Rito abbreviato. possibile l’aggravamento della pena in appello – Cassazione Penale, Sentenza n. 4512/2011
Qualora nel giudizio abbreviato sia intervenuta condanna, il ricorso del P.M. si converte in appello, se l’imputato aveva presentato appello, ma il giudice del gravame ha gli stessi poteri del giudice di legittimità e quindi deve prima valutarne l’ammissibilità e poi riacquista i suoi poteri, tra i quali vi è anche quello dell’aggravamento della pena. E’ quanto ha stabilito la prima sezione penale della Corte di Cassazione nella sentenza n. 4512 depositata lo scorso 8 febbraio 2011.
Nel caso di specie il P.G., nel giudizio di appello, aveva rilevato l’assoluta contraddittorietà della motivazione nella parte in cui il giudice, dopo aver ritenuto la gravità dei fatti, aveva concesso le attenuanti ai fini di adeguare la pena al caso concreto, senza considerare anche la personalità dei prevenuti gravati da precedenti per reati associativi. Di qui la nuova quantificazione della pena, che veniva quindi aumentata dai giudici della Corte territoriale.
Cassazione Penale, Sezione Prima, Sentenza n. 4512 del 08/02/2011
Fatto e diritto
La Corte d’appello di Napoli confermava la condanna inflitta nelle forme del rito abbreviato a B.V., limitatamente ai delitti di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, e a V.R. , D.F.P. e C.G. limitatamente agli episodi di estorsione aggravata dal metodo mafioso, assolvendoli dai restanti reati loro contestati; accoglieva nei loro confronti il ricorso del P. M., convertito in appello, in relazione alla quantificazione della pena, che veniva quindi aumentata.
Osservava che la condanna di V , D. F. e C. doveva essere confermata per l’episodio estorsivo, in quanto D.F. aveva ammesso il fatto, limitandosi a giustificare la sua condotta per la presenza di problemi economici, mentre per gli altri, la tesi sostenuta di non sapere perché avevano condotto d’imperio l’imprenditorie dal D.F. era priva di pregio; infatti già la costrizione costituiva prova di consapevolezza, ma in più vi erano le dichiarazioni della persona offesa la quale aveva riferito che i due si erano presentati nel suo locale a nome dell’organizzazione criminale operante ad Acerra e in ben due occasioni gli avevano imposto di recarsi al cospetto del boss. Sussisteva quindi l’aggravante dell’uso del metodo mafioso per essersi avvalsi dell’intimidazione per ottener il loro scopo; non sussisteva alcuna minore partecipazione del C. che al pari di V. aveva accompagnato l’imprenditore dal boss.
Nei loro confronti doveva essere accolto il ricorso del P.G., in quanto il giudice di primo grado aveva concesso le attenuanti generi che per adeguare la pena alla gravità del fatto, ma tale giudizio appariva del tutto incongruo, rispetto alla gravità obiettiva dei fatti commessi e alla personalità degli imputati, gravati da rilevanti precedenti penali, trattandosi di soggetti già condannati per art. 416 bis c.p.; quindi in accoglimento del ricorso del P.G. escludeva le attenuanti generiche e rideterminava la pena. Sul punto osservava che l’impugnazione conservava validità anche se il P.G. di udienza aveva chiesto la conferma della decisione di primo grado, in quanto la rinuncia al motivo doveva avere carattere formale e non poteva essere dedotta dalla richiesta formulata in udienza. Osservava che anche la condanna per tentata estorsione posta a carico di B. doveva essere confermata in quanto gli elementi di prova erano costituiti dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia D.P. che aveva ricostruito gli scontri in atto ad Acerra per la monopolizzazione della produzione e distribuzione dei latticini, ai quali aveva partecipato l’imputato. Tali dichiarazioni avevano trovato conferma nei risultati di intercettazioni dalle quali emergeva che numerosi imprenditori erano stati costretti ad acquistare latticini da B. , il quale al telefono si lamentava dell’omesso acquisto di ulteriori prodotti, rappresentando il rischio di tale comportamento. Vi erano poi ulteriori intercettazioni dalle quale emerge la preparazione di atti intimidatori contro i commercianti riottosi, così come appariva provata la permanenza dell’associazione anche dopo l’uccisione del capo clan, M. , come documentato dai contrasti con D.F. Anche in tale caso sussisteva l’aggravante del metodo mafioso, viste le minacce e le intimidazioni che larvatamente trasparivano dalle comunicazioni intercettate.
Doveva parimenti essere accolto il ricorso del P.G. sulla concessione delle attenuanti generiche, tenuto conto della personalità dell’imputato e della gravità dei fatti. Avverso la sentenza proponevano ricorso tutti gli imputati e deducevano quanto a C. – inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta partecipazione ai delitti di estorsione, fondata solo sulle dichiarazioni della persona offesa; l’invito a presentarsi al cospetto del boss D.F. non aveva un significato minaccioso, ma era giustificato dal fatto che il boss in quel periodo si trovava agli arresti domiciliari e non poteva allontanarsi dal domicilio; non vi era prova che C. si fosse presentato a nome del boss, non sussisteva l’aggravante di cui all’art. 7 L. 203/91 in quanto non vi era prova di una attività di intimidazione;
– violazione degli artt. 589 e 597 c.p.p. in quanto il P.G. di udienza aveva chiesto la conferma della sentenza e quindi aveva implicitamente rinunciato al ricorso;
– manifesta illogicità della motivazione in relazione all’esclusione delle già concesse attenuanti generiche, in quanto la decisione del giudice di prime cure era logica e congrua, visto il carattere isolato dell’episodio in contestazione e rilevato che i precedenti dell’imputato erano da “ladro di polli”;
erronea applicazione della legge in relazione all’art. 114 c.p. in quanto la posizione dell’imputato era diversa da quella degli altri due, avendo egli svolto il ruolo di accompagnatore silenzioso, mentre la persona offesa non aveva mai dichiarato che l’imputato si fosse presentato a nome della cosca mafiosa; quanto a D.F. ;
– violazione degli artt. 568 e 443 c.p.p. in quanto il procedimento di primo grado era stato celebrato nelle forme del rito abbreviato e si era concluso con condanna, per cui il P.M. non poteva presentare appello; il P.G. aveva quindi presentato ricorso per cassazione, poi convertito in appello, ma la corte territoriale doveva prima compiere una valutazione di ammissibilità del ricorso e solo dopo riacquistava i suoi poteri di giudice di merito; invece nel caso di specie tale valutazione non era stata compiuta altrimenti il ricorso sarebbe stato dichiarato inammissibile stante il suo contenuto di solo merito; quanto a V. ;
– violazione degli artt. 132 e 133 c.p. in quanto l’imputato era stato assolto dal delitto associativo e condannato per estorsione aggravata da metodo mafioso con una evidente contraddizione e illogicità, inoltre il calcolo della pena era incongruo in quanto gli aumenti per la recidiva erano ingiustificati.
quanto a B. :
– violazione di legge, illogicità della motivazione e travisamento della prova in relazione alla condanna per plurime tentate estorsioni, in quanto il collaboratore D.P., l’unico che aveva parlato dell’imputato, aveva solo riferito di un rimprovero del boss contro B. che aveva osato invadere il suo territorio e vendervi i propri latticini; le telefonate intercettate non offrivano alcun sostegno alla tesi accusatoria in quanto travisate nel loro contenuto, visto che l’attività dell’imputato era nata due anni dopo la morte del boss di riferimento e che non potevano mettersi a suo carico eventuali comportamenti tenuti da altri familiari; non vi era correlazione tra l’accusa contenuta nel capo di imputazione e il contenuto delle telefonate intercettate, visto anche che dal delitto di incendio era stato assolto.
La Corte ritiene che tutti i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili. Il motivo relativo alla inammissibilità del ricorso del P. M., avanzato da D.F. ma estensibile a tutti, è manifestamente infondato, visto che correttamente la Corte territoriale ha rappresentato che il ricorso verteva sia sull’incongruità della motivazione nella parte in cui aveva concesso le attenuanti generiche, sia sulla applicazione di una pena illegale per il reato associativo, ne ha quindi valutato l’ammissibilità, effettuando il giudizio rescindente, e poi nel giudizio rescissorio, lo ha ritenuto fondato limitatamente alla concessione delle generiche, avendo assolto gli imputati per il reato associativo, e ha rideterminato la pena in aumento. La giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato che, qualora nel giudizio abbreviato sia intervenuta condanna, il ricorso del P.M. si converte in appello, se l’imputato aveva presentato appello, ma il giudice del gravame ha gli stessi poteri del giudice di legittimità e quindi deve prima valutarne l’ammissibilità e poi riacquista i suoi poteri, tra i quali vi è anche quello dell’aggravamento della pena (Sez. IV 11 luglio 2007 n. 39618, rv. 237986; Sez. IV 24 giugno 2008 n. 37074, rv. 241059; Sez. VI 23 ottobre 2008 n. 42694, rv. 241872;Sez. II 17 dicembre 2008 n. 4468, rv. 243277). Nel caso di specie il P.G. aveva rilevato l’assoluta contraddittorietà della motivazione nella parte in cui il giudice dopo aver ritenuto la gravità dei fatti, aveva concesso le attenuanti ai fini di adeguare la pena al caso concreto, senza considerare anche la personalità dei prevenuti gravati da precedenti per reati associativi.
Parimenti infondato è il motivo invocante la rinuncia al ricorso da parte del P.G. di udienza il quale aveva chiesto la conferma della condanna per gli imputati D.F. , V. e C., in quanto la giurisprudenza di legittimità, pronunciatasi più volte sulla medesima questione ha affermato che la rinuncia è un atto formale e non ammette come equipollente le conclusioni formulate dal P.M. in udienza, visto che il P.M, avendo concluso nel merito, aveva manifestato la chiara volontà di non rinunciare all’impugnazione (Sez. V 5 ottobre 2005 n. 43363, rv. 232454; Sez. III 29 ottobre 2009 n. 1591, rv. 245754).
Tutti gli altri motivi presentati dai quattro imputati sono manifestamente infondati in quanto prospettano in termini assolutamente generici questioni attinenti al merito e cioè alle valutazioni che dei fatti, delle dichiarazioni di persone offese e collaboratori, delle intercettazioni hanno dato i giudici di merito. Nessun travisamento del fatto viene in realtà denunciato ma solo una diversa interpretazione delle parole nei contesti nei quali esse sono state pronunciate e quindi si tratta di questioni di merito improponibili in sede di legittimità. La sentenza impugnata ha invece valutato in modo congruo gli atteggiamenti tenuti dagli imputati, il contesto di intimidazione nel quale venivano tenuti, ha dato congrua e puntuale risposta alle obiezioni della difesa.
Ha escluso che C. avesse tenuto un comportamento valutabile come minore partecipazione al fatto, tenuto conto che insieme a V. aveva costretto l’imprenditore a recarsi dal boss D.F. , a nulla rilevando che fosse rimasto in silenzio, essendo sufficiente l’atteggiamento intimidatorio assunto dai due.
I motivi di V. sono del tutto generici affermando in senso tautologico che chi viene assolto dalla partecipazione all’associazione a delinquere di stampo mafioso non può essere condannato per un reato aggravato dall’uso del metodo mafioso, nonché che la pena era stata determinata in modo incongruo.
Quanto ai motivi presentati da B. , il dedotto travisamento della prova sulle dichiarazioni di D.P., è insussistente in relazione ai fatti per i quali è intervenuta condanna, cioè alla tentata estorsione; in relazione a tale fatto le dichiarazioni di D.P. avevano dato conto del clima di intimidazione nel quale i commercianti di latticini del territorio erano costretti a vivere, essendo loro imposto di acquistare tale prodotto ora dal B. ora dal D.F. a seconda del prevalere nel territorio del potere dell’uno o dell’altro boss; per altro osserva la sentenza che se D.F. era giunto a minacciare l’imputato ciò significava che egli si era attivato per sottrargli i clienti. La sentenza aveva dato atto che il metodo intimidatorio dell’imputato era chiaramente provato dalle conversazioni telefoniche intercettate nelle quali era emerso che l’intimidazione era il mezzo per procacciare i clienti.
I ricorrenti debbono essere condannati ciascuno al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 alla Cassa delle ammende.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti, ciascuno, al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 alla Cassa delle Ammende.
Depositata in Cancelleria l’8 febbraio 2011