Principi regolatori dell’ultrapetizione nel processo amministrativo – Consiglio di Stato, Sentenza n. 3191/2011
L’ultrapetizione è annoverato quale possibile vizio delle pronuncia giudiziale in tutti i sistemi processuali contraddistinti dall’osservanza del principio fondamentale (contenuto nell’art. 112 c.p.c.) della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato; principio al quale, come è ben noto, si conforma anche il processo amministrativo, stante, in particolare il richiamo oggi contenuto nell’art. 39 del c.p.a. Tale norma, infatti, determina le caratteristiche di fondo della giurisdizione amministrativa quale giurisdizione soggettiva e non oggettiva, caratteristiche che, proprio in conformità al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, implicano che la materia del contendere resti rigorosamente delimitata alla stregua delle censure proposte dal ricorrente, salve le eventuali eccezioni in specifico indicate dal legislatore (ad esempio in materia di dichiarazione di inefficacia del contratto ex artt. 121 e ss. c.p.a.; ovvero per i ricorsi ex art. 146, comma 13, del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 nel senso che tali ricorsi sono decisi anche se, dopo la loro proposizione, ovvero in grado di appello, il ricorrente dichiari di rinunciare o di non avervi più interesse).
In specifico, la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di rilevare che tale regola rappresenta, proprio con riferimento al concreto esercizio della potestas judicandi, l’espressione precipua del potere dispositivo delle parti, nel senso che il giudice non può pronunciare oltre i limiti della concreta ed effettiva questione che le parti hanno sottoposto al suo esame e, dunque, oltre i limiti del petitum e della causa petendi, ulteriormente specificati, sempre nel particolare ambito del processo amministrativo, dai motivi di ricorso (Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 30 settembre 2002, n. 4986).
Va – altresì, e sia pure marginalmente – denotato che la medesima giurisprudenza ricava dal principio testé descritto l’ulteriore conseguenza per cui il giudice, nell’affrontare le diverse questioni prospettate dalla parte ricorrente, deve preliminarmente esaminare e decidere quelle questioni o quei motivi che, evidenziando in astratto una più radicale illegittimità del provvedimento o dei provvedimenti impugnati, appaiono idonei a soddisfare più pienamente ed efficacemente l’interesse sostanziale del ricorrente medesimo, per passare poi, soltanto in caso di rigetto di tali censure, agli esami degli altri motivi, che, pur idonei a provocare l’annullamento del provvedimento, evidenzino profili meno radicali di illegittimità.
Allo stesso modo si ricavano, quale ulteriore corollario, le regole che presiedono al corretto esercizio, da parte dello stesso giudice, del potere di assorbimento dei motivi, in forza delle quali, non ponendosi tutte le censure sullo stesso piano logico e sostanziale, non è consentito prescindere dalla pronuncia su alcuna questione della quale si riconosca la rilevanza nella fattispecie, in considerazione esclusivamente del risultato cui praticamente il giudicante pervenga in base a diverso criterio di decisione, comunque ostativo della cognizione di merito delle domande delle parti.
La giurisprudenza è, comunque, pervenuta da tempo alla conclusione che il principio di necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato consente al giudice di fondare la sua decisione anche su un percorso logico-giuridico difforme da quello prospettato dal ricorrente, con il solo (e ovvio) limite che tale difformità non si basi su fatti nuovi, non ritualmente dedotti in giudizio, ovvero su censure non dedotte dalla parte ricorrente (Cfr., ad es., Cons. Stato, sez. IV, 11 dicembre 1984, n. 910).
(© Litis.it, 30 Maggio 2011 – Riproduzione riservata)
Consiglio di Stato, Sezione QUinta, Sentenza n. 3191 del 27/05/2011
FATTO
1. Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Napoli, sez. V, con la sentenza n. 16016 del 24 giugno 2010, definitivamente pronunciando sul ricorso proposto da [OMISSIS], annullava la Delibera di Giunta Comunale n. 81 del 19/11/2009, la Determina n. 141 del 20/11/2009, la Delibera di Giunta n. 90 dell’1/12/2009 di nomina della Commissione esaminatrice, il bando di concorso e tutti gli atti e verbali del concorso interno per la copertura tramite progressione verticale di 1 posto – ctg.D.
Nella prospettiva ricostruttiva del ricorrente, si esponeva che, relativamente all’anno 2009, la Giunta Comunale aveva previsto la necessità di garantire, mediante procedura di stabilizzazione, 1 posto, categ. C, nell’area Assetto e Utilizzazione del Territorio (IV), in quanto posto vacante da moltissimi anni e mai coperto; viceversa, con successiva delibera, n. 81 del 19.11.2009, l’Organo esecutivo del Comune aveva approvato un aggiornamento del programma annuale e triennale del fabbisogno di personale per gli anni 2009-2010-2011, prevedendo la necessità di garantire, per il 2009, in difformità da quanto previsto con la delibera antecedente, la copertura, mediante procedura di progressione verticale, di n. 1 posto, categ. D, nell’Area Segreteria e Attività di supporto agli organi istituzionali.
Parte ricorrente, in primo grado, lamentava la disparità di trattamento, la violazione dell’art. 97 Cost., degli artt. 127, 128 e 130 del Regolamento degli uffici e dei servizi del Comune, nonché dell’art. 124 del Decr. Lgs. n.267/2000.
2. La sentenza impugnata, rilevava, in via preliminare, che la potestà regolamentare in materia di accesso al lavoro e di avviamento al lavoro deve esercitarsi in riferimento, nella definizione delle procedure per le assunzioni, ai principi fissati dall’art. 36, comma 3, del D.Lgs. 29/93 (comma 3), principi ora contenuti nell’art. 35 del D.Lgs. n.165/01, secondo cui l’assunzione deve avvenire mediante procedure selettive volte all’accertamento della professionalità richiesta, che garantiscano adeguatamente l’accesso dall’esterno e siano conformi ai principi di trasparenza, imparzialità, economicità ed efficacia.
Il principio sancito da tale art. 35, comma 1, secondo il quale per la costituzione del rapporto di pubblico impiego devono superarsi procedure selettive, è applicabile, in via generale, anche con riferimento all’attribuzione al dipendente di una qualifica superiore (in base alle disposizioni contenute nei contratti collettivi cui rinvia l’art. 40, comma 1 dello stesso Decreto Legislativo), dato che, a norma del successivo art. 52, comma 1, la qualifica superiore viene acquisita dal lavoratore per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive (cfr. Cons. Giust. Ammin., 29.6.2005, n. 412); pertanto, concludeva la sentenza, le procedure che consentono il passaggio da un’area inferiore a quella superiore integrano un vero e proprio concorso.
In tale ottica, rileva ancora il Giudice territoriale, viene in evidenza la giurisprudenza costituzionale, giuslavoristica e amministrativa (Corte costituzionale n. 1 del 1999 e n. 194 del 2002; Corte di Cassazione, SS. UU 15.10.2003, n. 15403; Consiglio di Stato, parere del 9 novembre 2005) che ha evidenziato come con il citato art. 35 il Legislatore abbia stabilito che l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche deve avvenire con contratto individuale di lavoro tramite procedure selettive.
Conclusivamente, il TAR riscontrava la violazione di legge posta in essere dall’Amministrazione nella misura in cui, oltre che violando la riserva per i dipendenti in servizio (ai sensi del Testo Unico degli Enti Locali n. 267/2000, all’art. 91 e art. 4 del C.C.N.L. per il personale del comparto delle Regioni – Autonomie Locali Testo Unico), è andata comunque di contrario avviso con la relativa disposizione dell’art. 109 dell’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi che contempla una riserva per gli esterni dei posti messi a concorso.
3. L’appellante impugnava la sentenza citata, sul presupposto che la stessa avrebbe violato i limiti segnati dalla norma contenuta nell’art. 112 c.p.c.
In subordine, l’appellante contestava l’assunto del TAR, sostenendo la legittimità del concorso riservato solo agli interni.
Si costituiva [OMISSIS] ritenendo l’insussistenza dell’asserita ultrapetizione della sentenza del TAR, atteso che fondamentalmente la sentenza impugnata avrebbe comunque assicurato al ricorrente il bene della vita richiesto in primo grado, consistente nell’annullamento della gara.
Venivano, inoltre, riproposte le censure di primo grado non esaminate dal TAR.
All’udienza pubblica del 12 aprile 2012 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
4. L’appello deve ritenersi fondato.
4.1. L’appellante ha sollevato, preliminarmente, l’eccezione di violazione dei limiti segnati dalla norma contenuta nell’art. 112 c.p.c.
Come è noto, l’ultrapetizione è annoverato quale possibile vizio delle pronuncia giudiziale in tutti i sistemi processuali contraddistinti dall’osservanza del principio fondamentale (contenuto, appunto, nel citato art. 112 c.p.c.) della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato; principio al quale, come è ben noto, si conforma anche il processo amministrativo, stante, in particolare il richiamo oggi contenuto nell’art. 39 del c.p.a.
Tale norma, infatti, determina le caratteristiche di fondo della giurisdizione amministrativa quale giurisdizione soggettiva e non oggettiva, caratteristiche che, proprio in conformità al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, implicano che la materia del contendere resti rigorosamente delimitata alla stregua delle censure proposte dal ricorrente, salve le eventuali eccezioni in specifico indicate dal legislatore (ad esempio in materia di dichiarazione di inefficacia del contratto ex artt. 121 e ss. c.p.a.; ovvero per i ricorsi ex art. 146, comma 13, del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 nel senso che tali ricorsi sono decisi anche se, dopo la loro proposizione, ovvero in grado di appello, il ricorrente dichiari di rinunciare o di non avervi più interesse).
In specifico, la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di rilevare che tale regola rappresenta, proprio con riferimento al concreto esercizio della potestas judicandi, l’espressione precipua del potere dispositivo delle parti, nel senso che il giudice non può pronunciare oltre i limiti della concreta ed effettiva questione che le parti hanno sottoposto al suo esame e, dunque, oltre i limiti del petitum e della causa petendi, ulteriormente specificati, sempre nel particolare ambito del processo amministrativo, dai motivi di ricorso (Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 30 settembre 2002, n. 4986).
Va – altresì, e sia pure marginalmente – denotato che la medesima giurisprudenza ricava dal principio testé descritto l’ulteriore conseguenza per cui il giudice, nell’affrontare le diverse questioni prospettate dalla parte ricorrente, deve preliminarmente esaminare e decidere quelle questioni o quei motivi che, evidenziando in astratto una più radicale illegittimità del provvedimento o dei provvedimenti impugnati, appaiono idonei a soddisfare più pienamente ed efficacemente l’interesse sostanziale del ricorrente medesimo, per passare poi, soltanto in caso di rigetto di tali censure, agli esami degli altri motivi, che, pur idonei a provocare l’annullamento del provvedimento, evidenzino profili meno radicali di illegittimità.
Allo stesso modo si ricavano, quale ulteriore corollario, le regole che presiedono al corretto esercizio, da parte dello stesso giudice, del potere di assorbimento dei motivi, in forza delle quali, non ponendosi tutte le censure sullo stesso piano logico e sostanziale, non è consentito prescindere dalla pronuncia su alcuna questione della quale si riconosca la rilevanza nella fattispecie, in considerazione esclusivamente del risultato cui praticamente il giudicante pervenga in base a diverso criterio di decisione, comunque ostativo della cognizione di merito delle domande delle parti.
La giurisprudenza è, comunque, pervenuta da tempo alla conclusione che il principio di necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato consente al giudice di fondare la sua decisione anche su un percorso logico-giuridico difforme da quello prospettato dal ricorrente, con il solo (e ovvio) limite che tale difformità non si basi su fatti nuovi, non ritualmente dedotti in giudizio, ovvero su censure non dedotte dalla parte ricorrente (Cfr., ad es., Cons. Stato, sez. IV, 11 dicembre 1984, n. 910).
4.2. Nel caso di specie, il TAR ha accolto il ricorso facendo leva, come già esposto in parte narrativa, sulla violazione dei principi contenuti nell’art. 35 del D.Lgs. n.165/01, e con la disposizione di cui all’art. 109 dell’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi.
Tali specifici vizi, tuttavia, non risultano dedotti né in sede di ricorso, né in sede di motivi aggiunti di primo grado.
I motivi proposti da parte ricorrente in primo grado per ottenere l’annullamento degli atti impugnati, infatti, pur nella loro ampia e analitica articolazione, non affrontano affatto tale aspetto specifico di illegittimità.
I motivi di ricorso, infatti, sollevano questioni legate ai termini di espletamento della procedura concorsuale (ex art. 97 Cost., 119 T.U.E.L. e 124 Regolamento), alle valutazioni dei titoli (ex artt. 127, 128 e 130 del Regolamento), alla mancata comunicazione personale e alla omessa specifica della tipologia selettiva da espletare (ex art. 112 del Regolamento), alla contraddittorietà con la precedente determinazione circa il piano triennale relativo al fabbisogno del personale, al contenuto della prova di praticità e alla composizione della Commissione (ex art. 124 del Regolamento).
Nei motivi aggiunti, premessa la sussistenza dell’interesse al ricorso, vengono in rilievo ulteriori motivi di censura incentrati sull’attribuzione dei punteggi (ex artt. 127, 128 e 130 del Regolamento), sull’ammissione dei candidati e sul momento di fissazione dei criteri (ex art. 123, 126, 133 e 138 del Regolamento e ex art. 24 d. lgs. 150 del 2009), nonché sull’espressione solo numerica delle valutazioni; vengono inoltre ripetuti i motivi formulati nel ricorso principale.
Dall’esame dei motivi, dunque, emerge chiaramente l’insussistenza, nell’ambito dei motivi proposti in specifico dalla parte ricorrente in primo grado, del vizio di legittimità riscontrato in primo grado dal TAR.
Tale vizio, incentrato sulla mancata apertura all’esterno del concorso per cui è causa, per quanto possa essere di rilevante gravità ed esporre a responsabilità contabile o erariale, può giustificare un provvedimento giurisdizionale di annullamento soltanto nella misura in cui, come già specificato in relazione al contenuto del principio sancito dall’art. 112 c.p.c., sia stata oggetto di uno specifico motivo di ricorso.
4.3. La violazione del principio succitato determina la nullità della sentenza, ma non l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 105.
La situazione in esame, infatti, è da ritenersi del tutto analoga ai casi di erronea declaratoria, da parte del giudice di primo grado, dell’irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso, situazioni che, come è noto, non comportano l’annullamento della sentenza con rinvio dell’affare al giudice di primo grado, con la conseguenza che il giudice di appello deve trattenere la causa e deciderla nel merito (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 30 novembre 2009, n. 7486).
5. Risulta, pertanto, necessario, pronunciarsi sui motivi di ricorso, completamente disattesi dal giudice di prime cure, ma riproposti in sede di appello.
Ritiene il Collegio che tali motivi non siano meritevoli di accoglimento.
Come si è detto, i motivi di ricorso si incentrano sull’illegittimità della procedura per violazioni attinenti ai termini di espletamento della procedura concorsuale (ex art. 97 Cost., 119 T.U.E.L. e 124 Regolamento), alle valutazioni dei titoli (ex artt. 127, 128 e 130 del Regolamento), alla mancata comunicazione personale e alla omessa specifica della tipologia selettiva da espletare (ex art. 112 del Regolamento), alla contraddittorietà con la precedente determinazione circa il piano triennale relativo al fabbisogno del personale, al contenuto della prova di praticità e alla composizione della Commissione (ex art. 124 del Regolamento).
Nei motivi aggiunti di primo grado vengono in rilievo ulteriori motivi di censura incentrati sull’attribuzione dei punteggi (ex artt. 127, 128 e 130 del Regolamento), sull’ammissione dei candidati e sul momento di fissazione dei criteri (ex art. 123, 126, 133 e 138 del Regolamento e ex art. 24 d. lgs. 150 del 2009), nonché sull’espressione solo numerica delle valutazioni.
Tali vizi, a ben vedere, non appaiono sussistenti e non determinano, per conseguenza, l’illegittimità della procedura, né l’illegittimità della valutazione.
Infatti, sotto un primo profilo, non è possibile ritenere che i termini di espletamento del concorso, contingentati dall’Amministrazione, abbiano comportato una lesione per il ricorrente, atteso che l’accelerazione delle procedure concorsuali costituisce un obiettivo dell’Amministrazione rispondente ai canoni fondamentali di efficienza dell’azione amministrativa, sanciti in via generale dall’art. 1 della l. 241 del 1990; né si vede come tali termini, comunque consistenti in 35 giorni, possano aver influito sulla bontà delle valutazioni e della procedura, non risultando sussistenti diverse norme (nemmeno in quelle del Regolamento invocato) che sancissero in modo assolutamente perentorio il rispetto di termini più ampi, non derogabili in senso acceleratorio.
Nello stesso senso, il Collegio ritiene che il diverso punteggio previsto per la valutazione dei titoli, sancito dal bando di concorso, non possa considerarsi contrario alle norme regolamentari indicate in ricorso di primo grado e poco sopra evidenziate, atteso che anche tali norme non dispongono in maniera inderogabile che l’Amministrazione, per qualsiasi concorso, non abbia la facoltà, rientrante nella sua sfera di discrezionalità e connessa alla tipologia particolare di concorso da espletare, di individuare, in astratto e a priori, range diversi per l’attribuzione dei punteggi; né il bando, quale atto generale, doveva contenere una motivazione specifica che giustificasse i criteri adottati in via preventiva.
Inoltre, con riferimento al termine di pubblicazione, fissato in quindici giorni, è la stessa Amministrazione a giustificare tale scelta, in maniera non irragionevole, in relazione alle necessità di concludere entro termini predeterminati l’iter procedurale, esplicitato dalla stessa Amministrazione.
Quanto all’omessa comunicazione personale, la relativa censura è priva di consistenza, atteso che, rispetto alla posizione del ricorrente, tale eventuale illegittimità non ha prodotto alcun risultato lesivo.
Né si può ritenere che il concorso in esame sia in contraddizione con il piano triennale del personale, atteso che anche il concorso in oggetto rientra comunque tra gli obiettivi di governo per il triennio 2009-11, come ammette lo stesso ricorrerne a pag. 15 del ricorso di prime cure.
Quanto alla tipologia del concorso da espletare (in concreto è stata scelta la tipologia del concorso per titoli ed esami), la relativa censura non determina alcuna lesione per il ricorrente, atteso che il tipo di procedura selettiva in concreto adottato è del tutto conforme alle regole generali in materia di concorsi ed è, anzi, consistita in una tipologia che garantisce meglio l’imparzialità e la trasparenza delle relative valutazioni.
Problemi di legittimità possono sorgere in relazione alla scelta di non aprire il concorso agi esterni, come ha indicato il TAR in primo grado, il che comporta sicuramente l’illegittimità dell’intera procedura.
Tale illegittimità, tuttavia, come detto, non può farsi valere in questo processo (non essendoci un formale motivo di ricorso, come già detto), ma potrà, eventualmente, farsi valere con altri strumenti apprestati dall’ordinamento al riguardo (ad esempio con un esposto alla Procura Regionale della Corte dei Conti).
Né l’esame pratico può dirsi illegittimo, come sostiene il ricorrente in primo grado, in relazione alla circostanza che la prova pratica non ha riguardato in specifico l’Area della Polizia Municipale, atteso che la clausola del Regolamento, ove si indica il contenuto di tali prove, fa riferimento generico agli ambiti di competenza, ma non richiede in specifico che la prova di praticità riguardi solo ed esclusivamente atti relativi all’Area che i vincitori del concorso andranno a ricoprire.
Così come la figura del Presidente del commissione, rispetto alla quale il Regolamento comunale invocato da parte ricorrente in primo grado non indica tassativamente uno specifico soggetto Responsabile dell’Area, dovendosi avere riguardo anche a profili professionali del tutto equivalenti o superiori, quali il Responsabile dell’Area Affari Generali, come nel caso di specie.
Quanto ai motivi aggiunti, il Collegio rileva che la lamentata erronea valutazione dei titoli è dipesa da un errore di trascrizione che è stato prontamente corretto dall’Amministrazione; comunque, anche valutando i titoli nel modo auspicato dal ricorrente, quest’ultimo non avrebbe ottenuto alcun vantaggio pratico in relazione al mutamento della sua posizione in graduatoria.
Quanto, infine, alla valutazione delle prove scritte, il ricorso in primo grado ripropone l’annosa problematica della sufficienza del voto numerico quale espressione compiuta della relativa valutazione; annosa problematica che ha già trovato una stabile e maggioritaria soluzione nel senso di ritenere tale espressione numerica sufficiente ad integrare l’onere di motivazione del provvedimento quando vi siano stati, come nella specie, criteri di correzione sufficientemente dettagliati e predeterminati.
Né può ritenersi, come deduce parte ricorrente, che la predeterminazione dei criteri andasse effettuata nella prima seduta utile, rispondendo a principi di trasparenza concorsuale anche la predeterminazione avvenuta prima della correzione degli elaborati scritti, come nella specie.
Gli ulteriori motivi addotti in relazione a tali criteri sono da ritenersi infondati, in quanto miranti a censurare scelte discrezionali dell’Amministrazione che non sono da considerarsi illogiche o irrazionali.
6. Conclusivamente, deve essere accolto l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso di primo grado.
Sussistono giusti motivo per compensare le spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta),
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso di primo grado.
Compensa tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 aprile 2011 con l’intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Trovato, Presidente
Vito Poli, Consigliere
Roberto Chieppa, Consigliere
Eugenio Mele, Consigliere
Paolo Giovanni Nicolo’ Lotti, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 27/05/2011