Indagini finanziarie. La presunzione di ricavi non dichiarati si applica anche agli accertamenti ante luglio 2005 – Cassazione Civile, Sent. 802/2011
La Cassazione coglie poi l’occasione per ribadire che l’omesso invito al dialogo non ne intacca la legittimità
La presunzione che assiste le indagini finanziarie – per cui i versamenti e i prelevamenti bancari non diversamente giustificati costituiscono ricavi o compensi non dichiarati – è pienamente applicabile anche agli accertamenti effettuati nei confronti dei professionisti prima dell’entrata in vigore della modifica normativa del 2004, che ha introdotto nella formulazione testuale della disposizione di legge, che disciplina tale modalità accertatrice, anche il riferimento ai compensi, caratteristici dell’attività professionale, oltre che ai ricavi già precedentemente indicati. È questa, in sintesi, la decisione assunta dai supremi giudici, con la sentenza n. 802 del 14 gennaio 2011.
L’iter di merito
Un dentista veniva sottoposto a verifica fiscale da parte della Guardia di finanza che, in esito alle attività ispettive, redigeva nei suoi confronti due processi verbali di constatazione, in base ai quali l’ufficio competente emetteva un avviso di accertamento Irpef, con cui rettificava in aumento il reddito dichiarato dal contribuente. Questi impugnava l’atto impositivo in Commissione tributaria provinciale, che accoglieva il ricorso. L’Amministrazione finanziaria si opponeva e i giudici di secondo grado, ribaltando la prima sentenza, si pronunciavano a favore della parte pubblica.
La Commissione tributaria regionale fondava la sua decisione sul fatto che, contrariamente a quanto asserito dal contribuente, non potesse assumere alcuna rilevanza il giudicato formatosi in relazione a un avviso di rettifica Iva per il medesimo periodo d’imposta, avverso il quale lo stesso contribuente aveva proposto ricorso e ottenuto una sentenza a sé favorevole da parte della Commissione tributaria provinciale. Inoltre, i giudici d’appello ritenevano corretto l’operato dell’ufficio che, sulla base delle materie prime e sussidiarie utilizzate per la produzione di protesi dentarie, aveva ipotizzato un’omessa fatturazione per 77 apparecchiature e, di conseguenza, la mancata contabilizzazione di corrispettivi. I giudici, inoltre, sulla scorta delle indagini effettuate dalla Guardia di finanza sui conti correnti del contribuente e dalla moglie, ritenevano sussistente l’omessa contabilizzazione e dichiarazione degli ulteriori compensi desumibili dalle movimentazioni bancarie.
La decisione della Suprema corte
Il contribuente proponeva ricorso per cassazione, articolandolo in sei motivi.
Con il primo deduceva la violazione dell’articolo 53 del Dlgs 546/1992, in base al quale “il ricorso in appello contiene … i motivi specifici dell’impugnazione”. Secondo il ricorrente, l’Agenzia delle Entrate non avrebbe esplicitato, in sede di ricorso in secondo grado, i motivi specifici per i quali veniva proposto l’appello, comportando, quindi, l’inammissibilità del ricorso stesso. Inoltre, lamentava la violazione dell’articolo 57 dello stesso decreto legislativo, per cui “nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio”. Il contribuente sosteneva che le eccezioni sollevate dalla parte pubblica, in sede di appello, erano tutte nuove, atteso che questa non si era costituita in primo grado.
I giudici di legittimità hanno ritenuto il motivo infondato, atteso che, per quanto attiene alla prima censura, hanno ribadito il loro costante orientamento giurisprudenziale per cui “l’indicazione dei motivi specifici dell’impugnazione, richiesta dalla norma suindicata, non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, ben potendo i motivi di gravame essere ricavati, anche per implicito, purché in maniera univoca, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso” (Cassazione, sentenze 1224/2007, 1574/2005, 1642/2005). Nel caso di specie, i motivi di appello dell’Agenzia delle Entrate erano chiaramente comprensibili, come dimostra la loro precisa illustrazione da parte del contribuente stesso, in sede di ricorso per cassazione.
In relazione, poi, alla seconda censura, i giudici hanno ribadito che “la norma in questione vieta la proposizione in appello di domande ed eccezioni nuove, per queste intendendosi le eccezioni in senso stretto, come tali non rilevabili d’ufficio … non può, invece, ritenersi esteso anche alle mere difese, che la parte contumace in primo grado è pienamente legittimata, pertanto, a svolgere in appello per confutare le ragioni poste a fondamento del ricorso della controparte” (Cassazione, sentenze 14020/2007, 18519/2005, 5895/2002).
Con il secondo motivo di ricorso il contribuente censurava la sentenza impugnata per violazione dell’articolo 2909 del Codice civile, atteso che i giudici della Ctr avrebbero erroneamente negato la rilevanza della decisione della Commissione tributaria provinciale, con cui era stato accolto il ricorso dello stesso contribuente, che aveva impugnato un avviso di rettifica Iva tramite il quale l’ufficio aveva accertato la mancata emissione di fatture per la cessione di alcune protesi.
Anche tale mezzo, però, è stato disatteso dalla Suprema corte, la quale ha ribadito che affinché “una lite possa ritenersi coperta dal giudicato di una precedente sentenza resa tra le stesse parti, è necessario che il giudizio introdotto per secondo investa lo stesso rapporto giuridico che ha già formato oggetto del primo” (Cassazione, sentenza 2594/2010). I giudici di legittimità hanno poi aggiunto che tale identità di rapporto debba evidentemente escludersi nell’ipotesi in cui oggetto dei giudizi siano imposte differenti, per cui la decisione ai fini Iva non può esplicare alcun effetto nei confronti del giudizio relativo all’Irpef. Ciò vale ancora di più se quest’ultimo processo, relativo all’imposta sul reddito, si fonda su più fatti rispetto a quelli considerati nel precedente giudizio avente a oggetto l’Iva, come nel caso in esame.
Il motivo di ricorso successivo, poi, è stato prontamente respinto dalla Cassazione, poiché, con esso, il contribuente tendeva sostanzialmente a richiedere una revisione del giudizio di merito, non operabile in sede di legittimità.
Eccependo la violazione dell’articolo 360 c.p.c., il ricorrente proponeva, quindi, il quarto mezzo di ricorso. Con esso censurava il comportamento della Commissione tributaria regionale, che non si sarebbe pronunciata su un punto decisivo della controversia, ovvero l’asserita assenza di motivi specifici per la proposizione del ricorso d’appello da parte dell’Amministrazione finanziaria.
La Suprema corte, anche in questo caso, non ha condiviso la tesi difensiva, stabilendo che, se pure i giudici di seconda istanza avessero considerato tale questione, non avrebbero potuto decidere diversamente da come avevano fatto, visto che la censura del contribuente era manifestamente infondata per quanto già stabilito dalla stessa Cassazione col rigetto del primo motivo di ricorso.
Con il penultimo mezzo di ricorso – il più interessante della sentenza – il ricorrente lamentava la violazione dell’articolo 32 del Dpr 600/1973, considerato che la Commissione tributaria regionale non avrebbe rilevato l’illegittimità dell’atto impositivo fondato su indagini bancarie e relativo a un periodo d’imposta precedente alla modifica normativa del 2004 che, introducendo il richiamo ai compensi, oltre che ai ricavi, avrebbe consentito l’applicazione dell’accertamento bancario anche nei confronti dei professionisti che, appunto, conseguono compensi e non ricavi, propri, invece, delle imprese.
La “vecchia” formulazione dell’articolo 32, comma 1, numero 2, stabiliva, infatti, che i versamenti e i prelevamenti sono “posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti” se il contribuente non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione del reddito o che non hanno alcuna attinenza con l’attività svolta. Tale norma – secondo il ricorrente – consentiva l’accertamento bancario soltanto nei confronti di coloro che conseguivano ricavi, ovvero gli imprenditori. La legge 311/2004 ha riformato il testo di tale disposizione, che attualmente prevede che prelevamenti e versamenti non diversamente giustificati sono “posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti”. Dall’introduzione del termine “compensi”, non presente nella formulazione previgente, il contribuente vorrebbe far discendere la possibilità di effettuare accertamenti bancari nei confronti dei professionisti soltanto a decorrere dalla data di entrata in vigore della predetta legge 311, ovvero dal 1° luglio 2005.
La Suprema corte, però, ha disatteso puntualmente tale assunto, ricordando che “è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la norma in questione, e la presunzione in essa contenuta, seppure letteralmente riferibile ai soli “ricavi”, sia da intendersi applicabile anche al reddito da lavoro autonomo, e non solo al reddito di impresa” (Cassazione, sentenze 4601/2002, 430/2008, 11750/2008). Di conseguenza, il comportamento dell’ufficio accertatore è stato ritenuto corretto dai supremi giudici e la sentenza impugnata è risultata, sul punto, senza vizi.
Infine, con l’ultimo motivo, il dentista censurava l’operato dell’ufficio, che non lo avrebbe invitato al contraddittorio prima della notifica dell’atto impositivo.
I giudici, tuttavia, hanno nuovamente confermato il loro ormai consolidato orientamento, per cui il contraddittorio preventivo, in ipotesi di indagini finanziarie, rappresenta soltanto una mera facoltà per l’Amministrazione finanziaria, e la sua omissione, pertanto, non intacca in alcun modo la legittimità dell’avviso di accertamento (Cassazione, sentenze 14675/2006, 4601/2006, 25142/2009).
In conclusione, quindi, la Cassazione ha rigettato il ricorso del contribuente, che è anche stato condannato al pagamento delle spese di giudizio.
Alessandro Borgoglio
nuovofiscooggi.it