Società per Azioni. Vizi della deliberazione dell’assemblea dei soci di acquisto di azioni proprie – Cassazione Civile, Sentenza n. 1361/2011
La deliberazione con cui una s.p.a. autorizza l’acquisto di azioni proprie, assunta ai sensi dell’art. 2357 cod. civ., legittimamente tiene conto, nel calcolo dei limiti di legge, sia della riserva da sovrapprezzo delle azioni (divenuta disponibile dopo la trasformazione della società da cooperativa a s.p.a.), sia dell’aumento di capitale sociale successivo all’ultimo bilancio approvato; mentre la violazione del diritto di opzione spettante ai soci o l’errore nel calcolo del quorum deliberativo possono comportare la mera annullabilità della deliberazione assembleare.
Lo afferma la Prima sezione Civile della Cassazione nella sentenza n. 1361 depositata il 20 gennaio 2011.
Secondo la Cassazione, è necessario anzitutto confermare l’esattezza del principio di diritto enunciato dalla corte d’appello, secondo cui, nel valutare se un acquisto di azioni proprie sia stato deliberato nel rispetto del limite fissato dall’art. 2357, comma terzo , cc., occorre tener conto anche dell’eventuale aumento di capitale deliberato e sottoscritto successivamente all’ultimo bilancio d’esercizio approvato, senza che sia a tal fine necessario procedere all’approvazione di un ulteriore bilancio.
Inducono a tale conclusione argomenti sia di ordine testuale sia di ordine logico.
Sul piano testuale è agevole constatare come il citato terzo comma dell’art.2357 si limiti a richiedere che il valore delle azioni proprie acquistate dalla società non ecceda il dieci per cento del capitale ma, a differenza del primo comma, non faccia alcun alcuna menzione dell’ultimo bilancio approvato.
Sul piano logico è da considerare che tale prescrizione diversamente dall’altra cui sopra s è fatto cenno, non appare dettata dall’intento di salvaguardare l’integrità del capitale sociale, bensì dallo scopo di impedire un eccessivo accumulo di potere nelle mani dell’organo amministrativo della società e la possibilità che ciò influenzi indebitamente il mercato delle azioni ed eventualmente anche la futura composizione dell’azionariato. Quel che conta, a tal fine, è perciò la misura attuale del capitale e delle azioni in circolazione, con cui occorre confrontare il numero delle azioni proprie acquistate dalla società, e non quale fosse la misura del medesimo capitale in un momento precedente, indipendentemente da quando l’ultimo bilancio sia stato approvato.
Naturalmente, per le medesime ragioni, il capitale cui si deve far riferimento non è quello meramente deliberato, bensì quello effettivamente sottoscritto, cui corrisponde il numero delle azioni emesse dalla società.
Nel caso in esame, come s’è accennato, il capitale al quale la corte di merito ha fatto riferimento, nel giudicare del non superamento dei limiti posti dal citato terzo comma dell’art.2357, è appunto quello sottoscritto. Nè ha fondamento l’obiezione del ricorrente, secondo cui la prova della sottoscrizione di detto capitale non sarebbe stata ritualmente acquisita, perchè il fascicolo di parte che la conteneva era stato prima ritirato e poi solo tardivamente ridepositato nella cancelleria del giudice di primo grado. Se anche le cose stessero in questo modo, occorrerebbe considerare che quel medesimo fascicolo di parte, con i documenti dai quali la corte di merito ha tratto il proprio motivato convincimento in ordine all’avvenuta sottoscrizione del capitale nell’indicata misura, è stato incontrovertibilmente di nuovo depositato in secondo grado. Tanto basta a rendere utilizzabili i summenzionati documenti, non ostandovi il divieto di nuove prove in appello: appunto perchè non di documenti nuovi si è trattato, bensì di documenti già a suo tempo ritualmente prodotti dinanzi al tribunale ed offerti all’esame dell’attore quando il fascicolo di parte convenuta è stato per la prima volta tempestivamente depositato nella cancelleria del tribunale.
Accertato , allora in punto di fatto, che furono acquistate azioni proprie in misura non eccedente il limite del dieci per cento del capitale sociale sottoscritto, nessuna contrarietà alla legge o allo statuto è dato ravvisare, sotto questo profilo, nella deliberazione assembleare che quell’acquisto aveva autorizzato, non sussistendo alcuna prescrizione che imponga di fornire seduta stante ai soci una specifica informazione sull’avvenuta sottoscrizione del capitale aumentato ( verificabile in qualsiasi momento, da chiunque, a seguito dell’iscrizione nel registro delle imprese disposta ai sensi dell’art. 2444, primo comma c.c.)
Non ha pregio neppure l’assunto secondo il quale del riferito aumento di capitale non si sarebbe potuto comunque tener conto perchè il frutto di una deliberazione assembleare invalida.
Occorre a tal proposito osservare – ed è rilievo puntualmente sollevato dal Procuratore generale nella discussione in pubblica udienza, assorbente anche rispetto alle diverse considerazioni svolte sul punto nell’impugnata sentenza – che nessuno dei vizi dai quali il ricorrente afferma che la menzionata deliberazione di aumento del capitale sarebbe affetta è tale da determinare la nullità , e tanto meno l’inesistenza giuridica.
E’ ben noto che, in tema di deliberazioni assembleari di società per azioni, il regime dell’invalidità differisce da quello previsto in generale per gli atti negoziali, giacchè, a norma dell’art.2377 c.c, la contrarietà della deliberazione a prescrizioni di legge imperative o a disposizioni dello statuto sociale ne comporta la mera annullabilità,laddove è solo in presenza di una delle situazioni tassativamente indicate dal successivo art. 2379 che la deliberazione può essere considerata radicalmente nulla.
Ciò consente, anzitutto, di escludere subito che possa parlarsi di nullità della delibera di aumento del capitale sociale per pretesa violazione del diritto di opzione spettante ai soci, giacchè tale diritto è tutelato dalla legge solo in funzione dell’interesse individuale dei soci determina un ipotesi di semplice annullabilità, laddove la nullità delle deliberazioni dell’assemblea delle società per azioni per illiceità dell’oggetto, ai sensi dell’art. 2379 c.c. ( anche nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.leg n. 6 del 2003), ricorre solo in caso di contrasto con norme dettate a tutela dell’interesse generale, tale da trascendere quello del singolo socio ( cfr, da ultimo, Cass.7 novembre 2008, n. 26842 ).
Non diversamente è a dirsi anche per gli ulteriori vizi della deliberazione denunciati dal ricorrente, che ugualmente non metono capo ad un ipotesi di oggetto illecito, tale evidentemente non potendosi considerare nè la trasformazione della cooperativa in società per azioni ( consentita alle banche popolari già all’epoca dei fatti di causa) nè l’aumento del capitale sociale.
E’ altresì da escludere che i denunciati vizi della deliberazione di aumento del capitale sociale evidenzino deviazioni così radicali dal modello legale da configurare un ipotesi d’inesistenza giuridica della deliberazione stessa: la quale, a quanto risulta, è stata assunta da un assemblea ritualmente convocata, il cui andamento è stato normalmente verbalizzato, e che si è svolta senza particolari anomalie, salvo ad essersi conclusa con una votazione contestuale vertente tanto sulla proposta di trasformazione sociale che su quella di aumento del capitale.
I vizi che in ciò ravvisa il ricorrente si riducono, a ben vedere, ad un asserita anomalia del procedimento di votazione ed alla non corretta modalità di computo delle maggioranze occorrenti per l’approvazione della proposta di aumento del capitale sociale. Ma, se anche si volessero considerare esistenti tale anomalie, non se ne potrebbe dedurre altro se non che il procedimento di votazione e le modalità di calcolo del quorum deliberativo non sono risultati conformi alla legge. Non ignora il collegio che, in tempi peraltro assai risalenti, questa corte ha parlato d’inesistenza della deliberazione assunta in difetto della maggioranza richiesta dall’atto introduttivo della società ( Cass. 13 gennaio 1987, n. 133); ma una siffatta affermazione, che dovrebbe ovviamente a maggior ragione valere per il difetto di quorum deliberativo prescritto dalla legge, anche alla luce degli orientamenti espressi da autorevole dottrina non può essere qui confermata, o almeno non in termini assoluti e generali.
Neppure nel contesto normativo anteriore alla suaccennata riforma del 2003 ( con la quale il legislatore ha chiaramente manifestato l’intento di togliere spazio alla figura giurisprudenziale dell’inesistenza giuridica delle deliberazioni societarie) si sarebbe potuto sostenere che una deliberazione adottata in difformità dalle disposizioni di legge o dello statuto in materia di quorum deliberativi non abbia i lineamenti essenziali richiesti per integrare il modello legale di una decisione assunta dai soci della società in ordine alle proposte riportate nell’ordine del giorno dell’assemblea. Una siffatta deliberazione, proveniente da un assemblea formata da soggetti legittimati ad assumerla e conclusasi con la proclamazione del risultato, è certamente un atto giuridico venuto ad esistenza. Nè vi osta il fatto che si sia proceduto ad un unica votazione per una pluralità di oggetti, volta che risulti comunque possibile riferire l’esito della votazione medesima a ciascuno di essi.
La deliberazione è stata assunta e l’esito ne è stato proclamato e reso pubblico. L’eventuale errore nel computo dei voti, se fosse effetto di una mera svista, non potrebbe logicamente produrre conseguenze maggiori di quanto accade per l’errore ostativo in ambito negoziale; se invece – come si sostiene essere avvenuto nella fattispecie in esame – si fosse in presenza di un errata valutazione circa le modalità di calcolo del quorum, operato secondo regole diverse da quelle legali o statutarie, ciò non potrebbe che tradursi in una non conformità alla legge( nella parte in cui questa dispone, appunto, in ordine alle suddette modalità di calcolo); ma in nessun caso potrebbe condurre a conseguenze più radicali, come quelle dell’ipotizzata inesistenza della deliberazione proclamata, palesemente contrarie alle fondamentali esigenze di certezza e di affidamento che ispirano ( ed ispiravano anche nel regime anteriore alla cenata riforma societaria) la disciplina degli artt 2377 e segg. cc.
Si tratta, quindi, di una deliberazione semmai annullabile, la cui stabilità ed i cui effetti non possono perciò essere messi in discussione ove, entro il termine di decadenza fissato dal citato art. 2377, nessuno dei soggetti a ciò legittimati abbia proposto azione di annullamento.
(Litis.it, 10 Febbraio 2011)
Allegato Pdf: Sentenza n. 1361 del 20 gennaio 2011, n. 1361
Sezione Prima Civile, Presidente C. Carnevale, Relatore R. Rordorf)