CivileGiurisprudenza

Un’apertura munita di inferriata che non consente la “prospectio” non può configurarsi come una veduta – Cassazione Civile, Sentenza n. 233/2011

Posto che, in generale, la natura di veduta o di luce (regolare o irregolare) di una determinata apertura deve essere accertata dal giudice del merito alla stregua delle caratteristiche oggettive dell’apertura stessa, rimanendo, a tal fine, irrilevante l’intenzione del suo autore o la finalità soggettivamente perseguita dal medesimo, l’apertura non può considerarsi una veduta allorchè, per le dimensioni ridotte di mt. 0,85 e mt. 0,85 e per la sua constatata chiusura con grata di ferro, essa non può essere ricondotta alla figura della veduta in senso proprio. In tali ipotesi deve affermarsi il consolidato pricipio di diritto secondo cui un’apertura che sia stata munita di inferriata che non consente la “prospectio” non può configurarsi come una veduta (anche quando permetta, in ipotesi, di guardare nel fondo sottostante mediante una manovra di per sé eccezionale e poco agevole per una persona di normale conformazione).

(Litis.it, 21 Gennaio 2011)

Cassazione Civile, Sezione Seconda, Sentenza n. 233 del 05/01/2011

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 19 novembre 1991 [OMISSIS] conveniva, dinanzi al Tribunale di L’Aquila, [OMISSIS], chiedendo la condanna di quest’ultimo alla chiusura di una finestra dallo stesso irregolarmente aperta, che consentiva l’affaccio sul proprio fondo, oltre al risarcimento dei danni.

Instauratasi la controversia, nella resistenza del convenuto e con l’intervento del terzo [OMISSIS] (che aveva, a sua volta avanzato domanda ripristinatoria e risarcitoria nei confronti dell’attore), il giudice adito, esperita la fase istruttoria (nel corso della quale veniva anche espletata c.t.u.), con sentenza non definitiva del 27 gennaio 1999, qualificava come luce l’apertura realizzata dal suddetto convenuto e, accertatane l’irregolarità (siccome posta ad altezza di mt. 1.75 dal pavimento, anziché a mt. 2,50), condannava il [OMISSIS] alla regolarizzazione della luce stessa, respingendo la domanda attorea di risarcimento dei danni, disponendo la prosecuzione del giudizio per la valutazione della domanda riconvenzionale del convenuto e di quella del menzionato terzo.

A seguito di appello ritualmente interposto dal [OMISSIS] avverso la suddetta sentenza non definitiva, la Corte di appello di L’Aquila, con sentenza n. 129 del 2004 (depositata il 3 marzo 2004) rigettava il gravame e condannava l’appellante al pagamento delle spese del grado.

A sostegno dell’adottata sentenza la Corte di appello di L’Aquila evidenziava che, dalle prove acquisite in primo grado, il Tribunale aveva correttamente ritenuto che, nella specie, ricorrevano i requisiti per la qualificazione della dedotta apertura come luce irregolare (e non di veduta) per la quale, quindi, si imponeva la condanna alla regolarizzazione, così come, altrettanto esattamente, era stata rigettata la domanda risarcitoria, non essendo stata offerta alcuna prova dei danni lamentati, non potendo, peraltro, ravvisarsi la sussistenza di un danno “in re ipsa”, non essendo stato dedotto né dimostrato che il S. l’avesse utilizzata per guardare nel fondo del vicino e per turbare la sua riservatezza.

Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il [OMISSIS], articolato su tre motivi;

l’intimato [OMISSIS] non risulta costituito in questa fase.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c. (rectius: 112 c.p.c.) e dell’art. 901 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché l’omessa e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

In sostanza, con tale doglianza, ha inteso censurare la sentenza impugnata assumendo l’omesso esame del motivo di appello nel quale si rilevava che, nella decisione di primo grado, era stata inserita l’inesatta indicazione della regolarizzazione a mt. 1,75 dal pavimento, così violandosi il disposto dell’art. 901 c.c., e che, in ogni caso, si doveva considerare errata la qualificazione dell’apertura dedotta in giudizio della quale era stata chiesta l’eliminazione e, invece, disposta la regolarizzazione, senza la formulazione di apposita domanda.

1.1. Il motivo è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.

Posto che, in generale, la natura di veduta o di luce (regolare o irregolare) di una determinata apertura deve essere accertata dal giudice del merito alla stregua delle caratteristiche oggettive dell’apertura stessa, rimanendo, a tal fine, irrilevante l’intenzione del suo autore o la finalità soggettivamente perseguita dal medesimo, con riferimento alla fattispecie, la Corte di appello, sulla scorta degli accertamenti tecnici eseguiti in primo grado, ha adeguatamente motivato nel senso che l’apertura per cui era stata instaurata la controversia non poteva considerarsi una veduta dal momento che, per le dimensioni ridotte di mt. 0,85 e mt. 0,85 e per la sua constatata chiusura con grata di ferro, essa non poteva essere ricondotta alla figura della veduta in senso proprio. Del resto, la giurisprudenza di questa Corte (v., ad es., Cass. 26 agosto 1985, n. 4533, e Cass. 10 ottobre 2005, n. 20200) è consolidata nel ritenere che un’apertura che sia stata munita di inferriata che non consente la “prospectio” non può configurarsi come una veduta (anche quando permetta, in ipotesi, di guardare nel fondo sottostante mediante una manovra di per sé eccezionale e poco agevole per una persona di normale conformazione).

Ciò posto, la Corte territoriale, nell’esaminare lo specifico motivo di gravame del D. F., ha compiutamente rilevato che il Tribunale di L’Aquila, proprio sulla scorta delle risultanze oggettivamente riscontrate con riguardo all’apertura e verificato che la stessa corrispondeva alla caratteristiche di una luce, ne aveva ordinato la sua regolarizzazione, essendo emerso che essa era stata posta ad un’altezza (avendo riguardo al suo lato inferiore) di mt. 1,75 dal pavimento dal suolo del vicino e del locale cantina del convenuto che ne fruiva. A tal proposito, nella sentenza impugnata, si evidenzia come la statuizione di primo grado, aveva dato rilievo alla suddetta altezza illegittima di mt. 1,75 in funzione descrittiva della condizione dei luoghi, dichiarando che l’apertura, non essendo stata posta a mt. 2,50, avrebbe dovuto, conseguentemente, essere regolarizzata in conformità delle misure stabilite dall’art. 901 c.c., nn. 2 e 3. Pertanto, secondo la logica e coerente motivazione della Corte aquilana, il tenore della decisione di prime cure era da considerarsi, in proposito, inequivoco contenendo la condanna alla regolarizzazione dell’apertura stessa ai sensi del citato art. 901 c.c.

Pertanto, il supposto vizio motivazionale dedotto dal ricorrente non sussiste, così come non può ritenersi che si sia configurata una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato dal momento che nella domanda di eliminazione dell’apertura doveva considerarsi ricompresa l’istanza di regolarizzazione della stessa ove fosse risultata avere le caratteristiche di una luce illegittima, come, del resto, lo stesso D.F. aveva specificato all’esito del giudizio di appello, ancorché in via subordinata (v. le conclusioni rassegnate dal suo difensore, riportate nella prima parte, successiva all’intestazione, della sentenza impugnata). Di conseguenza, accertate la natura e la funzione di luce della controversa apertura, il ricorrente (v. Cass. 4 luglio 2000, n. 8930) non poteva ritenere di avere diritto alla sua chiusura, potendo solo insistere per la sua regolarizzazione (art. 902 c.c.), come, in effetti, era stato anche prospettato e, quindi, riconosciuto in suo favore.

2. Con il secondo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per assunta violazione degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c., nonché, in virtù dell’art. 360, comma, 1, n. 5, per omessa e contraddittoria motivazione, con riferimento al mancato riconoscimento della fondatezza della correlata domanda risarcitoria senza far riferimento ad alcun atto istruttorio o prova acquisita, essendosi ritenuto che la luce era stata aperta in seguito al raggiungimento di un accordo tra le parti comportante la chiusura di una porta di accesso precedentemente aperta sulla proprietà del D.F.

2.1. Anche questo motivo non è meritevole di pregio e deve, perciò essere respinto. Infatti, la Corte di appello, con motivazione logica e sufficiente (e non specificamente censurata sul punto), ha rilevato che, nel caso in questione, il D.F. non aveva né dedotto né dimostrato che, in conseguenza della realizzazione della luce illegittima da parte del S. (comunque munita di grata che non avrebbe reso possibile l’agevole “prospectio” sul fondo limitrofo), la sua proprietà avesse risentito di un danno concreto, non risultando riscontrata, sulla base delle emergenze processuali, alcuna attività di immissione, di interferenza illecita o molestatrice da parte del vicino. In proposito, il ricorrente non ha evidenziato la sussistenza di alcun elemento oggettivamente accertato e che il giudice di appello non aveva valutato, dal quale poter desumere una deficienza motivazionale tale da giustificare la sua doglianza.

3. Con il terzo motivo il ricorrente ha prospettato, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione degli artt. 1226 e 2727 c.c., avuto riguardo al mancato riconoscimento di un danno in suo favore e all’erronea valutazione compiuta dal giudice di appello sulla mancata configurabilità di un danno “in re ipsa”.

Anche quest’ultimo motivo è da ritenersi infondato dal momento che, non essendo rimasta comprovata alcuna obiettiva causa determinatrice di una situazione concretamente dannosa, la Corte di appello non avrebbe potuto liquidare, anche in via equitativa, alcun danno a vantaggio del D.F. Del resto, la Corte territoriale ha correttamente rilevato in motivazione che l’appellante non avrebbe potuto giovarsi dell’affermazione che il danno per una luce irregolare era da ritenersi sussistente “in re ipsa” (aggiungendosi, in questa sede, che, in generale, tale principio potrebbe valere, tutt’al più, per l’accertata sussistenza di vedute illegittime), poiché era mancato propriamente il raggiungimento della prova sulla circostanza che il S. l’avesse utilizzata per guardare sul fondo del vicino e per turbare la sua riservatezza, attività, peraltro, che difficilmente si sarebbe potuta realizzare in considerazione della presenza della grata di ferro.

4. In definitiva, il ricorso deve essere respinto, dichiarandosi il non luogo a provvedere sulle spese per mancata costituzione dell’intimato.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso.

Depositata in Cancelleria il 05 gennaio 2011

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *