GiurisprudenzaPenale

Esercizio abusivo della professione. Il consulente del lavoro non può prestare assistenza fiscale – Cassazione Penale, Sentenza n. 10100/2011

Commette esercizio abusivo della professione di dottore commercialista il consulente del lavoro  che presta attività di consulenza tributaria e curi la redazione e il controllo dei bilanci d’imprese, attesa la natura riservata delle anzidette attività.

Tuttavia, nel sequestro preventivo di un immobile, finalizzato a impedire la protrazione dell’attività illecita, il vincolo di pertinenzialità si esprime in un’indefettibile correlazione strumentale tra immobile e reato, nel senso che l’immobile non sia semplicemente il luogo di consumazione del reato, ma costituisca il mezzo strettamente indispensabile per l’attuazione e protrazione della condotta illecita

(Litis.it, 28 Marzo 2011)

Cassazione Penale, Sezione Sesta, Sentenza n. 10100 del 11/03/2011

Motivi della decisione

Con ordinanza del 22 ottobre 2010 il Tribunale di Lucca rigettava la richiesta di riesame proposta da [OMISSIS] avverso il decreto di sequestro preventivo dello studio professionale, ritenuto bene pertinente ai reati di esercizio abusivo della professione di ragioniere commercialista e di appropriazione indebita aggravata di somme affidategli con l’incarico di pagare imposte e contributi.

[OMISSIS] ricorre per cassazione e denuncia:

1. violazione dell’art. 348 cod.pen., perché non commetterebbe esercizio abusivo della professione di dottore commercialista il consulente del lavoro – e tale egli era – che presti attività di consulenza tributaria e curi la redazione e il controllo dei bilanci d’imprese, attesa la natura non riservata delle anzidette attività;

2. insussistenza del fumus commissi delicti per i residui reati di appropriazione indebita, perché la denuncia presentata da B.R. sarebbe stata smentita dai documenti prodotti dalla difesa, mentre quelle provenienti da altri clienti non sarebbero ancora state istruite;

3. insussistenza del periculum in mora, perché, a partire dall’anno 2007, con l’entrata in vigore della regola che impone il pagamento di imposte e contributi con procedura telematica di addebito diretto sul c/c del contribuente, la commissione di appropriazioni indebite del tipo di quelle perseguite è divenuta impossibile;

4. insussistenza del nesso pertinenziale tra i locali oggetto del sequestro e l’esercizio abusivo della professione, perché i fatti di reato per cui si procede si fondano sul rapporto fiduciario che si instaura tra cliente e professionista, mentre l’immobile non è mezzo indispensabile per l’attuazione e protrazione della condotta illecita.
p.2.1 Il primo motivo di ricorso è infondato. L’art. 348 cod.pen. punisce l’esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato. Per esercitare la professione di dottore/ragioniere commercialista la legge richiede il superamento dell’esame di Stato e l’iscrizione nell’apposito albo professionale e, pertanto, quella del commercialista è una professione protetta e le attività proprie di essa possono esplicarsi esclusivamente dal soggetto abilitato e iscritto all’albo.
Va precisato che, per stabilire se una determinata prestazione integri il reato previsto dall’art. 348 cod.pen., non è necessario rinvenire nella legge che regola la professione in tesi abusivamente esercitata una clausola di riserva esclusiva riguardante quella specifica prestazione, ma è sufficiente l’accertamento che la prestazione erogata costituisce un atto tipico, caratteristico di una professione per il cui esercizio manca l’abilitazione.
Orbene il consulente del lavoro, avendo competenza in materia di redditi di lavoro dipendente, può legittimamente occuparsi della liquidazione e del pagamento delle relative imposte. Ma l’indagato prestava assistenza fiscale e contabile anche a lavoratori autonomi e imprese e, quindi, operava in un campo per il quale non aveva la necessaria abilitazione. Ne deriva che, allo stato, non può negarsi la sussistenza del fumus delicti.

2.2 Il secondo motivo è infondato.
Per l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo è sufficiente la sussistenza del fumus commissi delicti, vale a dire l’astratta sussumibilità del fatto nella fattispecie di reato considerata. Pertanto, in sede di impugnazione dei provvedimenti cautelari reali, l’accertamento del fumus commissi delicti è limitato alla verifica della configurabilità, quale fattispecie astratta di reato, del fatto contestato così come può essere desunto dall’imputazione, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza e alla gravità degli stessi (v. Cass., Sez. VI, 28.2.1996 n. 932, Manelli, rv 204799; Sez. Unite, 23.2.2000, Mariano).
Ne deriva che le doglianze sull’omesso esame dei documenti prodotti dalla difesa e sull’omessa acquisizione di ulteriori elementi a sostegno delle denunce presentate da Ba. e M. , comportando il sindacato – riservato al giudice della cognizione – sulla concreta fondatezza dell’accusa, non possono essere proposte nel presente giudizio cautelare.

2.3 Il terzo motivo, chiedendo direttamente a questo giudice di legittimità di valutare la cessata attualità del periculum in mora sotto il profilo che è sopravvenuta una diversa disciplina delle modalità di pagamento delle imposte e contributi, che renderebbe impraticabile la reiterazione della condotta appropriativa, è inammissibile ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod.proc.pen..
Infatti la questione dedotta, comportando una valutazione di merito, doveva come tale essere sollevata nel giudizio d’appello, salva poi la possibilità di impugnare la relativa decisione con ricorso per cassazione nei limiti segnati dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod.proc.pen..

2.4 È fondato invece il quarto e ultimo motivo di ricorso. Secondo l’insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, nel sequestro preventivo di un immobile, finalizzato a impedire la protrazione dell’attività illecita, il vincolo di pertinenzialità si esprime in un’indefettibile correlazione strumentale tra immobile e reato, nel senso che l’immobile non sia semplicemente il luogo di consumazione del reato, ma costituisca il mezzo strettamente indispensabile per l’attuazione e protrazione della condotta illecita (Cass., sez. VI, 24.9.2010 n. 36201, Musacchio, rv 248635; idem, 8.6.1998 n. 2098, Chiaberti, rv 212118; idem, 5.12.2002 n.11892, Russano, rv 224790).
Nell’ordinanza impugnata, a sostegno dell’affermata pertinenzialità si rappresenta “la sistematicità delle condotte di appropriazione indebita e l’esistenza di un rapporto privilegiato presso lo studio in questione con il concorrente pubblico ufficiale dell’Agenzia delle Entrate”, espressioni che, però, mentre evidenziano la reiterazione di una condotta criminosa attuata in concorso con un pubblico ufficiale, appaiono invece silenti e insignificanti ai fini della dimostrazione del rapporto di pertinenzialità strumentale sopra delineato.

Pertanto l’ordinanza impugnata deve essere annullata per mancanza di motivazione e violazione di legge, con rinvio allo stesso Tribunale che, in diversa composizione, accerterà se tra l’attività illecita esercitata dall’indagato e il bene sottoposto a sequestro esiste un rapporto di pertinenzialità nel senso sopra indicato.

P.Q.M.

La Corte di cassazione annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Lucca per nuovo esame.

Depositata in Cancelleria il 11 marzo 2011

 

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