Il confidente della polizia non é un “pentito” e sono esclusi i permessi premi – Cassazione Penale, Sentenza n. 45593/2010
La collaborazione utile ai fini dell’art. 58 ter Ord. Pen. – Riconoscimento dello status di collaboratore di giustizia – non può essere generica né prestata in forme e sedi non previste, ma deve essere specificamente riferita ai reati oggetto della condanna in relazione alla quale si chiede il beneficio. Ed infatti tutto il sistema riconosce solo la collaborazione prestata in ambito processuale, versata in atti ed utilizzata a fini probatori, risultando non riconoscibilel’eventuale collaborazione rimasta circoscritta all’ambito dell’attività di polizia, pre-processuale o extra processuale, e non confluita in alcun contenitore giudiziario. Si tratta, invero, in tal caso, di mera confidenza che, per quanto ampia e veridica, nonché sperabilmente fruttuosa, è destinata per legge a rimanere segreta (art. 203 C.p.p.) e sulla quale non sarebbe dunque possibile la necessaria verifica nel dovuto contraddittorio delle parti.
E’ ben evidente, pertanto, che non sarebbe ragionevole l’estensione interpretativa che darebbe ingresso all’accettazione di affermazioni non verificate nel processo di cognizione e non verificabili neppure in sede di procedimento di sorveglianza, stante la loro natura confidenziale improntate alla genericità ed autoreferenzialità.
(Litis.it, 11 Gennaio 2011)
Cassazione Penale, Sezione Prima, Sentenza n. 45593 del 29/12/2010
1. Con ordinanza in data 02.03.2010 il Tribunale di Sorveglianza di Roma dichiarava non sussistente nei confronti del condannato [OMISSIS] la fattispecie della collaborazione prestata e, per l’effetto, respingeva la sua istanza di permesso premio in relazione ai reati in esecuzione, ostativi al chiesto beneficio ex art. 4 bis Ord. Pen. – Rilevava invero detto Tribunale come il Pubblico Ministero competente avesse attestato, ex art. 58 ter Ord. Pen., che il predetto non aveva mai prestato collaborazione con l’Autorità giudiziaria, mentre non poteva essere ritenuta idonea, ai fini in parola, una missiva del Capo della Polizia con la quale si comunicava che il [OMISSIS], prima del suo arresto avvenuto nel 1993, aveva fornito un importante e significativo contributo al fine di accertare e prevenire gravi fatti di criminalità organizzata. Tale ultima attestazione, invero -riteneva il Tribunale- si riferiva a collaborazione confidenziale, non sfociata in contributi processuali, non considerata come tale dalle disposizioni di legge, come si doveva ritenere certo dall’interpretazione sia sistematica che specifica della normativa.
2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto condannato che motivava l’impugnazione deducendo a) la collaborazione di esso ricorrente, essendo stata di tipo preventivo, non avrebbe potuto refluire in sede processuale; trattavasi di attività per la quale è riconosciuto, invero, il vincolo del segreto; b) il Tribunale avrebbe dovuto attivare i poteri d’ufficio di acquisizione probatoria, il che avrebbe garantito anche il contraddittorio; c) non era previsto che la collaborazione, utile ai fini in parola, dovesse essere fornita solo in ambito processuale.
3. Il Procuratore generale presso questa Corte depositava quindi motivata requisitoria con la quale richiedeva il rigetto del ricorso per infondatezza.
4. In data 12.11 .2010 la difesa del [OMISSIS] depositava motivi aggiunti, in replica, ribadendo le sue tesi.
5. lI ricorso, infondato così come i motivi aggiunti, deve essere rigettato con ogni conseguenza di legge.
Ed invero è principio fondamentale -che va qui richiamato e ribadito- secondo cui la collaborazione utile ai fini in parola (art. 58 ter Ord. Pen.) non può essere generica né prestata in forme e sedi non previste, ma deve essere specificamente riferita ai reati oggetto della condanna in relazione alla quale si chiede il beneficio (Cass. Pen. Sez.1, n. 43659 in data 18.10.2007, Rv. 238689, Cass. Pen. Sez. 1, n. 4689 in data 23.09.1996, Rv, 205749, Grassi). Orbene, nella presente fattispecie è del tutto pacifico che la collaborazione, che il ricorrente assume essere da lui prestata alle
forze di Polizia, non si riferisce alla condanna che egli sta scontando, in relazione alla quale aveva chiesto il beneficio del permesso premio. Per tale condanna, invero, è altrettanto pacifico che nessuna attività di collaborazione è stata prestata dal [OMISSIS]Su tale punto occorre dunque convalidare la motivazione del Tribunale laddove rileva come tutto il sistema riconosca solo la collaborazione prestata in ambito processuale, versata in atti ed utilizzata a fini probatori, risultando -sotto vari aspetti e per plurime ragioni- non riconoscibile, ai fini in parola, l’eventuale collaborazione rimasta circoscritta all’ambito dell’attività di polizia, pre-processuale o extra processuale, e non confluita in alcun contenitore giudiziario. Si tratta, invero, in tal caso, di mera confidenza che, per quanto ampia e veridica, nonché sperabilmente fruttuosa, è destinata per legge a rimanere segreta (v. art. 203 C.p.p.) e sulla quale non sarebbe dunque possibile la necessaria verifica nel dovuto contraddittorio delle parti. Ciò è tanto vero che la nota del Capo della Polizia, sulla quale il ricorrente fonda la sua richiesta, è -all’evidenza- assolutamente generica, tanto da non poter essere comunque valutata ai fini dedotti, mancando del tutto di specificare sia i termini del contributo del [OMISSIS], sia le indagini cui si riferisce, sia gli esiti concreti (arresti, perquisizioni, sequestri) cui avrebbe portato. Genericità imposta, in definitiva, dalla sua stessa natura di confidenza. E’ ben evidente, pertanto, che non sarebbe ragionevole la chiesta estensione interpretativa che darebbe ingresso all’accettazione di affermazioni non verificate nel processo di cognizione e non verificabili neppure in sede di procedimento di sorveglianza, stante la loro natura confidenziale improntate alla genericità ed autoreferenzialità. Ciò posto, è anche evidente che correttamente non è stata avviata alcuna attività istruttoria di approfondimento conoscitivo. Né può dedursi -come prospetta il ricorrente- irragionevole disparità di trattamento, attesa la radicale diversità di situazioni.
In definitiva il ricorso, infondato in ogni sua deduzione, deve essere rigettato. Alla completa reiezione dell’impugnazione consegue ex lege, in forza dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente [OMISSIS]al pagamento delle spese processuali.
processuali
Depositata in Cancelleria il 29.12.2010