Indennità di espropriazione – Determinazione secondo il valore agricolo medio della coltura più redditizia – Corte Costituzionale, Sentenza 181/2011
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato disposto con gli articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi quinto e sesto,della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli);
dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’articolo 40, commi 2 e 3, decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità);
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione, dalla Corte di appello di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.
La Corte non ha ritenuto di estendere la declaratoria di illegittimità costituzionale anche al comma 1 dell’art. 40 d.P.R. n. 327 del 2001. Detto comma concerne l’esproprio di un’area non edificabile ma coltivata (il caso di area non coltivata è previsto dal comma 2), e stabilisce che l’indennità definitiva è determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola. La mancata previsione del valore agricolo medio e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo consentono, secondo i Giudici delle leggi, una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari.
Corte Costituzionale, Sentenza n. 181 del 10/06/2011
Espropriazione per pubblica utilità – Aree esterne ed interne ai centri edificati, di cui all’art. 18 – Aree agricole ed aree non classificabili come edificabili – Indennità di espropriazione – Determinazione con riferimento rispettivamente al valore agricolo medio e al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricade l’area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata della regione agraria stessa – Conseguente determinazione dell’indennità stessa in misura irrisoria o comunque molto inferiore al valore di mercato del bene.
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Paolo MADDALENA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 5-bis, commi 3 e 4 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonché dell’articolo 16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto) della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’articolo 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli), promossi dalla Corte d’appello di Napoli, con ordinanze del 7 aprile e del 19 marzo 2010 e dalla Corte d’appello di Lecce con ordinanza dell’8 ottobre 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 305, 351 e 399 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 47, prima serie speciale, dell’anno 2010 e n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di costituzione di F. L., di F. N. W., del Comune di Salerno, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 10 maggio 2011 e nella camera di consiglio dell’11 maggio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli avvocati Giorgio Stella Richter per F. L., Edilberto Ricciardi per il Comune di Salerno e l’avvocato dello Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. — La Corte di appello di Napoli, con ordinanza depositata il 19 marzo 2010 (r. o. n. 351 del 2010), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonché dell’art. 16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto) della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli).
2. — La Corte territoriale riferisce di essere chiamata a pronunziarsi in un giudizio, promosso dalla signora N. W. F. nei confronti del Comune di Montoro Superiore e diretto ad ottenere la condanna di quest’ultimo al pagamento (tra l’altro) dell’indennità di espropriazione e dell’indennità di occupazione legittima, relative all’esproprio di un suolo, appartenente all’attrice, situato nel territorio del detto ente. In una prima fase del processo il consulente di ufficio aveva rilevato che il terreno, pur se classificato come agricolo nel piano di fabbricazione adottato dal Comune di Montoro Superiore, era ubicato a ridosso del centro cittadino, in una zona in possesso di tutte le caratteristiche dei suoli edificatori, e sicuramente appetibile anche in vista di un suo possibile sfruttamento per fini diversi dall’edificazione, sicché lo aveva valutato in lire 55.851 al mq., con riferimento al dicembre 1982; successivamente era stata disposta una nuova consulenza, volta a verificare se, alla data del decreto di esproprio (20 marzo 1985), il suolo de quo avesse valore agricolo o edificabile e a determinare l’importo delle due indennità. Il consulente aveva accertato che il terreno in questione era classificato nel catasto terreni del Comune di Montoro Superiore come “seminativo arborato” e che, in base al programma di fabbricazione vigente nel Comune dal 30 ottobre 1972 al 12 maggio 1997, era, per la sua maggiore estensione, destinato ad uso pubblico per servizi vari, per una parte minore inserito in zona B di completamento e per una terza parte interessato alla realizzazione di una strada. Tuttavia, in base alle prescrizioni del programma di fabbricazione, nella zona B dell’area espropriata era precluso ogni tipo di edificazione e non era consentita neppure la costruzione in aderenza con l’edificio, di proprietà dell’attrice, con essa confinante, soggetto,nel piano di recupero del Comune, soltanto ad interventi di restauro e di risanamento conservativo.
Una volta accertata la non edificabilità del suolo, il consulente aveva applicato i criteri di liquidazione delle indennità stabiliti dagli artt. 16 e 20 della legge n. 865 del 1971, cui rinvia l’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992 e, rilevato che il Comune di Montoro Superiore ricadeva nella regione agraria n. 8 della Provincia di Avellino e che, nel 1985, in tale regione il valore agricolo medio di un terreno seminativo arborato era di lire 1.200 a mq., aveva determinato l’indennità di espropriazione spettante all’attrice in complessivi euro 588,76 (lire 1.140.000) e quella di occupazione in complessivi euro 49,06.
Tanto premesso, la Corte rimettente, chiamata a decidere unicamente della misura delle indennità di espropriazione e di occupazione spettanti all’attrice, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonché dell’art. 16, quinto e sesto comma, della legge n. 865 del 1971, come sostituiti dall’art. 14 legge n. 10 del 1977, «che, secondo il diritto vivente, sono tuttora in vigore esclusivamente con riguardo alle aree non aventi destinazione edilizia».
Ad avviso della rimettente tali disposizioni, non suscettibili di un’interpretazione diversa da quella letterale, stabiliscono un criterio di determinazione dei suoli agricoli e dei suoli non edificabili del tutto disancorato dal loro effettivo valore di mercato.
Invero – la Corte di merito prosegue – «ancorché non possa escludersi che valore di mercato e valore agricolo medio (V.A.M.) di tali categorie di immobili siano talvolta, in concreto, coincidenti, non v’è dubbio che assai spesso il primo valore risulti (anche notevolmente) superiore al secondo, in quanto l’appetibilità di un terreno sul mercato non dipende solo dalla sua edificabilità, ma da molteplici altri fattori, primi fra tutti la sua posizione e le concrete possibilità di suo sfruttamento per fini diversi dalla coltivazione».
La questione sarebbe rilevante nel presente giudizio. Infatti, sarebbe rimasto accertato che il valore di mercato del terreno in questione era stato calcolato in lire 65.000 al mq., con riferimento al gennaio 1986 (previa rivalutazione a tale data del valore di lire 55.851 al mq., riferito al dicembre 1982), mentre il valore agricolo medio della coltura in atto sul suolo era, nel 1985, di appena lire 1.200 al mq. o, al più, di lire 6.200 al mq. (volendo ritenere erronea la determinazione del C.T.U. per non aver considerato che, trattandosi di terreno compreso in un centro edificato, l’indennità si sarebbe dovuta commisurare al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria, coprivano una superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata nella regione stessa).
Inoltre, il suolo di proprietà della F. era certamente inedificabile, avuto riguardo alla natura conformativa (e non espropriativa) dei vincoli su di esso gravanti, all’inesistenza di un presunto giudicato sull’edificabilità di fatto del suolo, alla costante giurisprudenza della Corte di cassazione, integrante un vero e proprio diritto vivente, alla stregua della quale il sistema introdotto dall’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992 si caratterizza per una rigida dicotomia, con esclusione di un “tertium genus”, tra “aree edificabili” ed “aree agricole” o “non classificabili come edificabili”.
Al criterio dell’edificabilità di fatto, dunque, potrebbe farsi riferimento in via complementare ed integrativa, agli effetti della determinazione del concreto valore di mercato dell’area espropriata, soltanto nelle ipotesi (estranee al caso in esame) in cui sussistano cause idonee a ridurre o escludere le possibilità reali di edificazione o in cui difetti una classificazione del suolo da parte della pianificazione urbanistica.
Si dovrebbe, perciò, concludere che, trattandosi di giudizio in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 359 del 1992, l’indennità di esproprio andrebbe liquidata alla stregua dei criteri dettati dalle norme censurate, con la conseguenza che la somma spettante alla parte privata per tale titolo risulterebbe irrisoria.
In questo quadro, sarebbe ravvisabile, in primo luogo, violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto delle dette norme con l’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dalla legge n. 848 del 1955.
Il giudice a quo riassume, al riguardo, i principi affermati da questa Corte con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, richiama il dettato della citata norma convenzionale e sottolinea che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha interpretato tale norma in numerose sentenze, «dando vita ad un orientamento ormai consolidato, formatosi anche in processi concernenti la disciplina ordinaria dell’indennità di espropriazione, secondo il quale una misura che costituisce un’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni di una persona fisica o giuridica deve realizzare un “giusto equilibrio” tra le esigenze di interesse generale della comunità ed il principio della salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali».
La necessità di salvaguardare detto equilibrio riguarderebbe, secondo la Corte europea, tutto il contenuto dell’art. 1 del primo protocollo.
Al fine di stabilire se le misure adottate da uno Stato, nell’interesse generale, garantiscano un giusto equilibrio e non riversino sul proprietario un peso sproporzionato, andrebbero prese in considerazione le modalità d’indennizzo previste dalle leggi interne. A questo proposito la Corte di Strasburgo avrebbe osservato che, senza il versamento di una somma ragionevole in rapporto al valore del bene, la privazione della proprietà che si realizza attraverso l’esproprio costituisce normalmente un’ingerenza eccessiva in violazione dell’art. 1 del primo protocollo, aggiungendo che, in caso di espropriazione isolata di un terreno, soltanto un indennizzo integrale può essere considerato ragionevole, mentre la mancanza di un tale indennizzo può giustificarsi soltanto in presenza di obiettivi legittimi di pubblica utilità, volti a perseguire misure di riforma economica o di giustizia sociale.
Ad avviso della Corte territoriale la normativa censurata, prevedendo un criterio di determinazione dell’indennità di esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, astratto e predeterminato (qual è quello del valore agricolo medio della coltura in atto o di quella più redditizia nella regione agraria di appartenenza dell’area da espropriare), quindi del tutto svincolato dal valore di mercato dei suoli stessi, non sarebbe in grado di assicurare all’avente diritto un indennizzo integrale o almeno “ragionevole”, così ponendosi in contrasto con l’art. 1 del primo protocollo, nell’interpretazione data dalla Corte europea.
Andrebbe escluso, poi, che tale interpretazione si ponga in conflitto con la tutela di interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. Infatti, anche l’art. 42, terzo comma, Cost. sarebbe stato interpretato da questa Corte nel senso che, per quanto il legislatore non sia tenuto ad individuare un unico criterio di determinazione dell’indennità, valido in ogni fattispecie espropriativa o idoneo ad assicurare l’integrale riparazione della perdita subita dal proprietario espropriato, l’indennità medesima non deve mai essere meramente simbolica o irrisoria, ma deve rappresentare un serio ristoro (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 5 del 1980).
È vero che, con sentenza n. 261 del 1997, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa censurata, sollevata in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24 e 42, terzo comma, Cost. La questione, però, in quella sede sarebbe stata affrontata in base a rilievi diversi, sicché la Corte si sarebbe limitata ad osservare che la soluzione adottata dal legislatore per semplificare il calcolo indennitario, ancorché non obbligata, non era irragionevole o arbitraria, in quanto di per sé non pregiudicava il serio ed effettivo ristoro del proprietario espropriato.
In questa sede, invece, verrebbe in evidenza l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo all’art. 1 del primo protocollo addizionale, in base alla quale non potrebbe ritenersi ragionevole qualsiasi criterio di determinazione dell’indennità che prescinda dal dato di partenza, costituito dal valore di mercato del bene espropriato, «non dovendosi più valutare se la norma interna di per sé “non pregiudichi” il serio ed effettivo ristoro della perdita del bene ma, piuttosto, se essa sia in grado di assicurare tale ristoro in ogni fattispecie in cui debba trovare applicazione e non solo in via occasionale, in virtù di fattori casuali e contingenti, legati alla specifica situazione del terreno ablato».
In tale prospettiva – prosegue la Corte territoriale – «è la stessa dicotomia immaginata dal legislatore al fine di semplificare il calcolo dell’indennizzo – e non già la mancata previsione di una terza tipologia di aree, intermedia tra quelle agricole e quelle edificabili – che appare priva di giustificazione».
La considerazione, del resto, sarebbe in linea con quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del 1980, poi ribadito nella sentenza n. 348 del 2007, ovvero che, affinché possa realizzarsi un serio ristoro «occorre far riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge» e che «il principio del serio ristoro è violato quando per la determinazione non si considerino le caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal valore di esso».
Tali principi, ancorché enunciati da questa Corte solo con riguardo ai terreni edificabili, dovrebbero ritenersi validi ed operanti anche in relazione ai terreni agricoli e, a maggior ragione, a quelli privi di possibilità legali ed effettive di edificazione, ai primi equiparati dalla legge n. 359 del 1992, perché nell’attuale contesto storico ed economico l’interesse del privato all’acquisto di tali categorie di terreni sarebbe determinato dalle possibilità di sfruttarli per fini diversi da quello di impiantarvi una coltivazione, sicché non sarebbe più predicabile una corrispondenza tra il loro valore agricolo medio e il loro valore di mercato.
Per le medesime ragioni, la questione di legittimità costituzionale delle norme censurate per violazione dell’art. 42, terzo comma, Cost. non sarebbe manifestamente infondata.
Infine, non sarebbe manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, e all’art. 16, commi quinto e sesto, della legge n. 865 del 1971, per violazione dell’art. 3 Cost.
Invero, rileva la rimettente, per effetto della sentenza di questa Corte n. 348 del 2007, risultano rimosse dall’ordinamento le disposizioni secondo le quali l’indennità di esproprio dei suoli edificabili andava determinata in misura pari alla media tra il valore venale e il reddito dominicale rivalutato degli ultimi dieci anni.
Per le espropriazioni ancora in corso (e per quelle future) è intervenuto l’art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008), il cui comma 89, lettera a), ha sostituito l’art. 37, comma 1, decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. Testo A), e successive modificazioni, statuendo che l’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata in misura pari al valore venale del bene e che, quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del 25 per cento. Per i giudizi ancora in corso, in cui è in contestazione la misura dell’indennità di esproprio, trova applicazione il criterio del valore venale del bene, previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica). In sostanza, quindi, fatta salva l’ipotesi di espropriazione finalizzata alla attuazione d’interventi di riforma economico-sociale (per i quali, comunque, è prevista una riduzione dell’indennità del solo 25 per cento), l’indennità di esproprio per i suoli edificabili è oggi corrispondente al valore di mercato del bene.
L’adozione del diverso criterio, astratto e predeterminato, previsto, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, dalle norme della cui legittimità costituzionale si dubita crea una ingiustificata disparità di trattamento tra i proprietari, non essendo ravvisabile alcuna plausibile ragione in base alla quale il diritto a ricevere un indennizzo commisurato al valore di mercato dell’area espropriata non debba essere riconosciuto anche a coloro che abbiano un terreno privo di vocazione edilizia.
3. — Nel giudizio di cui alla citata ordinanza n. 351 del 2010 si è costituita, con memoria depositata il 13 dicembre 2010, la signora W. F., parte privata nel giudizio de quo chiedendo che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della normativa censurata.
Dopo avere premesso che il terreno espropriato costituiva il retrostante “giardino-orto murato” del fabbricato di famiglia nel territorio di Montoro Superiore, che tale ente già dal 1997, con il piano regolatore generale, aveva eliminato i vincoli imposti con il programma di fabbricazione del 1972, classificando il fondo come edificabile, e che nel 2008 aveva alienato parte del suolo espropriato (mq.819), per l’importo di euro 86.256,00, la parte privata rileva che, con la sentenza n. 348 del 2007, questa Corte ha affermato il principio secondo cui, al fine di ritenere costituzionalmente legittima la norma che disciplina l’indennità di espropriazione, è necessario che questa costituisca un “serio ristoro” e che sussista un ragionevole legame tra l’indennizzo e il valore venale del bene, come prescritto dalla Corte di Strasburgo.
La mancanza del “ragionevole legame” tra l’indennizzo e il valore di mercato, rileva, ad avviso della deducente, anche con riguardo alle aree non edificabili, in quanto il valore agricolo medio risulterebbe di molto inferiore al detto valore di mercato (sono richiamati i dati emergenti dalle consulenze espletate durante il lungo iter del processo). Pertanto, la normativa censurata con l’ordinanza di rimessione contrasterebbe con i parametri costituzionali evocati in tale provvedimento, anche alla luce dei principi affermati da questa Corte con la sentenza n. 5 del 1980.
4. — La Corte di appello di Napoli, con ordinanza depositata il 7 aprile 2010 (r. o. n. 305 del 2010), dubita della legittimità costituzionale delle norme già censurate con l’ordinanza di cui si è trattato in precedenza, in riferimento ai medesimi parametri da questa evocati.
La Corte territoriale premette di essere chiamata a pronunciarsi in un giudizio vertente tra F. L. e il Comune di Salerno, avente ad oggetto la domanda di pagamento delle indennità di espropriazione e di occupazione temporanea, relative ad alcuni terreni di proprietà dell’attrice, espropriati dal Comune (con decreti del 10 febbraio 1998 e del 22 giugno 1999) per la realizzazione del parco del Mercatello.
Dopo avere esposto il complesso iter processuale della vicenda, la rimettente rileva che, con sentenza non definitiva, emessa in sede di rinvio dalla Corte di cassazione, il Collegio ha accertato: a) che il suolo era incluso dall’originario piano regolatore generale del Comune di Salerno, approvato con decreto del Presidente della giunta regionale in data 4 febbraio 1965, in zona intensiva C tipologia 9 a formazione lineare e semiaperta; e che una successiva variante, adottata con delibera della stessa amministrazione n. 71 del 18 dicembre 1989, definitivamente approvata dal Presidente della giunta regionale della Campania con decreto n. 7265 del 13 luglio 1994, aveva individuato una zona B (Pastena) omogenea già satura in cui l’aveva inclusa, con destinazione a standard urbanistici consistenti in spazi pubblici o riservati ad attività collettive, al verde pubblico, a parcheggi, a servizi pubblici, o attrezzature pubbliche d’interesse generico; b) che, sulla base dei criteri enunciati dalla Corte di cassazione, e cioè sulla base dell’esame dei requisiti oggettivi, di natura e struttura, che presentavano i vincoli contenuti nella variante, doveva ritenersi sussistente il carattere conformativo di essa (che consentiva di tenerne conto ai fini indennitari); c) che la natura inedificabile del suolo emergeva con chiarezza proprio dal disposto dell’art. 7, ultimo comma, della variante, secondo cui «Tutte le aree attualmente libere ricadenti nelle zone omogenee B, anche se comprese nei piani di recupero, a servizio o pertinenze (cortili, giardini e comunque spazi liberi a qualsiasi uso destinati) di fabbricati o gruppi di fabbricati, sono assolutamente inedificabili anche in sede di recupero, ristrutturazione o ricostruzione di manufatti esistenti».
Ciò posto, la Corte napoletana osserva che, per la determinazione delle indennità di espropriazione e di occupazione temporanea, dovrebbe applicarsi il criterio del valore agricolo medio, ai sensi dell’art. 16 legge n. 865 del 1971 (art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, che richiama appunto, per le aree agricole, le norme di cui al titolo II della legge n. 865 del 1971). Essa, però, dubita della legittimità costituzionale del citato art. 5-bis, comma 4 (applicabile ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge che lo ha introdotto), nonché della legittimità costituzionale dell’art. 16, commi quinto e sesto, della legge n. 865 del 1971, come sostituiti dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, in quanto tali norme contemplano un criterio di determinazione delle indennità per i suoli agricoli e per quelli non edificabili del tutto disancorato dal loro effettivo valore di mercato.
La rimettente segnala che la questione è rilevante in quel giudizio. Infatti essa, con sentenza non definitiva, ha accertato la natura non edificabile del suolo e il valore agricolo medio per le colture prevalenti (agrumeto e frutteto), riportate nei dati catastali. In particolare, espone che il detto valore, all’epoca dei decreti di esproprio (anni 1998 e 1999), era per il frutteto di lire 8.670 a mq. e, per l’agrumeto, di lire 13.770 a mq. per il 1998, ridotte poi a lire 12.000 a mq. nel 1999, a fronte di un valore di mercato (emergente dagli atti di comparazione acquisiti dal consulente di ufficio) pari a lire 59.524 per il 1996 (desunto da un atto notarile di compravendita) ed a lire 188.580 per il 1997 (desunto da un atto notarile di chiusura espropriativa).
A sostegno della non manifesta infondatezza, poi, svolge argomentazioni analoghe a quelle addotte nell’ordinanza depositata il 19 marzo 2010.
5. — Nel giudizio di legittimità costituzionale, con atto depositato il 4 novembre 2010, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
L’interveniente ripercorre l’iter normativo e giurisprudenziale, riguardante l’indennità di espropriazione, prendendo le mosse dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865. Richiama alcune leggi speciali, pone l’accento sulla legge n. 865 del 1971, come modificata dalla legge n. 10 del 1977, e rileva che con tale disciplina l’indennità fu commisurata al valore agricolo, ovvero allo stato dei luoghi relativo alle colture effettivamente praticate. Questa impostazione, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, fu determinata dal passaggio da un sistema di pianificazione edilizia di tipo autorizzatorio ad un sistema concessorio, in forza del quale lo jus aedificandi non fu più considerato una facoltà compresa nel diritto di proprietà del suolo ma una situazione giuridica attribuita a seguito di concessione. Tale normativa, però, non superò il vaglio di legittimità costituzionale (è richiamata la sentenza n. 5 del 1980), poiché questa Corte affermò che «l’indennizzo espropriativo deve costituire un “serio ristoro”, e pertanto deve essere riferito al valore del bene ricavabile dalle sue caratteristiche essenziali e dalla sua potenziale utilizzazione economica».
Dopo una normativa transitoria, ritenuta a sua volta costituzionalmente non legittima (sentenza n. 223 del 1983), il legislatore intervenne di nuovo con l’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, prevedendo due differenti criteri, il primo per i suoli edificabili (commi 1 e 2), il secondo per le aree agricole o, comunque, non edificabili (comma 4). Questi criteri, ritenuti costituzionalmente legittimi (è richiamata la sentenza n. 283 del 1993), furono in sostanza riprodotti dagli artt. 37 e 40, commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001, recante il T.U. delle espropriazioni per pubblica utilità.
Sul tema, però, intervenne la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con decisione del 29 marzo 2006 (in causa Scordino contro Italia), definì non ragionevole e iniqua l’indennità contemplata in applicazione del criterio di cui all’art. 5-bis, stabilendo, tra l’altro, che, pur sussistendo al riguardo un ampio potere discrezionale dello Stato, senza una somma ragionevolmente proporzionale al valore venale del bene, una privazione di proprietà costituisce generalmente un pregiudizio eccessivo, nonché chiarendo che un’assenza totale di indennizzo può giustificarsi, sotto il profilo dell’art. 1 (del protocollo addizionale), solo in circostanze eccezionali, ancorché detta norma non garantisca sempre il diritto ad una riparazione integrale.
In tema di ESPROPRIAZIONE PER P.U. – OPPOSIZIONE ALLA STIMA
non si puo’ che amaramente constatare come la legge italiana arriva cmq. ma sempre in ritardo spinta dal vento del Sud , cioe’ dopo 20 anni di furti della proprietà specie al Nord , ed in particolare per la tematica giurisprudenziale , ampiamente e rigorosamente trattata e messa in luce , ante litteram , gia’ in armonia con questa ennesima decisione della Consulta n. 181-2011, cfr. ahimè – contra – la Sent. Cass. Civile Sez. I n° 14636/2001 del 19-06-2001 e relativo e completo fascicolo d’ufficio (sentenza resa supinamente conforme a C. d’Appello di Torino n° 847/96) , confermando in materia ablatoria ancora una volta la disparita’ di trattamento antidemocratico e lesiva dei diritti umani e del diritto di proprietà sotteso ad una teoria vichiana dei Corsi e Ricorsi storici con periodicità ormai ultraventennale che rende il cittadino in ogni sua azione , anche intellettuale , disarmato e kenotico di fronte al pensiero dominante progressista e spietatamente comunista.
Nihil sub sole novi.
Error communis facit ius ….
Tanto x rimanere in tema di INDENNITA’ di ESPROPRIAZIONE x PU, a dimostrazione di come la Legge del giurista-socialista Amato (Legge 359-92) sia stato un antidemocratico ed inutile salasso x i cittadini italiani , ecco la recentissima sentenza della C.Costituzionale che dichiara INCOSTITUZIONALE la riduzione delle indennità x esproprio di Aree edificabili (ndr. opp. reputate tali) alla ultima o omessa Dichiarazione / Denuncia ICI prima del decreto di esproprio:
Sent. C.Cost n° 338-2011 depositata il 22.12.2011, circa l’incostituzionalità piena dell’ art. 16/1 comma del DLgs 504-92 e conseguenzialmente dell’art. 37, comma 7, DPR 327-01 (TUE) circa la riduzione dell’indennità di esproprio all’ultima ( o presunta) dichiarazione ICI presentata o correlata al terreno espropriato .
Finalmente un po’ di giustizia natalizia , ( v. IMU dal 1.1.2012), dal momento che questa norma si prestava ad una manipolazione estrema poiche’ finora le dichiarazioni ICI facevano riferimento alla partita catastale e non al mappale del terreno eventualmente espropriato per cui bastava bianchettarne l’importo o inserire agli atti una dichiarazione di altri terreni agricoli ricadenti nella stessa partita catastale del fondo espropriato per assurgerne il valore catastale rivalutato a limite max. x pagare l’indennità di espropriazione (Cfr. sempre C. d’Appello di Torino n° 847/96 ).
Infine , per completare la panoramica , mi permetto un richiamo alla Occupazione usurpativa o espropriazione illegittima : l’art. 43 del D.Lgs. 327/2001 (TU Espropri), reso incostituzionale da Sentenza C.Cost n. 293/2010 , rinominato articolo 42 bis ( Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico ) e reintrodotto dall’articolo 34 del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 (DL convertito con smi in Legge n. 111/2011 )è destinato prossimamente a risollevare le attenzioni della Consulta e quelle della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).