La domanda proposta con il ricorso straordinario può essere assimilata ad una vera e propria domanda giudiziale – Consiglio di Stato, Sentenza n. 3224/2011
Se è vero che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica costituisce un rimedio giustiziale alternativo a quello giurisdizionale, sebbene di più ristretta latitudine circa le azioni esperibili, la giurisprudenza è andata progressivamente sottolineando la sostanziale equivalenza e l’assimilazione del ricorso straordinario medesimo al ricorso giurisdizionale (cfr. Cass., SS.UU., 28 gennaio 2011, n. 2065).La scelta dello strumento attraverso cui articolare la domanda di giustizia è alternativa, e l’avvenuta proposizione del ricorso straordinario comportava di suo – come si è visto alla luce del precedente di cui a Cons. Stato, VI, 16 ottobre 2007, n. 5409 – l’implicita domanda di ripetizione delle somme corrisposte.
La domanda proposta con il ricorso straordinario può essere assimilata ad una vera e propria domanda giudiziale, in quanto comunque consistente in un rimedio di giustizia connotato dai caratteri essenziali del contraddittorio, della terzietà, dell’imparzialità, e ormai riconosciuto anche come assistito dalla coercibilità mediante il giudizio d’ottemperanza (Cass., SS.UU., n. 2065 del 2011, cit.).
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Consiglio di Stato, Sezione Sesta, Sentenza n. 3224 del 30/05/2011
FATTO
Con la sentenza impugnata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio (Roma) ha deciso il ricorso proposto dall’odierna appellante Wind Telecomunicazioni s.p.a per l’esecuzione del giudicato sulla sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, III, 23 gennaio 2008, n. 483, resa sul ricorso R.G. 3206/2007, proposto avverso la nota del Ministero dell’economia e delle finanze del 7 febbraio 2007 prot. n. 13869.
La vicenda che precedeva questa sentenza originava con l’impugnazione proposta mediante ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, notificato il 4 agosto 2000, da Infostrada s.p.a. (di cui Wind Telecomunicazioni s.p.a. è successore universale, avendola incorporata per fusione nell’anno 2001) avverso il d.m. 21 marzo 2000, con il quale erano state determinate le modalità attuative del contributo di cui all’art 20, comma 2, l. 23 dicembre1998, n. 448.
La società Infostrada (che aveva provveduto al pagamento del contributo per gli anni 1999, 2000 e 2001) aveva presentato quel ricorso e a seguito di questione interpretativa sollevata dal Consiglio di Stato, con sentenza C-292-01 del 18 settembre 2003 la Corte di Giustizia delle Comunità europee aveva affermato l’incompatibilità con il diritto comunitario della prestazione pecuniaria di cui all’art 20, comma 2, l. 23 dicembre1998, n. 448.
Con d.P.R. 26 ottobre 2004 era stato accolto il ricorso straordinario (nel cui contesto era stata sollevata la questione) e disposto l’annullamento del decreto ministeriale impugnato.
La Wind Telecomunicazioni s.p.a. aveva perciò domandato la restituzione del contributo. L’Amministrazione però aveva omesso di ottemperare: e soltanto dopo che con la ricordata sentenza n. del 483 del 2008 del Tribunale amministrativo era stato annullato il provvedimento di diniego datato 17 dicembre 2008, il Ministero dell’economia aveva provveduto alla restituzione della somma capitale di euro 24.314.915,95.
Non erano però stati corrisposti gli interessi legali sulle somme indebitamente versate da Infostrada s.p.a..
Nel corso del giudizio di primo grado all’esito del quale fu resa la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, anche a seguito delle precisazioni dell’Amministrazione la questione si è incentrata sulla decorrenza degli interessi medesimi.
L’odierna appellante Wind Telecomunicazioni s.p.a. assumeva che questi fossero calcolati dalla data dei versamenti effettivi, mentre secondo l’Amministrazione (che non contestava l’an debeatur) erano dovuti dalla data della proposizione della domanda giudiziale.
Wind Telecomunicazioni s.p.a. rappresentava che per “domanda giudiziale” doveva essere considerato, in ogni caso, il proposto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Il primo giudice ha rammentato la disciplina comune sulla ripetizione dell’indebito ed ha considerato che non si poteva dubitare che l’Amministrazione fosse in buona fede al momento sia del versamento dei contributi (dal 2000 al 2002), sia della presentazione del ricorso amministrativo (in data 4 agosto 2000). Ciò perché il pagamento del contributo si basava (non solo su un decreto ministeriale, ma) su una norma di legge, la cui incompatibilità con il diritto comunitario era stata dichiarata dalla Corte di Giustizia con la sopracitata decisione. Ne discendeva che la decorrenza doveva coincidere con la proposizione della domanda giudiziale: ma posto che la prima vera domanda giudiziale di interessi era quella contenuta nel ricorso ai sensi dell’art. 21-bis l. 6 dicembre 1971, n. 1034 proposto al Tribunale amministrativo regionale del Lazio con atto notificato il 18 aprile 2006, che condusse alla affermazione dell’obbligo dell’Amministrazione di provvedere alla domanda di rimborso avanzata dalla Wind Telecomunicazioni s.p.a. (sentenza n. 5746 del 2006), la decorrenza dell’obbligo di corresponsione degli interessi stessi coincideva con la data del 18 aprile 2006 e non con la data della presentazione del ricorso straordinario (4 agosto 2000).
La sentenza affermava che la tesi di Wind Telecomunicazioni s.p.a., per cui la domanda giudiziale andava ravvisata già nel ricorso straordinario notificato il 28 luglio 2000 non era accoglibile perché in detto atto mancava una specifica domanda di interessi. Dato che l’azione di ripetizione di indebito viene esercitata in base ad un diritto soggettivo, non si poteva utilmente richiamare l’effetto conformativo del giudicato per farvi derivare il dovere restitutorio.
La Wind Telecomunicazioni s.p.a. ha proposto appello chiedendo la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo. Riepilogata in punto di fatto la vicenda contenziosa (la stessa Wind Telecomunicazioni s.p.a. il 19 aprile 2005 aveva presentato una diffida a provvedere sulla domanda di restituzione delle somme indebitamente corrisposte dalla Infostrada s.p.a., comprensiva di interessi e rivalutazione), essa ha affermato che l’effetto ripristinatorio e conformativo del giudicato discendente dalla sentenza n. 483 del 2008 implicava la corresponsione degli interessi dalla domanda giudiziale contro il decreto impositivo del contributo (id est: la domanda di annullamento del d.m. 21 marzo 2000, proposta il 4 agosto 2000 con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica). Era poi errato il richiamo alla disciplina civilistica dell’art. 2033 Cod. civ., che finiva con l’equiparare Wind Telecomunicazioni s.p.a. (che era insorta avverso l’imposizione dell’obbligo di corrispondere un contributo) a qualsiasi operatore di telefonia che avesse domandato la restituzione di quanto indebitamente corrisposto. L’accoglimento della domanda di annullamento del decreto proposta con il ricorso straordinario comprendeva un effetto ripristinatorio integrale. In via subordinata, Wind Telecomunicazioni s.p.a. evidenziava che non era corretta l’affermazione della sentenza che dava per scontato che l’Amministrazione fosse in buona fede al momento della percezione delle somme, per il solo fatto che ciò era prescritto da una norma di legge. Detta norma era illegittima per contrasto con il diritto comunitario (come rilevato dalla Corte di Giustizia CE) e dunque l’Amministrazione avrebbe senz’altro dovuto disapplicarla.
L’Amministrazione assume invece che l’obbligo di corrispondere gli interessi sulle somme indebitamente versate dall’appellante non poteva decorrere che dalla vera e propria domanda giudiziale. Tale non poteva considerarsi quella contenuta nel ricorso straordinario avverso il d.m. marzo 2000, atteso che in quella sede non era stata avanzata una domanda di corresponsione degli interessi. La decorrenza dell’obbligo, pertanto, non poteva essere individuata che dal 18 aprile 2006, cioè dalla data in cui Wind Telecomunicazioni s.p.a.. aveva notificato la domanda giudiziale di corresponsione degli interessi.
L’appellante ha poi ribadito le doglianze, chiedendo l’accoglimento dell’appello.
Alla odierna pubblica udienza del 15 aprile 2011 la causa è stata posta in decisione.
DIRITTO
1.L’appello è fondato e va accolto nei termini che seguono.
2. Come rilevato in fatto, la domanda giudiziale di ottemperanza ribadita dall’appellante ha subito una contrazione a seguito della dichiarata volontà dell’Amministrazione – espressa già in primo grado – di corrispondere gli interessi sulla somma indebitamente corrispostale dall’appellante Wind. Telecomunicazioni s.p.a.. Il tema controverso residuo, e da decidere, concerne perciò la decorrenza di questo obbligo, che l’Amministrazione stessa pone alla data della “domanda giudiziale”.
Per quanto riguarda la qualificazione della domanda, fermo che si verte di “diritti patrimoniali consequenziali” ad un annullamento comunque ricadente nell’ambito della giustizia amministrativa, appare corretto quanto assunto dal primo giudice, vale a dire che si tratta di ripetizione di indebito soggettivo ai sensi dell’art. 2033 Cod. civ.. Si tratta infatti – si può precisare – di condictio indebiti ob causam finitam, dato che la causa del pagamento in origine sussisteva ma è poi venuta retroattivamente meno per effetto dell’annullamento presidenziale del titolo. Non si ha, a questo riguardo, concreta ragione di ritenere superata la presunzione di buona fede in capo all’Amministrazione accipiens, posto che aveva ricevuto il pagamento in forza di una legge esistente ed allora pienamente efficace: sicché corretto è, ai sensi dell’ultima parte dell’art. 2033, che gli interessi decorrano dal giorno della domanda.
La questione consiste allora, in sostanza, nell’identificazione della data della domanda giudiziale, vale a dire della data in cui, agendo in giustizia, l’odierna appellante ha effettivamente domandato in sede giudiziale la corresponsione degli interessi sulla somma che le doveva essere restituita.
L’interessata afferma che questa domanda formava contenuto implicito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto nel 2000, l’Amministrazione afferma invece che questa domanda non appariva presente nel ricorso straordinario e dunque non vi era implicita, e che ha formato contenuto espresso solo del ricorso giurisdizionale proposto nel 2006, allorché l’interessata medesima domandò al giudice amministrativo la restituzione dei contributi indebitamente pagati in esecuzione dell’imposizione poi annullata dalla decisione, intervenuta nel 2004, sul ricorso straordinario.
Al riguardo, il Collegio anzitutto considera che questa specifica sequenza ricorso straordinario – ricorso giurisdizionale afferisce alla tutela di un unico effettivo bene della vita, vale a dire il non assoggettamento al contributo del rammentato 20, comma 2, l. 23 dicembre1998, n. 448 (incidentalmente, nel 2003, dichiarato dalla Corte di Giustizia delle CE contrastante con il diritto comunitario), che era il titolo dell’adempiuto obbligo di pagamento dei contributi.
Stando all’assetto naturale degli interessi, è in vista del conseguimento dell’effettivo bene, vale a dire della restituzione delle somme versate (oltre che della cessazione dell’obbligo per il futuro), e non della mera rimozione formale dell’atto impositivo, che l’interessata presentò nel 2000 il ricorso straordinario contro gli atti impositivi formalizzanti quell’imposizione. Nondimeno, considerata la stretta tipicità dell’azione proponibile con il ricorso straordinario, per norma primaria limitata all’annullamento dell’atto (artt. 8, 13 e 14 d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199), il petitum formale sviluppato in quella sede fu, e non poteva essere che, quello del mero annullamento dell’atto impositivo. L’estensione della domanda alla condanna dell’Amministrazione alla restituzione delle somme di cui sarebbe risultata debitrice, sarebbe stata inammissibile in quella sede.
In questo specifico contesto, la circostanza che, a seguito di quell’annullamento presidenziale, l’interessata abbia proposto un ricorso giurisdizionale volto alla condanna alla restituzione delle somme di cui l’Amministrazione ormai risultava debitrice (processo concluso con il giudicato favorevole di cui alla sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, III, 23 gennaio 2008, n. 483), non rappresenta dunque una vicenda distinta ed autonoma, ma lo sviluppo logico e consequenziale di una medesima, complessa domanda di giustizia, la cui articolazione in queste due successive scansioni risultava necessitata in forza della limitatezza del tipo di azione proponibile con il primo mezzo. Il ricordato bene sostanziale della vita al cui conseguimento tendeva l’interessata era infatti il medesimo, ed in vista di quello l’annullamento dell’atto impositivo rappresentava soltanto lo strumento intermedio.
Così stando le cose, non è dato – se non assecondando un approccio formalistico ed estraneo alla valutazione degli interessi effettivi perseguiti con questa sequenza giustiziale – spostare in avanti l’addebito degli interessi all’Amministrazione al momento della proposizione del secondo ricorso, ed affrancarla dal periodo intermedio alla prima proposizione della domanda in giustizia. In altri termini, escludere dal contenuto logicamente implicito del primo ricorso l’aspettativa alla restituzione dell’indebito (discendente dall’annullamento), significa convertire di fatto l’interesse all’annullamento dell’atto impositivo da interesse-mezzo (petitum formale) a interesse-fine, obiettivo della domanda di soddisfazione in giustizia: quando invece l’interesse-fine (petitum sostanziale) è quello alla ripetizione effettiva della somma corrisposta a indebito titolo di contributo.
Si può aggiungere, con riguardo alla ratio dell’art. 2033 Cod. civ., che se è vero che la condizione di buona fede beneficia del posticipo al momento della domanda giudiziale dell’addebito degli interessi, essa cessa comunque con la domanda medesima, vale a dire con l’invocazione, in contraddittorio, di una tutela di giustizia, per effetto della quale l’accipiens non può si può più presumere ignorare le ragioni del solvens. In altri termini, la condizione di buona fede dell’accipiens non è più presumbile da quando un ricorso, poi risultato fondato, abbia indicato all’accipiens medesimo le ragioni per cui il titolo del pagamento non era valido. Vero è che a regolare la decorrenza è la buona o mala fede al momento del pagamento, nondimeno è proprio l’equilibrio di legge tra il buon diritto di chi ha pagato e l’affidamento di chi ha ricevuto ad indicare che la buona fede cessa con questo conoscere, con la domanda, la giusta ragione del solvens: conoscenza che, a questi specifici fini, è già adeguata con la semplice invocazione in giustizia dell’assenza della validità del titolo.
Così stando le cose, non può ragionevolmente tornare in danno dell’interessata il non aver potuto spiegare la domanda formale di condanna al pagamento già in sede di ricorso straordinario, e dunque l’attesa economicamente infruttuosa del decorso del tempo necessario per l’annullamento dell’atto impositivo: diversamente, i principi sulla ragionevole durata del processo e sulla possibilità di domandare tempestiva tutela giurisdizionale (art. 111, 24 e 113 Cost.) ne sarebbero vulnerati, perché si riverserebbe sulla parte che domanda riparazione l’impedimento a immediatamente domandarla, con quel mezzo, in modo effettivamente pieno.
2.1 Queste conclusioni sono conformi all’orientamento (risolutivo di un contrasto di giurisprudenza interna) di Cass., SS.UU., 5 agosto 1994, n. 7269, secondo cui, nella ripetizione di indebiti contributi previdenziali, gli interessi dovuti dall’accipiens amministrazione in buona fede decorrono dalla domanda amministrativa anziché dalla data della domanda giudiziale, sulla base della considerazione che quella domanda giudiziale va preceduta, come condizione di proponibilità e presupposto inderogabile, dalla presentazione della domanda amministrativa. Sicché la domanda amministrativa – che ha caratteristiche analoghe alla giudiziale quanto a certezza del dies a quo e all’idoneità a rendere consapevole l’accipiens dell’indebito – va equiparata, per la decorrenza degli interessi, alla domanda giudiziale a pena della violazione degli artt. 3 e 24 Cost..
Quell’assetto presenta la medesima ratio di quello di cui qui si tratta, essendo anche qui patente che la ripetizione giudiziale dei contributi in questione presuppone necessariamente un altro procedimento, quello per l’annullamento dell’atto impositivo spiegato con il ricorso straordinario. Non è di ostacolo a ravvisare questa eadem ratio la circostanza che quella domanda amministrativa già ha la medesima latitudine di quella giudiziale, perché lì non vi è un provvedimento da annullare: non rileva dunque il petitum formale, ma la necessaria articolazione in due successive scansioni per conseguire un unico effettivo bene della vita.
Vale pertanto, in analogia, la medesima conclusione.
Ma anche a circoscrivere la questione ai meri effetti dell’annullamento presidenziale a seguito di ricorso straordinario (e, corrispondentemente, alla prospettiva di quella domanda), non è fuor di luogo ricordare che l’effetto retroattivo dell’annullamento giudiziale priva di effetti l’atto annullato sin dal momento della sua emanazione (è questo un principio fondamentale connaturato alla giurisdizione amministrativa: cfr. Cons. Stato, V, 4 ottobre 2007 n. 5137). Dall’annullamento disposto dal giudice amministrativo conseguono non solo effetti conformativi e ripristinatori, ma anche costitutivi che si producono, al pari degli altri, retroattivamente.
La specificità della presente vicenda sta da un lato nella circostanza che l’annullamento è stato disposto in sede di decisone su un ricorso straordinario, da un altro che quella domanda aveva ad oggetto non direttamente il bene della vita illegittimamente sottratto come effetto dell’atto impugnato, bensì un antecedente meramente formale di quello.
In una tale situazione, l’accoglimento presidenziale della domanda di annullamento proposta con il ricorso straordinario comportava, come effetto implicito retroattivo, la costituzione del conseguente obbligo di restituzione di quanto non aveva ormai più titolo, vale a dire della somma già indebitamente corrisposta per contributo. Cioè la doverosa restituzione, evidentemente dal giorno di quella domanda, del bene illegittimamente negato dall’atto di cui, in quella sede, si domandava l’annullamento.
Tutto questo è sufficiente a chiarire che la domanda di annullamento, che è il solo dispositivo formale proprio del ricorso straordinario, implicava in quello stesso mezzo la domanda del venir meno del titolo del pagamento e dunque della doverosa restituzione. Nel che consiste appunto la domanda giudiziale di pagamento a norma dell’art. 2033, ultima parte, Cod. civ., di cui qui si verte.
2.2. Si può anche osservare che già l’ottemperanda sentenza del Tribunale amministrativo n. 483 del 2008 conteneva premesse per una statuizione conforme alle pretese dell’appellante. La sentenza dichiaratamente si uniforma, in diritto, al precedente di cui a Cons. Stato, VI, 16 ottobre 2007, n. 5409 (sulla domanda di ottemperanza al giudicato proposta da Telecom Italia s.p.a. avente ad oggetto la restituzione delle somme versate allo stesso titolo di quelle per cui qui ora è causa) e ribadisce perciò che la sentenza di annullamento del giudice amministrativo – e analogamente la decisione presidenziale sul ricorso straordinario – oltre al c.d. effetto caducatorio o demolitorio (consistente nella eliminazione dell’atto impugnato) produce un effetto ripristinatorio e un effetto conformativo. L’effetto ripristinatorio, per quel precedente, implica la cancellazione delle modificazioni della realtà giuridica e fattuale intervenute a causa dell’atto annullato e cioè l’adeguamento dell’assetto di interessi (esistente prima della pronuncia giurisdizionale e venuto in vita con l’atto impugnato), alla situazione giuridica prodotta dalla pronuncia stessa. Perciò il ripristino dello status quo ante va qui inteso in relazione al conseguimento satisfativo del bene della vita che era messo in discussione dall’atto rimosso e l’obbligo di restituzione si configura come un effetto della decisione resa in sede straordinaria (in quel caso, fu azionata omisso medio in ottemperanza la pretesa restitutoria, come effetto derivante automaticamentedalla retroattività dell’annullamento giurisdizionale).
Da queste affermazioni della sentenza ottemperanda discende la fondatezza della pretesa di corresponsione degli accessori, vale a dire degli interessi dalla proposizione dell’originaria domanda in sede di ricorso straordinario, spiegata dall’odierna appellante.
3. Tutte queste considerazioni sono confortate dal rilievo che, se è vero che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica costituisce un rimedio giustiziale alternativo a quello giurisdizionale, sebbene di più ristretta latitudine circa le azioni esperibili, la giurisprudenza è andata progressivamente sottolineando la sostanziale equivalenza e l’assimilazione del ricorso straordinario medesimo al ricorso giurisdizionale (cfr. Cass., SS.UU., 28 gennaio 2011, n. 2065).
3. Non ha rilievo la circostanza che l’interessata avrebbe potuto spiegare ricorso giurisdizionale anziché ricorso straordinario, perché la scelta dello strumento attraverso cui articolare la domanda di giustizia è alternativa, e l’avvenuta proposizione del ricorso straordinario comportava di suo – come si è visto alla luce del precedente di cui a Cons. Stato, VI, 16 ottobre 2007, n. 5409 – l’implicita domanda di ripetizione delle somme corrisposte.
3.1. Del resto, alla stregua del rilievo per cui il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica può avere ad oggetto la sola domanda costitutiva di annullamento di un provvedimento amministrativo e non la domanda di accertamento di un diritto soggettivo o di condanna al pagamento di somme, quand’anche in materia oggetto di giurisdizione esclusiva amministrativa, l’odierna appellante non avrebbe potuto formulare la restituzione delle somme versate e la corresponsione degli interessi con la domanda di annullamento propria del ricorso straordinario. Purtuttavia, la domanda proposta con quel ricorso può essere assimilata ad una vera e propria domanda giudiziale, in quanto comunque consistente in un rimedio di giustizia connotato dai caratteri essenziali del contraddittorio, della terzietà, dell’imparzialità, e ormai riconosciuto anche come assistito dalla coercibilità mediante il giudizio d’ottemperanza (Cass., SS.UU., n. 2065 del 2011, cit.).
4. Il primo giudice ha respinto la pretesa dell’appellante Wind Telecomunicazioni s.p.a. perché non condivideva la tesi non tanto in relazione alla peculiarità del ricorso straordinario, ma piuttosto alla mancanza in tale atto di una specifica domanda di interessi.
4.1. Il Collegio non condivide tale assunto, perchè per le ragioni che precedono la domanda di annullamento dell’atto amministrativo, che formava oggetto del ricorso straordinario, va considerata – per ciò che interessa il tema qui da decidere – come una domanda giudiziale orientata anche alla restituzione dell’indebitamente corrisposto a titolo di imposizione.
Va ribadito che l’annullamento (con la decisione di un ricorso straordinario) di un atto non sempre rappresenta l’utilità ultima cui tende il ricorrente, perché può avere effetto realmente satisfativo in ipotesi di atto a contenuto negativo, ma non è così quando l’atto ha medio tempore prodotto una modificazione giuridica della realtà, come come nel presente caso di introduzione di un titolo impositivo. In siffatta ipotesi, la domanda di annullamento implica, seppur tacitamente, l’aspirazione a conseguire quell’effetto finale, anche se mediante la forma di un’eventuale ulteriore domanda.
L’assunto del primo giudice comporta insomma l’elusione della portata ripristinatoria della decisione di annullamento. Il ripristino dello status quo ante, a fronte di un adempimento patrimoniale mostratosi una dazione senza causa, comprende gli accessori del credito, con decorrenza retroattiva alla data di proposizione della domanda di annullamento.
Il ricorso in appello va pertanto accolto, con assorbimento delle ulteriori doglianze.
5. Conclusivamente: dalla restaurazione dello status quo ante discendente dalla decisione presidenziale di annullamento dell’atto impositivo discende l’obbligo di restituzione dell’indebito e, accessoriamente, della corresponsione degli interessi in favore dell’odierna appellante, con decorrenza dalla data della proposizione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica volto all’annullamento del d.m. 21 giugno 2000.
In riforma dell’appellata sentenza, va pertanto accolto, nei termini di cui alla motivazione, il ricorso di primo grado e per l’effetto va affermato l’obbligo delle appellate Amministrazioni, in ottemperanza alla sentenza del Tribunale amministrativo del Lazio (Roma) n. 483 del 2008 a corrispondere gli interessi sulle somme indebitamente versate dall’appellante – detratte quelle già corrisposte – calcolati a decorrere dalla presentazione del ricorso straordinario. L’adempimento dovrà avvenire entro giorni trenta dalla comunicazione in via amministrativa, o dalla notificazione, se antecedente, della presente sentenza.
Alla soccombenza consegue la condanna in solido delle appellate Amministrazioni al pagamento delle spese di questo giudizio in favore di Wind Telecomunicazioni s.p.a., in misura che pare congruo determinare, avuto riguardo alla natura della controversia ed alle complessità delle questioni, nella misura complessiva di euro diecimila/00 (€ 10.000,00), oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)definitivamente pronunciando sull’appello, numero di registro generale 4597 del 2010 come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma dell’appellata sentenza, accoglie il ricorso di primo grado e dispone l’obbligo delle appellate Amministrazioni, in ottemperanza alla sentenza del Tribunale amministrativo del Lazio (Roma) n. 483/2008 di corrispondere gli interessi sulle somme indebitamente versate dall’appellante società nei termini di cui in motivazione, con decorrenza dalla data della proposizione del ricorso straordinario al Capo dello Stato per l’annullamento del d.m. 21 giugno 2000, entro il termine di giorni trenta dalla comunicazione in via amministrativa, o dalla notificazione, ove antecedente, della presente sentenza.
Condanna in solido le appellate Amministrazioni pagamento delle spese del giudizio in favore dell’appellante nella misura complessiva di euro diecimila (€ 10.000,00), oltre accessori di legge se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 aprile 2011 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Roberto Garofoli, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 30/05/2011