi ed obiettivi presupposti richiesti dalla legge e dalla giurisprudenza perché sorga detto obbligo.
Il termine raddoppiato, inoltre, non è irragionevolmente ampio, perché è di poco superiore al termine di prescrizione dei reati suddetti (sei anni) e la sua entità è adeguata a soddisfare la ratio legis di dotare l’amministrazione finanziaria di un maggior lasso di tempo per acquisire e valutare dati utili a contrastare illeciti tributari, i quali, avendo rilevanza penale, sono stati non ingiustificatamente ritenuti dal legislatore particolarmente gravi e, di norma, di complesso accertamento. In particolare, la gravità e la difficoltà di rilevamento di detti illeciti derivano sia dalla non arbitraria ipotizzabilità (in base a chiari ed obiettivi elementi indiziari) dei reati perseguibili d’ufficio previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000; sia dal fatto che tali reati – in considerazione delle modalità della condotta criminosa ovvero della misura del danno arrecato all’erario – normalmente richiedono controlli, verifiche ed indagini fiscali particolarmente difficili al fine di determinare l’effettiva capacità contributiva dei soggetti passivi d’imposta. Tale situazione, del resto, si presenta anche nelle fattispecie oggetto di esame nei giudizi principali riuniti, in relazione alle quali si addebitano alla contribuente, per gli anni d’imposta in contestazione in detti giudizi, dichiarazioni fraudolente od infedeli.
L’individuata ratio legis non esclude che il legislatore abbia avuto di mira anche l’ulteriore obiettivo indicato nella relazione d’accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 223 del 2006, secondo la quale le disposizioni denunciate sono dirette a consentire la circolazione delle prove dal giudizio penale al procedimento tributario. Tale ratio indubbiamente può sussistere in concreto, data la normale maggiore durata del processo penale rispetto ai termini di accertamento “brevi”, ma non è idonea, da sola, ad improntare la disciplina in esame sia perché – secondo quanto già osservato – il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia o dall’inizio dell’azione penale; sia perché – come si vedrà meglio piú avanti – l’obbligo di denuncia (comportante il raddoppio dei termini di accertamento) sorge anche ove sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento resti riservato all’autorità giudiziaria penale; sia perché – in base a quanto si è appena visto – il termine raddoppiato di accertamento è comunque piú ampio del termine di prescrizione del reato (sei anni). La circolazione di elementi probatori dal giudizio penale al procedimento tributario è, dunque, solo eventuale e temporalmente limitata, e costituisce una giustificazione solo accessoria e parziale dei denunciati commi 25 e 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006.
Va sottolineato, altresí, che l’ampiezza dei termini derivante dal suddetto raddoppio si inserisce in un piú vasto quadro sistematico. In particolare, essa è analoga a quella fissata dall’art. 27, commi 16 e 17, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. Tali disposizioni, con riferimento ad ipotesi simili al reato di indebita compensazione previsto dall’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, stabiliscono che – salvi i piú ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione comportante l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. per il reato previsto dal citato art. 10-quater – l’atto di accertamento dei crediti indebitamente utilizzati dal contribuente in compensazione, indicato dall’art. 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), deve essere notificato entro il termine di decadenza del 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello dell’utilizzo di crediti inesistenti in compensazione.
Per completezza, va infine rilevato che, in forza della specialità del censurato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, non rientrano nel computo dei termini da raddoppiare i prolungamenti di quelli previsti da altre disposizioni di legge. Induce a tale conclusione la lettera del citato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, che prevede il raddoppio dei soli «termini di cui ai commi precedenti» dello stesso articolo; e cioè dei termini che scadono il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (primo comma), nonché dei termini che scadono il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata (secondo comma). Non rientrano, pertanto, nel computo dei termini da raddoppiare ai sensi delle disposizioni denunciate né la proroga biennale di cui all’art. 10 della legge n. 289 del 2002, né il diverso raddoppio dei termini dei medesimi primi due commi dell’art. 57 d.P.R. n. 633 del 1972 previsto, nell’àmbito degli interventi antievasione e antielusione internazionale e nazionale, dal comma 2-bis dell’art. 12 del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, comma inserito dall’art. 1, comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25. Pertanto, nel caso in cui i prolungamenti di termini previsti dalle disposizioni denunciate e da altre disposizioni siano astrattamente applicabili in relazione alla medesima fattispecie, l’amministrazione finanziaria non potrà mai utilizzarli in modo cumulativo al fine di superare il massimo dell’ampliamento temporale previsto dalla singola normativa piú favorevole per l’amministrazione. Questa interpretazione esclude che le disposizioni denunciate possano concorrere a rendere irragionevolmente lunghi i tempi dell’accertamento.
5.3.– Con la terza censura il rimettente afferma che il denunciato combinato disposto víola gli artt. 3 e 97 Cost., perché, non condizionando il raddoppio dei termini né all’avvio dell’azione penale prima del decorso dei termini “brevi” di decadenza dall’accertamento né all’esito di tale azione, attribuisce all’amministrazione finanziaria − irragionevolmente ed in contrasto con i princípi di imparzialità e di buon andamento − il potere discrezionale di estendere i termini dell’accertamento in base ad una soggettiva e non controllabile valutazione circa la necessità di presentare denuncia penale per violazioni ricondotte ad ipotesi di reato, «magari su elementi puramente indiziari e strumentalmente enfatizzati».
La questione non è fondata.
Si è già rilevato che il rimettente muove da una interpretazione plausibile delle disposizioni censurate, le quali, in base al loro tenore letterale, stabiliscono che il raddoppio dei termini deriva dall’insorgenza dell’obbligo della denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione di tale denuncia o da un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato.
Detta interpretazione non implica, tuttavia, che la legge attribuisca all’amministrazione finanziaria l’arbitrario ed incontrollabile potere di raddoppiare i termini “brevi” di accertamento.
Quanto all’asserita arbitrarietà, infatti, il raddoppio non consegue da una valutazione discrezionale e meramente soggettiva degli uffici tributari, ma opera soltanto nel caso in cui siano obiettivamente riscontrabili, da parte di un pubblico ufficiale, gli elementi richiesti dall’art. 331 cod. proc. pen. per l’insorgenza dell’obbligo di denuncia penale. Per costante giurisprudenza della Corte di cassazione, tale obbligo sussiste quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi del reato da denunciare (escluse le cause di estinzione o di non punibilità, che possono essere valutate solo dall’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita (ex plurimis, sentenze della Cassazione penale n. 27508 del 2009; n. 26081 e n. 15400 del 2008; n. 1244 del 1985; n. 6876 del 1980; n. 14195 del 1978). Va, inoltre, sottolineato al riguardo che il pubblico ufficiale – allorché abbia acquisito la notitia criminis nell’esercizio od a causa delle sue funzioni – non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, ma deve inoltrarla prontamente, pena la commissione del reato previsto e punito dall’art. 361 cod. pen. per il caso di omissione o ritardo nella denuncia.
Quanto all’asserita incontrollabilità dell’apprezzamento degli uffici tributari circa la sussistenza del reato, va obiettato che – contrariamente a quanto affermato dal rimettente – il sistema processuale tributario consente, invece, il controllo giudiziario della legittimità di tale apprezzamento. Il giudice tributario, infatti, dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un piú ampio termine di accertamento. È opportuno precisare che: a) in presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onere di provare detti presupposti è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il piú ampio potere accertativo attribuitole dal censurato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972; b) il correlativo tema di prova − e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario − è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato; c) gli eventuali limiti probatori propri del processo tributario hanno, pertanto, una ridotta incidenza nella specie e, comunque, non costituiscono oggetto delle sollevate questioni.
5.4.– Con la quarta censura viene affermato che il denunciato combinato disposto si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., perché, «consentendo discipline differenziate per la notifica dell’accertamento», introduce «irragionevoli elementi di disparità di trattamento».
Anche tale questione non è fondata.
La censurata disparità di trattamento non sussiste, perché la ricorrenza di elementi tali da obbligare alla denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. costituisce una situazione eterogenea rispetto a quella in cui tali elementi non ricorrono. È innegabile, infatti, che la non arbitraria ipotizzabilità di specifici reati tributari, espressivi di un particolare disvalore, giustifica la previsione di una disciplina differenziata, proprio in ragione della gravità dei fatti e della maggiore difficoltà che, di norma, richiede il loro accertamento.
5.5. – Con la quinta censura viene affermato che la normativa denunciata si pone in contrasto con l’art. 25 Cost. perché, in presenza di ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 per le quali vi sia l’obbligo di denuncia, essa rende retroattivamente applicabile la sanzione del raddoppio dei termini per l’accertamento dell’imposta.
La questione non è fondata, perché la disciplina del raddoppio dei termini non ha natura sanzionatoria. Non è perciò invocabile, nella specie, il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole previsto dall’evocato secondo comma dell’art. 25 Cost. E ciò a prescindere dalla considerazione che – per quanto osservato ai punti 3.2. e 5.1.2. – la disciplina fiscale censurata si applica solo per l’avvenire, con riferimento sia agli illeciti commessi a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del 2006 sia a quelli commessi anteriormente e per i quali, a tale data, non siano ancora decorsi i termini di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
In particolare, il raddoppio dei termini di accertamento non può qualificarsi “sanzione penale”, neppure impropria o atipica. Esso infatti, da un lato, non rappresenta la reazione ad un illecito penale, perché – come si è visto – consegue non dall’accertamento della commissione di un reato, ma solo dall’insorgere dell’obbligo di denuncia dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, restando irrilevante il fatto che l’azione penale non sia iniziata o non sia proseguita o intervenga una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna; dall’altro, non costituisce una conseguenza sfavorevole sul piano sostanziale, perché non comporta né un obbligo di prestazione né l’emissione di un atto di accertamento. Il mero assoggettamento ad un termine piú lungo di accertamento fiscale non svolge, dunque, alcuna funzione afflittivo-punitiva o sanzionatoria di un fatto di reato, ma, operando su un piano meramente procedimentale, persegue solo il sopra evidenziato obiettivo di attribuire agli uffici tributari maggior tempo per accertare l’effettiva capacità contributiva del soggetto passivo d’imposta, quando ciò sia giustificato dalla non arbitraria ipotizzabilità, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., di violazioni gravi e di piú difficile controllo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) – comma inserito dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 –, e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, in riferimento all’art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), con l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del suddetto combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2011.