Quota ceduta ma non registrata, un passepartout per l’induttivo – Cassazione Civile, Sentenza n. 3946/2011
L’utile da partecipazione in una Sas è reddito personale, a prescindere dalla mancata contabilizzazione dei ricavi
Il reddito delle società di persone deve essere imputato dal fisco ai soci pro-quota e l’eventuale cessione delle partecipazioni societarie fa cadere l’accertamento induttivo solo se trascritta, antecedentemente, nel registro delle imprese.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con sentenza 3946/2011, ha respinto il ricorso di una contribuente, prima socia al 50% di una Sas, poi al 2 per cento. La stessa, infatti, aveva ceduto quasi l’intera quota di partecipazione ma, prima che la cessione fosse trascritta nel registro imprese, era scattato da parte dell’Amministrazione finanziaria un accertamento induttivo calcolato pro-quota, basato sugli introiti percepiti dall’azienda negli anni d’imposta precedenti.
Il fatto
L’ufficio delle Entrate di Verona aveva accertato, in modo induttivo, il reddito netto prodotto da una società in accomandita semplice, sia ai fini Ilor, a carico della società, che ai fini Irpef, a carico dei singoli soci. In particolare, poiché la stessa società era nel frattempo fallita, l’Amministrazione finanziaria aveva provveduto a notificare, nell’agosto del 1999, un avviso di accertamento al curatore fallimentare e, nel settembre dello stesso anno, un altro alle due socie, nel quale, ai sensi dell’articolo 5 del Dpr 917/1986, si imputava a ciascuna un reddito presunto nella misura del 50%, in quanto la normativa impone che “se il valore dei conferimenti non risulta determinato, le quote si presumono uguali”.
La contribuente in questione impugnava l’avviso di accertamento, adducendo a proprio favore il fatto che la sua quota di partecipazione era nel tempo diminuita, passando dal 50 al 2% e che non era a conoscenza dell’avvenuto accertamento notificato al curatore fallimentare. Inoltre, a causa della grave situazione economica in cui versava l’azienda, poi fallita, dichiarava di non aver percepito alcun reddito.
La Commissione tributaria provinciale di Verona recepiva le ragioni della contribuente perché il fatto era stato debitamente documentato e, in effetti, la socia da un certo periodo di tempo deteneva soltanto il 2% della quota societaria.
Di conseguenza, l’Amministrazione finanziaria ricorreva in appello, ribadendo le proprie ragioni in merito al fatto che le quote di partecipazione agli utili, qualora non risultino diversamente determinate da atto pubblico o da scrittura privata anteriore al periodo di imposta, si presumono uguali.
A sostegno degli avvisi di accertamento notificati alle contribuenti, l’Agenzia adduceva un altro elemento essenziale, cioè la falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 2300 e 2315 del codice civile, che impone la trascrizione, presso il registro delle imprese, della modifica della ripartizione delle quote societarie.
Quest’ultimo adempimento non era stato eseguito dalle socie e, pertanto, la variazione delle quote societarie non poteva considerarsi opponibile né a terzi né tantomeno al fisco, perché non pubblicata.
La Ctr Veneto accoglieva le argomentazioni dell’Amministrazione, sancendo la validità dell’avviso di accertamento, ma la contribuente ricorreva in Cassazione.
La sentenza
A sostegno del ricorso, tre motivazioni sostanziali.
Con la prima è stata dedotta, ai sensi dell’articolo 360, numero 3), del codice di procedura civile, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale (nell’applicazione della legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore) e dell’articolo 5 del Tuir (se il valore dei conferimenti non risulta determinato, le quote si presumono uguali).
Nel senso che, secondo la ricorrente, “la norma dell’art. 5 del DPR 22.12.86 n. 917, secondo cui le quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate al valore del conferimento dei soci se non risultano determinate diversamente dall’atto pubblico o scrittura privata autenticata di costituzione o da altro atto pubblico o scrittura autenticata di data anteriore all’inizio d’imposta” si applica esclusivamente all’ipotesi in cui le quote di partecipazione agli utili non sono proporzionate al valore dei conferimenti. Il reddito delle società di persone fisiche va imputato direttamente ai vari soci in proporzione al diritto agli utili rapportato all’effettivo valore del conferimento e al diverso periodo temporale maturato, qualora non coincida con il periodo d’imposta.
Nella seconda motivazione ha contestato l’applicazione della norma di cui all’articolo 5 del Tuir e ha proposto la questione di costituzionalità per i commi 1 e 2 del suddetto articolo, perché in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione. Secondo la contribuente una diversa interpretazione della norma potrebbe portare alla violazione del principio tributaristico della capacità contributiva e, pertanto, porterebbe a una ingiustificata disparità di trattamento dei contribuenti.
Infine, nel ricorso viene contestata la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2300 del codice civile, secondo cui, a parere della ricorrente, sembrerebbe illogica l’inopponibilità dell’atto notarile per la variazione delle quote di proprietà della società, se non pubblicato.
La Corte di cassazione, con sentenza 3946 del 18 febbraio, ha respinto il ricorso, stabilendo che il reddito delle società di persone deve essere imputato dal fisco ai soci pro-quota e ha, inoltre, chiarito che l’eventuale cessione delle partecipazioni societarie, per essere opponibili ai terzi, e nella fattispecie al fisco, devono essere trascritte antecedentemente nel registro delle imprese.
Per quanto concerne l’accertamento Irpef, la Suprema corte ha fatto riferimento ai dettami giuridici dell’articolo 5 del Tuir in merito ai redditi delle società di persone che devono essere necessariamente imputati pro-quota a ciascun socio, indipendentemente dall’effettiva percezione degli utili. Il reddito di partecipazione, nelle società di persone, costituisce un reddito personale, indipendentemente dalla mancata contabilizzazione dei ricavi e dai metodi adoperati dalla società per realizzarli.
Ha poi chiarito che l’accertamento del maggior valore del reddito in capo al socio non richiede alcuna comunicazione nei confronti degli altri soci, anche se accomandatari, i quali potranno, a loro volta, agire in sede civile per il recupero dei crediti spettanti.
Quindi, nella fattispecie, il socio accomandatario potrà presentare ricorso al giudice civile per recuperare quanto da lui pagato in più all’erario, sempreché dimostri la responsabilità degli altri soci o della società.
In ultimo, i giudici di legittimità hanno chiarito che, secondo quanto disposto dagli articoli 2290 e 2300 del codice civile, il socio di una Sas che cede la propria quota risponde nei confronti dei terzi delle obbligazioni sociali stipulate per il periodo antecedente alla registrazione, nel registro delle imprese, della variazione della quota societaria o fino al momento in cui il terzo sia venuto a conoscenza della medesima.
“Ne consegue che deve ritenersi inopponibile la scrittura privata di cessione della quota sociale da parte di un socio, posto che la responsabilità solidale dei soci per debiti derivanti dall’attività sociale prescinde dai rapporti interni dei soci stessi, e lo scioglimento del rapporto sociale, valido tra le parti, è inefficace nei confronti di terzi”.
Valerio Giuliani
nuovofiscooggi.it