Accesso al patrocinio gratuito, non basta il reddito dichiarato – Cassazione penale, Sentenza n. 20580/2011
Con la sentenza 20580 del 24 maggio la Cassazione ha precisato che, in tema di gratuito patrocinio, la presunzione legale contenuta nell’articolo 76, comma 4-bis, del Dpr 115/2002 – laddove si ritiene superato ex lege il limite reddituale di accesso a tale istituto per i soggetti condannati in via definitiva per gravi tipologie delittuali – deve essere vinta dall’interessato con fatti e circostanze idonee a negare la percezione di redditi illeciti, non essendo sufficiente dare la prova di quanto realmente percepito dall’attività di lavoro, come risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi presentata.
Prima di esaminare nel dettaglio la citata pronuncia della Cassazione (vedi anche Cassazione 21974/2010), è opportuno fare una breve digressione sul quadro normativo di riferimento.
La disciplina del gratuito patrocinio
Il patrocinio a spese dello Stato (articolo 76, comma 1, parte III del Dpr 115/2002) prevede, come condizione di ammissione, il possesso “… di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a euro 10.628,16” (decreto interministeriale 20 gennaio 2009).
Sempre ai fini della determinazione del reddito imponibile per l’ammissione al gratuito patrocinio, il comma 3 dell’articolo 76 prevede che si deve tener conto “… anche dei redditi che per legge sono esenti dall’Irpef o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ovvero ad imposta sostitutiva”.
Infine, il comma 4-bis dell’articolo statuisce che “per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli articoli 416-bis del codice penale, 291-quater del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, e 74, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ai soli fini del presente decreto, il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti”.
Per quanto riguarda il reddito da prendere in considerazione per verificare la spettanza, o meno, del diritto al gratuito patrocinio, l’Amministrazione finanziaria ha precisato, nella risoluzione 15/2008, che bisogna riferirsi al “…reddito imponibile ai fini dell’Irpef, quale definito dall’art. 3 del Tuir, integrato dagli altri redditi indicati dall’art. 76 del D.P.R. n. 115 del 2002…” ossia quello “…risultante dall’ultima dichiarazione….formato per i residenti da tutti i redditi posseduti al netto degli oneri deducibili indicati nell’art. 10” (in senso conforme, vedi anche Cassazione 16583/2011).
In particolare, la disposizione contenuta nel comma 4-bis dell’articolo 76, ha introdotto, di fatto, una forte limitazione all’accessibilità all’istituto del gratuito patrocinio per quei soggetti che sono stati condannati – con sentenza definitiva – per i reati di associazione a delinquere di tipo mafioso, anche se straniera; associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri; produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope in forma aggravata; associazione finalizzata al traffico illecito delle predette sostanze.
In altri termini, il legislatore nazionale ha introdotto una presunzione iuris et de iure (che non ammette prova contraria) di insussistenza delle condizioni reddituali a carico di chi sia già stato condannato con sentenza irrevocabile per i predetti reati, considerati, per tipologia, tali da poter garantire al loro autore, anche se solo in via presuntiva, cospicue fonti di reddito di natura illecita.
Tuttavia, l’introduzione di un elenco di reati ostativi all’ammissione al gratuito patrocinio, ha suscitato, sin dalla sua istituzione, molte perplessità – soprattutto di una parte della dottrina penalistica – di carattere costituzionale, laddove la novella normativa aveva previsto una presunzione di carattere assoluto, non conciliabile con il vigente quadro costituzionale.
Infatti, con sentenza 139/2010, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 76, comma 4-bis, del Dpr 115/2002, nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocinio gratuito, non ammette la prova contraria.
In particolare, la Consulta ha precisato che non è irragionevole la circostanza per cui il legislatore presuma, sulla base della comune esperienza, che l’appartenente a un’organizzazione criminale, come quelle indicate nella norma censurata, abbia tratto dalla sua attività delittuosa profitti sufficienti per escluderlo dal beneficio del patrocinio a spese dello Stato, tuttavia, “…ciò che contrasta con i principi costituzionali è il carattere assoluto di tale presunzione, che determina una esclusione irrimediabile, in violazione degli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost….” con la conseguenza che “…si deve quindi ritenere che la norma censurata sia costituzionalmente illegittima nella parte in cui non ammette la prova contraria”.
Ha rilevato, inoltre, che “l’introduzione, costituzionalmente obbligata, della prova contraria, non elimina dall’ordinamento la presunzione prevista dal legislatore, che continua dunque ad implicare una inversione dell’onere di documentare la ricorrenza dei presupposti reddituali per l’accesso al patrocinio. Spetterà al richiedente dimostrare, con allegazioni adeguate, il suo stato di “non abbienza”, e spetterà al giudice verificare l’attendibilità di tali allegazioni, avvalendosi di ogni necessario strumento di indagine”.
Da ultimo, la Corte costituzionale chiarisce che “…certamente non potrà essere ritenuta sufficiente una semplice auto-certificazione dell’interessato, peraltro richiesta a tutti coloro che formulano istanza di accesso al beneficio, poiché essa non potrà essere considerata “prova contraria”, idonea a superare la presunzione stabilita dalla legge. Sarà necessario, viceversa, che vengano indicati e documentati concreti elementi di fatto, dai quali possa desumersi in modo chiaro e univoco l’effettiva situazione economico-patrimoniale dell’imputato”.
La sentenza della Cassazione
Un contribuente propone ricorso in Cassazione contro la decisione del tribunale di Milano che – nel confermare il decreto emesso dal Gip di non ammissione al gratuito patrocinio, sulla base della presunzione di superamento dei limiti reddituali da parte dell’istante, già definitivamente condannato per delitti di criminalità organizzata – aveva rigettato l’impugnazione dallo stesso presentata.
Il magistrato giudicante, in via pregiudiziale, rileva innanzitutto la manifesta infondatezza della prospettata questione di incostituzionalità della disposizione di cui al comma 4-bis dell’articolo 76 in quanto, prevedendo una presunzione solamente relativa, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, con inversione dell’onere della prova circa il non superamento del limite reddituale, posta a carico dell’istante, non pregiudica in alcun modo il diritto alla difesa.
Quanto al merito, invece, il giudice ritiene che la documentazione prodotta dall’istante non sia idonea a superare la predetta presunzione normativa.
Nel ricorso in Cassazione, il contribuente lamenta, per un verso, l’illegittimità costituzionale dell’articolo 76, comma 4-bis, del Dpr 115/2002, laddove codifica una presunzione di superamento del reddito con pregiudizio per il concreto esercizio del diritto di difesa, escludendo inoltre in maniera arbitraria alcune categorie di soggetti, nonché la violazione di legge, in quanto il giudice di merito aveva ritenuto che la documentazione prodotta non era idonea a dimostrare l’assenza di redditi superiore al limite massimo, atteso che la stessa legge ritiene sufficiente anche una mera autocertificazione.
Per i giudici di piazza Cavour, il ricorso non merita accoglimento, in quanto la disposizione che si presume violata – ossia l’articolo 76, comma 4-bis, del Dpr 115/2002 – prevede, in maniera chiara, una presunzione di superamento del limite di reddito per quei soggetti già condannati per gravissimi reati, da cui si ritiene che l’autore abbia beneficiato di redditi illeciti.
La norma, precisa la Corte, è in linea con il consolidato principio (cfr, Cassazione, sentenza 45159/2005) secondo il quale, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, rilevano anche i redditi da attività illecite, che possono essere accertati con gli ordinari mezzi di prova, tra cui le presunzioni semplici di cui all’articolo 2729 del codice civile.
Infine, la Cassazione, nel richiamare i principi espressi dalla Consulta nella sentenza 139/2010, ricorda che spetta al ricorrente dimostrare, con documentazione adeguata, il suo stato di “povertà”, e poi al giudice verificarne l’attendibilità, avvalendosi di ogni necessario strumento di indagine.
Ne consegue che la questione di incostituzionalità della disposizione è manifestamente infondata, in quanto, con la sentenza 139/2010, lo stesso giudice delle leggi ha ratificato la compatibilità della norma con i principi della Costituzione, laddove la presunzione venga qualificata appunto come relativa e non assoluta.
Nel merito, la Corte osserva che la decisione è coerentemente e logicamente motivata quanto alla lamentata violazione di legge, per non avere il giudice di merito ritenuto idonea ad attestare il mancato superamento del reddito la produzione della documentazione attestante l’attività lavorativa.
Infatti, conclude la Cassazione, “…a fronte della operatività di una presunzione in base alla quale, un condannato per associazione di tipo mafioso, si ritiene titolare di redditi superiori al limite di legge, l’istante, per superare la presunzione, non può limitarsi ad attestare quali sia l’entità dei suoi redditi da lavoro, considerato che la disposizione di cui al comma 4-bis, fa presumere la percezione di redditi illeciti che vanno oltre quelli regolarmente dichiarati. Per cui grava sull’istante l’onere di provare il contrario, allegando fatti e circostanze idonei a negare la percezione di redditi illeciti e non semplicemente a dare la prova positiva di quanto percepito da attività di lavoro”.
Marco Denaro
nuovofiscooggi.it