Individuazione dei termini del processo amministrativo e criteri di computo degli stessi – Consiglio di Stato, Sentenza n. 3252/2011
In ordine alla individuazione dei termini del processo amministrativo ed ai criteri di computo degli stessi, in virtù del rinvio operato dall’art. 39, co. 1, c.p.a. trova applicazione la disciplina dettata dal codice di procedura civile salve le deroghe tipizzate dal c.p.a. Ai fini del computo dei termini si estende al processo amministrativo la disciplina dettata dall’art. 155 c.p.c.; il c.p.a. aggiunge a tale disciplina alcune precisazioni in tema di giorno festivo e di sabato.
Quanto al caso in cui il giorno di scadenza sia festivo, la proroga di diritto al primo giorno seguente non festivo opera non solo per i termini legali, ma anche per quelli fissati dal giudice (art. 52, co. 3, c.p.a.); inoltre, nel caso di termini che si computano a ritroso (come per i giorni liberi prima dell’udienza), la scadenza viene anticipata al giorno antecedente non festivo (art. 52, co. 4, c.p.a. che recepisce un consolidato indirizzo della giurisprudenza, cfr. Cass., 12 dicembre 2003, n. 19041); è altresì pacifico che quando la legge indica il termine riferendosi ad un certo numero di giorni liberi, il suddetto numero di giorni esclude tanto il dies a quo quanto il dies ad quem (cfr., fra le tante, Cass., 12 dicembre 2003, n. 19041 cit.; 20 maggio 2002, n. 7331).
Il sabato è stato equiparato ai festivi (in virtù della novella di cui all’art. 2, co. 11, d.l. n. 263 del 2005, in vigore dal 1° marzo 2006); l’equiparazione opera però al solo fine del compimento degli atti processuali svolti fuori dell’udienza che scadono di sabato, onde consentire agli avvocati di procedere ai relativi adempimenti, concernenti i termini di notifica e deposito che scadono di sabato, il successivo lunedì; a tutti gli altri effetti il sabato è considerato giorno lavorativo, anche per quanto attiene, dunque, alle attività di ufficiali giudiziari e di addetti agli uffici ricorsi, come dispone espressamente l’art. 155 c.p.c. (tanto emerge implicitamente dal decreto del presidente del Consiglio di Stato n. 83 del 2010 che ha disciplinato, con decorrenza 1° ottobre 2010, gli orari di apertura al pubblico dell’ufficio ricevimento ricorsi e delle segreterie delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato).
Il c.p.a. esplicita l’applicabilità della disciplina sul sabato anche al processo amministrativo (art. 52, co. 5, c.p.a., in tal senso si era già espressa la preferibile giurisprudenza, cfr. Cons. St., sez. IV, 18 febbraio 2008, n. 446).
Questa regola, però, vale solo per i termini che si calcolano in avanti, e non anche per i termini che si calcolano a ritroso; infatti l’art. 52, co. 5, c.p.a. estende al sabato solo la <<proroga di cui al comma 3>>, ossia la proroga dei giorni che scadono di giorno festivo, e dunque non anche il meccanismo di anticipazione di cui al co. 4; ne consegue che se un termine a ritroso scade di sabato, esso non va anticipato al venerdì, così come se il termine a ritroso scade di domenica, va anticipato al sabato e non al venerdì.
6.3. Le parti possono presentare memorie e repliche in vista dell’udienza di discussione; prima del codice le parti potevano produrre documenti fino a venti giorni liberi anteriori al giorno fissato per l’udienza e presentare memorie fino a dieci giorni liberi (art. 23, co. 4, l. T.a.r.).
6.3.1. Il nuovo codice ha allungato tali termini, per meglio garantire lo studio degli atti processuali ad opera del giudice e delle parti ed ha aggiunto l’istituto delle repliche (ammesso dalla precedente prassi); pertanto le parti possono produrre documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza, memorie fino a trenta giorni liberi e repliche fino a venti giorni liberi (art. 73, co. 1, c.p.a.); lo scopo della previsione è quello di consentire alla controparte di disporre dei termini ivi previsti per visionare altrui documenti e memorie.
Stante la su enucleata ratio legis, prima del codice si è affermato che se l’ultimo giorno libero cade in giorno festivo, il deposito va anticipato al giorno precedente pena la tardività della produzione (cfr. Cons. giust. amm. 30 marzo 2009, n. 215); tanto è ora sancito espressamente dal c.p.a. secondo cui per i termini computati a ritroso, quali quelli in esame, la scadenza è anticipata al giorno antecedente non festivo, ma la regola, come già visto, non si applica per i termini a ritroso che scadono di sabato (art. 52, co. 4, c.p.a.).
6.3.2. Prima del codice era disputata la natura perentoria o meno dei termini per il deposito di documenti e memorie prevalendo da ultimo la tesi che, quantomeno avuto riguardo al termine per le memorie, questo fosse perentorio integrando un precetto di ordine pubblico processuale a garanzia dell’interesse del giudice a conoscere in tempo utile gli atti processuali (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. V, n. 5245 del 2009; sez. VI, n. 4699 del 2008).
La questione ha trovato espressa soluzione nel c.p.a. a tenore del quale la presentazione tardiva di memorie o documenti può essere eccezionalmente autorizzata dal collegio, su richiesta di parte, quando la produzione nel termine di legge risulta estremamente difficile; in ogni caso va assicurato il pieno rispetto del diritto delle controparti al contraddittorio sugli atti tardivamente depositati (art. 54, co. 1, c.p.a.).
Se ne desume che:
a) i termini di deposito di documenti, memorie e repliche sono imposti a pena di decadenza;
b) il deposito tardivo è possibile solo se c’è un autorizzazione del collegio che si atteggia a rimessione in termini per errore scusabile, come ipotesi speciale di essa, di cui condivide i presupposti;
c) va comunque garantito il contraddittorio.
La giurisprudenza successiva all’entrata in vigore del codice ha ribadito che tali termini sono perentori a garanzia del contraddittorio e della corretta organizzazione del lavoro del giudice (cfr. Cons. St., sez. V, 1 aprile 2011, n. 2032; sez. V, 29 marzo 2011, n. 1910; sez. VI, 16 febbraio 2011, n. 984).
(Litis.it, 1 Giugno 2011 – Riproduzione riservata)
–
Se hai necessità di ottenere una consulenza su questo argomento puoi utilizzare il pulsante qui sotto per metterti in contatto con uno specialista della materia.
Consiglio di Stato, Sezione Quinta, Sentenza n. 3252 del 31/05/2011
FATTO e DIRITTO
1. Con decisione di questa sezione n. 7398 del 12 ottobre 2010, in riforma della sentenza di primo grado, è stato respinto il ricorso proposto dal Centro Casalinghi s.r.l. (in prosieguo la società), avverso il diniego di apertura di una media struttura di vendita nel comune di Francavilla Fontana.
1.1. La menzionata sentenza, all’esito di uno specifico incombente istruttorio, ha ritenuto legittimo il diniego sulla scorta di due autonome ragioni:
a) la prima, fondata sulla previsione del p.i.p. che ha localizzato gli insediamenti commerciali nell’asse di Grottaglie, in zona diversa da quella prescelta dalla società ricorrente;
b) la seconda, imperniata sul carattere necessitato del diniego, in quanto attuativo delle previsioni del piano comunale di sviluppo commerciale approvato con delibera n. 15 del 13 aprile 1997 e mai impugnato.
2. Con ricorso notificato in data 2 dicembre 2010, e depositato il successivo giorno 9 dicembre, la società ha proposto domanda di revocazione della sentenza n. 7398 cit. limitandosi a richiamare genericamente gli artt. 93 c.p.a. e 395 c.p.c.
2.1. Nell’impugnazione si osserva che:
a) la sentenza n. 7398 del 2010 ha fondato la propria decisione sulla cartografia esibita dal comune all’esito dell’incombente istruttorio;
b) successivamente alla pubblicazione della sentenza n. 7398 la società ha acquisito un parere dal progettista del piano degli insediamenti produttivi (dott. Franco Di Maso), datato 8 novembre 2010, nel quale si precisano le nozioni e gli ambiti dell’asse per Grottaglie, le finalità dell’intervento, la compatibilità urbanistica della scelta progettuale avversata dal comune;
c) la documentazione fornita dall’ufficio tecnico comunale, parte interessata, sarebbe errata e tanto condurrebbe alla revocazione della più volte menzionata sentenza n. 7398.
3. Si è costituito il comune di Francavilla Fontana eccependo l’inammissibilità della revocazione sotto plurimi profili (cfr. atto di costituzione depositato in data 25 gennaio 2011 e memoria depositata in data 11 aprile 2011); in particolare è stata dedotta l’insanabile genericità della domanda di revocazione in quanto priva della puntuale indicazione del vizio revocatorio, stante l’impossibilità di comprendere se, nella specie, la ricorrente abbia inteso riferirsi a quello sancito dal n. 4) dell’art. 395 c.p.c. (errore di fatto risultante dagli atti di causa), ovvero a quello divisato dal n. 3) del medesimo art. 395 c.p.c. (rinvenimento di documento decisivo).
3.1. Con memoria non notificata (depositata in segreteria lunedì 18 aprile 2011), la società ha precisato, per la prima volta, che la sentenza di questa sezione n. 7398 sarebbe affetta da errore di fatto ai sensi dell’art. 395 n. 4), c.p.c.
3.2. Con nota di replica depositata il 22 aprile 2011, la difesa del comune ha evidenziato la tardività della memoria difensiva in quanto depositata dalla ricorrente il 18 aprile, oltre il termine perentorio di 30 giorni liberi antecedenti all’udienza sancito dall’art. 73, co. 2, c.p.a.
4. La causa è passata in decisione all’udienza pubblica del 17 maggio 2011.
5. Il ricorso per revocazione è manifestamente inammissibile.
6. Preliminare la sezione deve esaminare l’eccezione, sollevata dalla difesa del comune, di tardività della memoria difensiva depositata dalla parte ricorrente il giorno lunedì 18 aprile 2011.
6.1. L’eccezione è fondata.
6.2. In ordine alla individuazione dei termini del processo amministrativo ed ai criteri di computo degli stessi, in virtù del rinvio operato dall’art. 39, co. 1, c.p.a. trova applicazione la disciplina dettata dal codice di procedura civile salve le deroghe tipizzate dal c.p.a.
Ai fini del computo dei termini si estende al processo amministrativo la disciplina dettata dall’art. 155 c.p.c.; il c.p.a. aggiunge a tale disciplina alcune precisazioni in tema di giorno festivo e di sabato.
Quanto al caso in cui il giorno di scadenza sia festivo, la proroga di diritto al primo giorno seguente non festivo opera non solo per i termini legali, ma anche per quelli fissati dal giudice (art. 52, co. 3, c.p.a.); inoltre, nel caso di termini che si computano a ritroso (come per i giorni liberi prima dell’udienza), la scadenza viene anticipata al giorno antecedente non festivo (art. 52, co. 4, c.p.a. che recepisce un consolidato indirizzo della giurisprudenza, cfr. Cass., 12 dicembre 2003, n. 19041); è altresì pacifico che quando la legge indica il termine riferendosi ad un certo numero di giorni liberi, il suddetto numero di giorni esclude tanto il dies a quo quanto il dies ad quem (cfr., fra le tante, Cass., 12 dicembre 2003, n. 19041 cit.; 20 maggio 2002, n. 7331).
Il sabato è stato equiparato ai festivi (in virtù della novella di cui all’art. 2, co. 11, d.l. n. 263 del 2005, in vigore dal 1° marzo 2006); l’equiparazione opera però al solo fine del compimento degli atti processuali svolti fuori dell’udienza che scadono di sabato, onde consentire agli avvocati di procedere ai relativi adempimenti, concernenti i termini di notifica e deposito che scadono di sabato, il successivo lunedì; a tutti gli altri effetti il sabato è considerato giorno lavorativo, anche per quanto attiene, dunque, alle attività di ufficiali giudiziari e di addetti agli uffici ricorsi, come dispone espressamente l’art. 155 c.p.c. (tanto emerge implicitamente dal decreto del presidente del Consiglio di Stato n. 83 del 2010 che ha disciplinato, con decorrenza 1° ottobre 2010, gli orari di apertura al pubblico dell’ufficio ricevimento ricorsi e delle segreterie delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato).
Il c.p.a. esplicita l’applicabilità della disciplina sul sabato anche al processo amministrativo (art. 52, co. 5, c.p.a., in tal senso si era già espressa la preferibile giurisprudenza, cfr. Cons. St., sez. IV, 18 febbraio 2008, n. 446).
Questa regola, però, vale solo per i termini che si calcolano in avanti, e non anche per i termini che si calcolano a ritroso; infatti l’art. 52, co. 5, c.p.a. estende al sabato solo la <<proroga di cui al comma 3>>, ossia la proroga dei giorni che scadono di giorno festivo, e dunque non anche il meccanismo di anticipazione di cui al co. 4; ne consegue che se un termine a ritroso scade di sabato, esso non va anticipato al venerdì, così come se il termine a ritroso scade di domenica, va anticipato al sabato e non al venerdì.
6.3. Le parti possono presentare memorie e repliche in vista dell’udienza di discussione; prima del codice le parti potevano produrre documenti fino a venti giorni liberi anteriori al giorno fissato per l’udienza e presentare memorie fino a dieci giorni liberi (art. 23, co. 4, l. T.a.r.).
6.3.1. Il nuovo codice ha allungato tali termini, per meglio garantire lo studio degli atti processuali ad opera del giudice e delle parti ed ha aggiunto l’istituto delle repliche (ammesso dalla precedente prassi); pertanto le parti possono produrre documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza, memorie fino a trenta giorni liberi e repliche fino a venti giorni liberi (art. 73, co. 1, c.p.a.); lo scopo della previsione è quello di consentire alla controparte di disporre dei termini ivi previsti per visionare altrui documenti e memorie.
Stante la su enucleata ratio legis, prima del codice si è affermato che se l’ultimo giorno libero cade in giorno festivo, il deposito va anticipato al giorno precedente pena la tardività della produzione (cfr. Cons. giust. amm. 30 marzo 2009, n. 215); tanto è ora sancito espressamente dal c.p.a. secondo cui per i termini computati a ritroso, quali quelli in esame, la scadenza è anticipata al giorno antecedente non festivo, ma la regola, come già visto, non si applica per i termini a ritroso che scadono di sabato (art. 52, co. 4, c.p.a.).
6.3.2. Prima del codice era disputata la natura perentoria o meno dei termini per il deposito di documenti e memorie prevalendo da ultimo la tesi che, quantomeno avuto riguardo al termine per le memorie, questo fosse perentorio integrando un precetto di ordine pubblico processuale a garanzia dell’interesse del giudice a conoscere in tempo utile gli atti processuali (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. V, n. 5245 del 2009; sez. VI, n. 4699 del 2008).
La questione ha trovato espressa soluzione nel c.p.a. a tenore del quale la presentazione tardiva di memorie o documenti può essere eccezionalmente autorizzata dal collegio, su richiesta di parte, quando la produzione nel termine di legge risulta estremamente difficile; in ogni caso va assicurato il pieno rispetto del diritto delle controparti al contraddittorio sugli atti tardivamente depositati (art. 54, co. 1, c.p.a.).
Se ne desume che:
a) i termini di deposito di documenti, memorie e repliche sono imposti a pena di decadenza;
b) il deposito tardivo è possibile solo se c’è un autorizzazione del collegio che si atteggia a rimessione in termini per errore scusabile, come ipotesi speciale di essa, di cui condivide i presupposti;
c) va comunque garantito il contraddittorio.
La giurisprudenza successiva all’entrata in vigore del codice ha ribadito che tali termini sono perentori a garanzia del contraddittorio e della corretta organizzazione del lavoro del giudice (cfr. Cons. St., sez. V, 1 aprile 2011, n. 2032; sez. V, 29 marzo 2011, n. 1910; sez. VI, 16 febbraio 2011, n. 984).
6.4. Facendo applicazione dei su esposti principi al caso di specie, risulta evidente che il deposito della memoria difensiva della società ricorrente, avvenuto lunedì 18 aprile 2011 in vista dell’udienza di discussione della presente controversia fissata per il giorno 17 marzo 2011, è tardivo perché effettuato oltre il termine ultimo per legge individuato nel giorno sabato 16 aprile 2011.
6.5. Dall’assodata tardività della memoria depositata dalla società ricorrente, dalla insussistenza dei presupposti per la concessione dell’errore scusabile (alla luce dei rigorosi principi da ultimo enucleati dall’adunanza plenaria di questo Consiglio n. 3 del 2010), nonché dalla natura meramente illustrativa delle comparse conclusionali, discende l’inutilizzabilità processuale della memoria depositata il 18 aprile 2011, in ordine all’integrazione o specificazione di fatti costitutivi di domande ed eccezioni non ritualmente proposte, con tutte le ulteriori conseguenze connesse all’applicazione dell’art. 26 c.p.a. (cfr. Cons. St., sez. V, 1 aprile 2011, n. 2032; 29 marzo 2011, n. 1926).
7. Passando all’esame della domanda di revocazione osserva il collegio che la stessa si palesa manifestamente inammissibile.
7.1. In primo luogo deve evidenziarsi che il ricorrente non ha indicato, nella domanda di revocazione notificata alla controparte, alcuna delle tassative cause di revocazione previste dall’art. 395 c.p.c. sotto la previsione della quale sussumere la concreta vicenda; il che rende inammissibile la relativa domanda di revocazione, esercitata al di fuori dei casi tipici ammessi dalla legge. Essendo la revocazione una impugnazione a critica vincolata, il motivo di revocazione ha la funzione di passaggio obbligato; ne consegue l’impossibilità di integrazione o modificazione e, a maggior ragione, di introduzione di nuovi motivi nel corso del giudizio se ciò non avvenga nel rispetto delle formalità di rito e del termine decadenziale previsto (cfr. ex plurimis Cons. St., sez. V, 13 febbraio 2009, n. 822; Cass., sez. lav., 9 giugno 1994, n. 5603; nella specie, per quanto sopra osservato, la precisazione del vizio revocatorio è avvenuta irritualmente).
7.2. In ogni caso il paventato travisamento di fatto, costitutivo dell’abbaglio dei sensi, cade su una serie di circostanze che hanno costituito punti controversi su cui la sezione si è espressamente pronunciata, e si traduce, in realtà, in una diversa (asseritamente erronea) valutazione delle risultanze probatorie a suo tempo acquisite al thema decidendum.
Tanto contrasta con la previsione normativa sancita dall’art. 395 n. 4), c.p.c. (cfr. ex plurimis, Cons. St., sez. V, 29 marzo 2011, n. 1910; Cons. giust. amm., 12 agosto 2010, n. 1108; Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2009, n. 1829; ad. plen., 11 giugno 2001, n. 3).
7.3. Per completezza la sezione rileva che appare ictu oculi inconfigurabile anche il vizio revocatorio previsto dal n. 3) dell’art. 395 c.p.c. venendo in rilievo un documento formato successivamente alla pubblicazione della sentenza impugnata e, per giunta, privo del carattere della decisività (cfr. ex plurimis Cons. St., sez. IV, 31 magio 2007, n. 2809, cui si rinvia a mente dell’art. 74 c.p.a.).
8. In conclusione la revocazione deve essere dichiarata inammissibile.
9. Le spese di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo.
10. La pronuncia di inammissibilità della revocazione si fonda su ragioni manifeste e su consolidati indirizzi giurisprudenziali e interviene dopo che nei due gradi fisiologici del giudizio, in cui si articola il processo amministrativo, tutte le domande e le doglianze proposte dalla parte ricorrente sono state esaminate compiutamente.
10.1. L’art. 26, co. 2, c.p.a. stabilisce che <<Il giudice, nel pronunciare sulle spese, può altresì condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati>>.
La relazione illustrativa al c.p.a. esplicita che <<per quanto attiene alle spese del giudizio si è operato il richiamo delle pertinenti disposizioni del codice di procedura civile; inoltre è stato previsto che il giudice possa condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento …..di una somma di denaro … quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati>> (p. 21).
E’ evidente, pertanto, che tale disposizione costituisce ipotesi speciale rispetto all’archetipo divisato dall’art. 96, co. 3, c.p.c. (introdotto dalla l. n. 69 del 2009); quest’ultima norma, infatti, non tipizza i presupposti applicativi della condanna officiosa della parte soccombente al pagamento della somma equitativamente determinata.
10.2. La norma sancita dall’art. 96, co. 3 risulta indeterminata nei suoi presupposti potendo essere comminata in ogni caso di condanna del soccombente alle spese processuali (ma questa criticità è invece assente nell’art. 26, co. 2 cit., che anzi consente la condanna solo in presenza di due ben individuate circostanze); generica nei criteri di liquidazione che potrebbero ritenersi disancorati da ogni parametro di riferimento; equivoca in ordine alla natura dello strumento; derogatoria rispetto al principio della domanda.
Lo scopo immediato della norma è quello di approntare una soddisfazione in denaro alla parte risultata vincitrice in un processo civile; indirettamente si coglie l’ulteriore intento della legge di arginare il proliferare di <<cause superflue>> che appesantiscono oggettivamente gli uffici giudiziari ostacolando la realizzazione del <<giusto processo>> attraverso il rispetto del valore (costituzionale ed internazionale) della ragionevole durata del processo.
La previsione del pagamento della somma in esame:
a) non riguarda le spese di lite (quantificate con la condanna alle spese secondo la logica propria delle disposizioni sancite dagli artt. 91 e 92 c.p.c.);
b) non riguarda la responsabilità da lite temeraria (tipizzata dai commi 1 e 2 dell’art. 96 c.p.c.);
c) non riguarda la pretesa sostanziale (sulla quale statuisce il contenuto dispositivo della sentenza).
d) non è configurabile quale sanzione pubblica atteso che:
I) il gettito non è devoluto all’erario (arg. ex artt. 123, co. 1, c.p.a.; 15, disp. att. c.p.a.; 246 bis, codice dei contratti pubblici, introdotto dall’art. 4, co. 2, lett. ii), d.l. 13 maggio 2011, n. 70);
II) non sono indicati i limiti o i criteri oggettivi di liquidazione; sotto tale angolazione è evidente la differenza che si coglie, a titolo esemplificativo e confinando l’analisi al solo ambito del processo amministrativo, con le autentiche sanzioni previste dagli artt. 18, co. 7, 123, co. 1, c.p.a., 246 bis, codice dei contratti pubblici (tale ultima norma è particolarmente significativa perché ancora il potere officioso di condanna del giudice amministrativo ai medesimi presupposti stabiliti dall’art. 26, co. 2, c.p.a., ovvero <<… ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati>>).
10.3. A questo punto conviene, sia pur sinteticamente, individuare la natura giuridica della misura pecuniaria in esame, non tanto per ragioni teoriche, quanto per le ricadute pratiche in ordine all’individuazione della disciplina cui soggiace per gli aspetti diversi da quelli direttamente presi in considerazioni dal comma 3: si pensi all’applicabilità o meno del t.u. sulle spese di giustizia, ovvero al problema della cumulabilità di tale somma con eventuali sanzioni, pubbliche o private irrogabili dal giudice in occasione del processo, ovvero con il risarcimento del danno per lite temeraria liquidato ai sensi dei primi due commi del medesimo articolo.
Scartata la natura di sanzione pubblica, tale somma, secondo la più attenta dottrina, può essere qualificata:
a) come un indennizzo per il <<danno lecito da processo>>, cioè il nocumento che la parte vittoriosa ha subito per l’esistenza e durata del processo, anche se la controparte non ha agito o resistito in mala fede o senza prudenza;
b) come una forma speciale di responsabilità aggravata derogatoria del regime generale sancito dall’art. 96, co. 1 e 2, c.p.c. (sotto il limitato profilo della mancanza della domanda di parte e della prova specifica del danno subito), ma pur sempre sussumibile nel genus della responsabilità civile da processo e dunque configurabile solo in presenza di tutti gli altri elementi della fattispecie (temerarietà della lite, esistenza del danno nell’an, nesso di causalità fra condotta illecita processuale e danno);
c) come una pena privata inflitta officiosamente dal giudice per reprimere l’abuso dello strumento del processo.
La tesi sub c) non appare condivisibile in quanto il carattere officioso della inflizione della pena privata non appare conforme alle caratteristiche generali dell’istituto che postula normalmente la richiesta della parte interessata al giudice (come espressamente stabilito, ad es., dall’art. 114, co. 4, lett. c), c.p.a. che prevede, sulla falsariga di quanto stabilito dall’art. 614 bis c.p.c., una astreinte processuale consistente in una sanzione pecuniaria per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato (lo stesso è a dire per molte altre ipotesi di pene private previste dal nostro ordinamento, si pensi, a titolo di esempio, all’art. 70 disp. att. c.c. in materia di violazioni dei regolamenti condominiali; all’art. 12 della legge sulla stampa, agli artt. 63 e 83 della legge sui marchi e brevetti).
Inoltre non sembra che la norma in esame, per la sua collocazione sistematica, la genesi storica ed il tenore testuale, abbia inteso introdurre una clausola generale repressiva dell’abuso del processo.
Sotto tale angolazione appare evidente la differenza con la norma sancita dall’ultimo comma dell’art. 385 c.p.c. (introdotto dalla l. n. 40 del 2006 e successivamente abrogato dalla l. n. 69 del 2009), che era stata intesa dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità come foriera di una <<pena privata>> tesa a sanzionare la condotta necessariamente maliziosa della parte che, in violazione del dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 Cost., abbia illecitamente abusato dello strumento processuale del ricorso in cassazione (cfr. Corte cost., 23 dicembre 2008, n. 435/ord.; Cass., sez. un., 11 dicembre 2007, n. 25831).
Anche la tesi sub b) non appare percorribile.
La mera collocazione della disposizione all’interno dell’art. 96 c.p.c. non significa che si possa prescindere dalle conseguenze derivanti dall’interpretazione letterale e teleologica della norma; il contenuto del precetto si colloca in contrapposizione esplicita alle ipotesi divisate dai primi due commi del medesimo articolo, prescinde da qualsivoglia riferimento a fattispecie di danno, sfugge al principio della domanda che innerva il sistema della responsabilità civile.
La tesi sub a), invece, oltre a non collidere con la ratio e la lettera della norma, si inserisce armonicamente nel sistema costruito dall’ordinamento nel suo complesso per rendere effettivo il principio di ragionevole durata del processo; tale norma si affianca alle misure previste dalla c.d. l. Pinto (n. 89 del 2001), chiamando la parte che abbia dato corso (o abbia resistito) ad (in) un processo oggettivamente ritenuto ingiustificabile a indennizzare la controparte che è stata costretta a subirlo.
10.4. La liquidazione della somma è affidata all’equità, qui intesa nel tradizionale significato di criterio di valutazione giudiziario correttivo o integrativo, teso al contemperamento, nella logica del caso concreto, dei contrapposti interessi rilevanti secondo la coscienza sociale.
Nel silenzio della legge sul punto concernente l’individuazione dei parametri cui agganciare la determinazione equitativa, possono considerarsi ammissibili una molteplicità di criteri alcuni dei quali ispirati alla logica dei danni punitivi di matrice anglosassone che ben si prestano ad assicurare, pur nell’alveo della responsabilità civile, la (indiretta) funzione di deterrenza sanzionatoria del proliferare dei processi, sganciati come sono dalla dimostrazione anche presuntiva di un pregiudizio da compensare (il riferimento è al rimedio del disgorgement che consente all’interessato di colpire l’autore della condotta contra ius attraverso la retroversione degli utili conseguiti). Tale impostazione ha trovato ingresso nella più recente giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2010, n. 11353 relativa a fattispecie di liquidazione del risarcimento del danno all’immagine ammesso in una logica non meramente compensativa del pregiudizio subito); in questo caso gli eventuali utili conseguiti a cagione della ingiusta attivazione o resistenza nel processo e della sua durata, ben potrebbero costituire parametro di riferimento, accanto ovviamente, a più tradizionali criteri, come quello del valore della controversia ovvero al riferimento ad una percentuale delle spese di lite sostenute dalla parte vincitrice (in tal senso è la prassi forense civile formatasi in sede di prima applicazione dell’art. 96, co. 3, c.pc.; in termini Cons. St., sez. V, 24 gennaio 2011, n. 241/ord.).
Nella specie il collegio, in assenza di elementi fattuali che consentano l’applicazione di parametri diversi, non ha motivo di discostarsi dal criterio della <<percentuale sulle spese di lite>> e, conseguentemente, stima equo condannare la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 26, co. 2, c.p.a., ad una somma pari a quella liquidata a titolo di refusione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quinta), definitivamente pronunciando sul ricorso meglio specificato in epigrafe:
a) dichiara inammissibile la domanda di revocazione e per l’effetto conferma la sentenza impugnata;
b) condanna la società ricorrente a rifondere in favore del comune di Francavilla Fontana le spese, gli onorari e le competenze del presente giudizio che liquida in complessivi euro 5.000/00 oltre accessori come per legge (12,50% a titolo rimborso spese generali, I.V.A. e C.P.A.);
c) condanna la società ricorrente a pagare, ai sensi dell’art. 26, co. 2, c.p.a., in favore del comune di Francavilla Fontana la somma di euro 5.000/00.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 maggio 2011 con l’intervento dei magistrati:
Stefano Baccarini, Presidente
Vito Poli, Consigliere, Estensore
Francesco Caringella, Consigliere
Carlo Saltelli, Consigliere
Doris Durante, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 31/05/2011