Risponde di bancarotta fraudolenta l’imprenditore in difficoltà che vende autovetture sottosco – Cassazione Penale, Sentenza n. 19633/2011
La sistematica vendita sottocosto dei prodotti attuata in una fase di già accertata difficoltà finanziaria comporta un depauperamento del patrimonio sociale posto a garanzia dei creditori. Tale condotta integra il reato di bancarotta fraudolenta per dissipamento del detto patrimonio, a nulla rilevando la finalità delle operazioni di vendita sottoscosto (desiderio del ricorrente di pagare la maggior parte dei debiti). Ciò può, invero, essere apprezzato positivamente ma non si può consentire che l’obiettivo venga raggiunto svendendo, in un momento di già accertata crisi finanziaria, il patrimonio sociale con conseguente danno dei creditori.
(© Litis.it, 24 Maggio 2011 – Riproduzione riservata)
Cassazione Penale, Sezione Quinta, Sentenza n. n. 19633 del 18/05/2011
Osserva
[OMISSIS], nella sua qualità di amministratore della [OMISSIS] Auto s.r.l., dichiarata fallita, veniva condannato all’esito del rito abbreviato dal GUP presso il tribunale di Bergamo, alle pene, principale ed accessorie, ritenute di giustizia, con sentenza emessa in data 15 dicembre 2008, per il reato di bancarotta fraudolenta per dissipazione, avendo venduto nel corso del 2005 auto sottocosto, e documentale.
La Corte di Appello di Brescia, con sentenza del 23 aprile 2010, confermava, almeno per quanto è dato desumere dalla motivazione del provvedimento, l’affermazione di responsabilità per la bancarotta per dissipazione, avendo ritenuto la vendita sottocosto sistematica e sostanzialmente preordinata al fallimento, mentre assolveva il [OMISSIS] dal delitto di bancarotta fraudolenta documentale.
Senonché, contrariamente a quanto sostenuto nella motivazione, il dispositivo della predetta sentenza, mai letto in dibattimento, riportava ” in parziale riforma dell’impugnata sentenza assolve l’appellante [OMISSIS] dal reato di bancarotta per dissipazione e conferma ogni altra statuizione della sentenza”.
Con il ricorso per cassazione [OMISSIS] deduceva:
1) la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità in relazione agli artt. 545 e 546 c.p.p. per avere la Corte bresciana omesso di dare lettura del dispositivo in udienza, riservandosi la relativa decisione;
2) la violazione di norme processuali per la contraddizione esistente tra quanto statuito nella parte dispositiva della sentenza rispetto a quanto argomentato nella parte motivazionale della stessa, non potendosi nel caso di specie applicarsi il principio della prevalenza del contenuto del dispositivo essendo stati resi pubblici dispositivo e motivazione contestualmente;
3) la carenza e manifesta illogicità della motivazione perché la vendita sottocosto delle vetture è da ricondurre allo strenuo tentativo del medesimo – [OMISSIS] – di salvare la società, come affermato dal Tribunale di Bergamo nella sentenza emessa nei confronti della sorella del [OMISSIS], precedente amministratrice della società. In effetti il conseguente aumento del fatturato consentì di ripianare quasi tutti i debiti della società, salvo quelli nei confronti dell’Erario dovuti all’IVA non versata. Insomma l’operazione posta in essere era finalizzata all’interesse della società, e, quindi, non penalmente rilevante. In ogni caso non è ravvisabile il dolo richiesto dall’art. 216 della legge fallimentare; I primi due motivi posti a sostegno del ricorso proposto da [OMISSIS] sono infondati.
In ordine alla mancata lettura del dispositivo della sentenza in udienza in caso di giudizio abbreviato, infatti, le Sezioni Unite (SU 21 gennaio – 2 aprile 2010, n. 12822, Marcarono, CED 246269) hanno affermato che la sentenza pronunciata in appello all’esito del giudizio abbreviato deve essere pubblicata mediante lettura del dispositivo in udienza camerale dopo la deliberazione, e non mediante deposito in cancelleria. Tuttavia – hanno stabilito ancora le Sezioni Unite- in caso di omessa lettura, la sentenza non è abnorme o nulla, verificandosi una mera irregolarità, che produce però effetti giuridici, impedendo il decorso dei termini per l’impugnazione.
Orbene il Collegio ritiene di condividere tale indirizzo perché fondato su una corretta interpretazione delle norme e sul fatto che manca una espressa previsione di nullità per casi siffatti.
È infondato anche l’ulteriore rilievo concernente i rapporti tra dispositivo e motivazione.
In effetti il principio per cui l’atto che estrinseca la volontà del giudice è solo il dispositivo, che di conseguenza non può subire modifiche, integrazioni e sostituzioni con là motivazione, è valido solo quando il dispositivo è formato e pubblicato in udienza prima della redazione della motivazione. Detto principio non vale, invece, quando dispositivo e motivazione non sono separati ma sono formati e pubblicati contestualmente in un unico, documento, sicché è pienamente legittimo interpretare o anche integrare il dispositivo sulla base della motivazione (così Cass. Sez. III; 12 febbraio 1999, n. 1760, Gallo CED 213070; conforme Cass. 4 dicembre 1996, Ventura);
Appare condivisibile tale orientamento perché un’documento unico può essere certamente interpretato al fine di comprendere la reale volontà del giudice che ha emesso il provvedimento, anche se in contrario (Cass., Sez. VI, 13 luglio – 5 agosto 1999, n. 2695, Fezga, CED 214186) è stato osservato che in siffatti casi sarebbe impossibile accertare quale sia stata la reale volontà del giudice, con conseguente necessità di annullamento del provvedimento. Tale ultima prospettata soluzione non convince perché è proprio la motivazione a fornire tutti gli elementi utili per la interpretazione di un documento unico; ciò anche perché, non essendovi un momento distintivo tra dispositivo e motivazione, ma costituendo dette parti del provvedimento nel loro insieme là decisione, all’eventuale discrepanza esistente nel primo può ovviarsi con la lettura del provvedimento nel suo complesso (principio affermato con riferimento alla ordinanza emessa a seguito di rito camerale (Cass., Sez. I, 9 luglio – 12 agosto 1999, n. 4857, Gareffa, CED 214089) ed applicabile anche nella fattispecie in esame).
In punto di fatto non vi è dubbio che tutta la motivazione è in maniera assai chiara, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, preordinata a giustificare la conferma della condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta per dissipazione ed alla assoluzione da quello di bancarotta documentale; sul punto non vi è discussione da parte del ricorrente.
È allora evidente che nel dispositivo per mero errore materiale si è pronunciata assoluzione dai reato di bancarotta per dissipazione, confermando le altre statuizioni.
È necessario allora operare una correzione nel senso che laddóve nel dispositivo è scritto “assolve dal reato di bancarotta per dissipazione”: deve leggersi “assolve dal reato di bancarotta documentale”.
Infondato è, infine, anche il terzo motivo di impugnazione;
È, invero, del tutto pacifico in punto di fatto che le auto vennero vendute sottocosto, ovvero ad un prezzo inferiore a quello di mercato, e che tale modalità di vendita non fu occasionale, essendosi protratta almeno per un intero anno – il 2005.
Tale pratica procurò un ovvio aumento di fatturato essendo aumentate le vendite ma portò, in breve tempo, al tracollo finanziario dell’azienda come era inevitabile, e come è stato chiaramente descritto nelle due sentenze di merito. Orbene non vi è dubbio che la sistematica vendita sottocosto dei prodotti attuata in una fase di già accertata difficoltà finanziaria; se non di vera e propria insolvenza comporti un depauperamento del patrimonio sociale posto a garanzia dei creditori e che vada qualificata come dissipazione del detto patrimonio. In siffatta situazione non ha alcun rilievo, come meglio si dirà la finalità della operazione perché ciò che rileva è che oggettivamente è stata posta in essere una condotta che ha comportato la dissipazione del patrimonio sociale. Né può avere alcun rilievo il fatto che le vendite sottocosto siano avvenute nei 2005 e che il pagamento dell’IVA concernente le predette vendite sarebbe dovuta avvenire nel 2006, perché proprio le vendite sottocosto portarono ad una situazione di insolvenza con impossibilità di pagare l’IVA dovuta. Sussiste contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente il dolo richiesto per il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, dal momento che trattasi, per consolidata giurisprudenza di legittimità, di dolo generico consistente nella consapevolezza dell’agente che la condotta posta in essere possa cagionare una lesione del patrimonio sociale posto a garanzia del ceto creditorio.
Né, infine, il dolo può essere escluso dal fatto che, secondo la prospettazione del ricorrente e secondo quanto emergerebbe dalla motivazione della sentenza emessa nei confronti della sorella del [OMISSIS], la ragione principale di tale condotta andrebbe ravvisata nel desiderio del ricorrente di pagare la maggior parte dei debiti; può, invero, essere apprezzata positivamente la finalità della operazione, ma non si può consentire che l’obiettivo venga raggiunto svendendo, in un momento di già accertata crisi finanziaria, il patrimonio sociale con conseguente danno dei creditori non soddisfatti; il movente, infatti, non può incidere, fino ad escluderlo sull’elemento soggettivo del reato contestato.
Per le ragioni indicate il ricorso deve èssere rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del procedimento.
Depositata in Cancelleria il 18 maggio 2011