AmministrativaGiurisprudenza

DIA. All’Adunanza Plenaria le questioni su natura privata o provvedimentale e conseguneti tecniche di tutela del terzo privato – Cons. St. Ord. 14/2011

Con Ordinanza Collegiale n. 14 del 5 gennaio 2011, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione sulla natura privata oppure provvedimentale della fattispecie realizzata a mezzo della denuncia di inizio di attività, tenendo presente che il testo unico dell’edilizia la ricomprende tra i titoli abilitativi, anche se atto del denunciante privato; nonché, risolta la qualificazione di natura sostanziale, involgente sia i poteri di inibizione che di autotutela successiva (autotutela fatta salva anche nell’istituto recente della s.c.i.a.), la questione involgente le tecniche di tutela, dei risvolti processuali e dei rimedi giurisdizionali ai quali può ricorrere il terzo.

Secondo la Quarta Sezione, quale che sia il rimedio esperibile, in ogni caso, però, per esigenze di certezza dei rapporti, deve sgomberarsi il campo dai dubbi sulla applicabilità alla fattispecie del termine decadenziale (piuttosto che prescrizionale), individuando il momento dal quale tale termine debba essere fatto decorrere (conoscenza del completamento della fattispecie), sia che si abbracci la tesi della impugnativa demolitoria che quella dell’accertamento autonomo;

Sulla base della soluzione adottata nella ricostruzione sostanziale dell’istituto, il rimedio giurisdizionale effettivo, comprende anche la eventuale ammissibilità, in tale fattispecie ma anche più in generale, della azione di accertamento da parte del terzo dinanzi a fattispecie che modificano i confini tra pubblico e privato e che esigono, a fini di liberalizzazione e semplificazione, un intervento solo eventuale e successivo dell’amministrazione pubblica nel rapporto tra autorità e libertà.

Da ultimo, si legge nella ordinanza, non può non tenersi in considerazione la ulteriore evoluzione dell’ordinamento che, nel rapporto permanente tra autorità e libertà, sposta la soglia verso la seconda e prevede una accelerazione degli strumenti di liberalizzazione, consentendo immediatamente la attività (la c.d. s.c.i.a.) a seguito della presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (art. 19 comma 2 su citato, a seguito delle modifiche apportate dal D.L. 78 del 31 maggio 2010 come convertito dalla legge di conversione n.122 del 30 luglio 2010); tale fattispecie ultima, ispirata ad una maggiore celerità nell’avvio della attività che si intende svolgere e concedendo un minore spazio alla pubblica amministrazione, è stata generalizzata dal comma 1 dell’art. 19 (che prevede che ogni atto, permesso, licenza, autorizzazione è sostituito dalla s.c.i.a.).

La s.c.i.a., di cui non è ancora chiara allo stato la ampiezza di applicazione in materia edilizia, scrivono i giudici amministrativi, enfatizza (in nome di una ulteriore liberalizzazione e semplificazione) ancora di più la natura privatistica dell’atto, ma per converso non può smentire la permanenza della potestà pubblica, che è naturalmente fatta salva in via di autotutela e di divieto di prosecuzione della attività.

(Litis.it, 7 Gennaio 2011 – Nota a cura dell’Avv. Marco Martini)

Consiglio di Stato, Sezione Quarta, Ordinanza Collegiale n. 14 del 05/01/2011

FATTO

Con ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto il signor [OMISSIS], attuale appellato, agiva per l’annullamento della denuncia di inizio di attività n.197703 del 2007, in variante al permesso di costruire n.84298/2003 (come a sua volta variato da precedente D.I.A. n.403111/2004), avverso la nota comunale 28 settembre 2007 n.402847/2007 nonché avverso tutti gli atti presupposti, compreso, se necessario, l’originario permesso di costruire nella parte in cui autorizzava il passo carraio.

La Serma Costruzioni srl, proprietaria di due distinti immobili affacciati sui lati opposti di via S.Elena- quest’ultima di proprietà dei privati frontisti, ma gravata da servitù di uso pubblico in Chirignago, veniva autorizzata con permesso di costruire n.84298 del 2003 a procedere alla ristrutturazione e al risanamento conservativo di entrambi gli edifici.

Sia la galleria che un porticato ovest-est erano interamente gravati da servitù di pubblico passaggio pedonale in forza di atto notarile del 16 luglio 1956; il porticato in particolare risultava essere per tutta la sua lunghezza e metà della sua larghezza di proprietà Serma e per l’altra metà (longitudinale) di proprietà [OMISSIS].

Il [OMISSIS] contestava dapprima il permesso di costruire n.84198 del 2003 che, autorizzando il transito nel portico anche con automezzi, ne aveva aggravato la servitù da pedonale a carrabile; a seguito di tale contestazione, la società Serma produceva la DIA n.403111/2004 con cui, in variante al primo titolo abilitativo, ripristinava l’uso esclusivamente pedonale del portico.

Con la ultima denuncia di inizio attività, contrastata dal [OMISSIS], non contestata dal Comune e oggetto del ricorso originario e del presente giudizio di appello, la società Serma intenderebbe ora rendere carrabile la propria metà (longitudinale) del porticato e realizzare un marciapiede sul fronte est della via S.Elena dalla via Miranese al porticato stesso.

Tale intervento viene contestato dal [OMISSIS], il quale sostiene che a mezzo di esso si inciderebbe in sostanza sull’effettivo aggravio riguardante la servitù di passaggio sul suolo di sua proprietà. Consentendo infatti il passaggio carrabile della parte di proprietà Serma, i pedoni passerebbero in modo aggravato sul territorio [OMISSIS] e sarebbero anche sottoposti a pericoli derivanti dalla minore sicurezza del passo.

Il giudice di primo grado ha accolto le deduzioni del ricorrente [OMISSIS], che lamentava la violazione dell’art. 1067 c.c. in quanto con il titolo edilizio contestato, viene attuato un effettivo aggravio, da pedonale a carraio, della servitù, prima esclusivamente pedonale, insistente sul porticato.

Secondo la sentenza impugnata, la trasformazione della servitù, in carrabile da pedonale che era, gravante sulla porzione longitudinale del portico di proprietà Serma, incide certamente sull’esercizio della servitù pedonale alla quale è assoggettato l’intero portico, aggravandolo, in modo indiscutibile e non equivoco.

Secondo il primo giudice, non si sarebbe aggravato soltanto il peso della servitù sul fondo Serma, ma si sarebbe imposto abusivamente a carico del fondo [OMISSIS] un peso diverso da quello originariamente costituito per contratto, anche se la conversione da pedonale a carrabile ha riguardato formalmente la sola porzione di portico di proprietà Serma.

Secondo il primo giudice, invece, sono da ritenersi inammissibili le censure mosse avverso le scelte che riguardano la realizzazione del marciapiede su strada privata, ma gravata da uso pubblico e parte integrante della viabilità comunale.

Avverso tale sentenza, ritenendola errata e ingiusta, propone appello la società Serma Costruzioni srl, deducendo, dopo avere esposto i fatti di causa, che:

1) la denuncia di inizio attività non costituirebbe atto amministrativo impugnabile e suscettibile di rimedi demolitori (pagine 20 e 21 dell’appello), trattandosi di attività del privato e non assumendo essa valore provvedimentale; la sentenza sarebbe quindi erronea laddove ha ritenuto direttamente impugnabile la denuncia di inizio di attività.

Secondo la società, che richiama numerosa precedente giurisprudenza di primo grado e d’appello, l’unico rimedio esperibile avverso la denunzia di inizio di attività (atto di parte privato), consisterebbe nel rivolgere formale istanza all’amministrazione e nell’impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto su di essa formatosi. Il primo giudice avrebbe dovuto concludere per la inammissibilità della impugnativa della denuncia di inizio attività, non potendosi impugnare la dichiarazione del privato;

2) la sentenza sarebbe errata anche nel punto in cui ha individuato, a motivazione della illegittimità della denuncia di inizio di attività, una mera violazione di tipo civilistico, attinente ai rapporti privatistici fra le parti e non incidente sulla titolarità edilizia della Serma Costruzioni srl.

Tale doglianza avrebbe potuto proporsi soltanto dinanzi al giudice ordinario alla cui cognizione spettano le controversie circa la esistenza di diritti di uso pubblico su strade private.

Si è costituito l’appellato [OMISSIS], che chiede rigettarsi i due motivi di appello perché infondati. Propone altresì ricorso incidentale subordinato, rispetto ai motivi proposti in prime cure, deducendo i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere sotto svariati profili.

Si è costituito il Comune di Venezia, che si rimette alla giustizia e alla decisione di questo Consesso.

Alla camera di consiglio del 5 maggio 2009 la parte appellante ha rinunciato alla richiesta cautelare di sospensione di esecutività della sentenza.

Con ulteriore memoria del 3 novembre 2010 il [OMISSIS] fa presente di avere depositato in data 27 ottobre 2010 documentazione attinente a ulteriore denuncia di inizio di attività, comprensiva di diffida del Comune a iniziare i lavori nei confronti di Serma relativamente a altra e successiva DIA (n.448894 del 2008) avente ad oggetto la realizzazione di un nuovo accesso carraio con cancello scorrevole e relative opere annesse.

In tale diffida il Comune aveva precisato che l’intervento non era assentibile e la DIA non era accoglibile in quanto la larghezza dell’accesso carraio in progetto era di metri tre, e ciò in contrasto con la Delibera di G.C. n.1811 del 1999, che impone una dimensione minima di almeno metri 3, 50. Da tale motivazione negativa, il [OMISSIS] evince la non assentibilità anche della precedente DIA (n.2007/197703) oggetto del presente giudizio di appello, per il motivo che non raggiunge la dimensione minima di larghezza di metri 3,50.

Alla udienza pubblica del 7 dicembre 2010 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1.Con il primo motivo di appello la società appellante deduce la erroneità della sentenza impugnata, che ha annullato la denuncia di inizio attività, sostenendo la inammissibilità del ricorso di primo grado.

La denuncia di inizio attività infatti non costituirebbe atto amministrativo impugnabile e suscettibile di rimedi demolitori (pagine 20 e 21 dell’appello), trattandosi di attività del privato e non assumendo essa valore provvedimentale: la sentenza sarebbe quindi erronea laddove ha ritenuto direttamente impugnabile la denuncia di inizio di attività.

L’unico rimedio esperibile avverso un titolo abilitativo derivante da una denunzia di inizio attività consisterebbe, secondo l’appellante, nella sollecitazione della successiva attività della amministrazione nel senso che il terzo potrebbe agire per rimuovere la eventuale inerzia amministrativa (con il rimedio del silenzio) o impugnare i successivi atti amministrativi eventualmente adottati.

2.La Sezione rileva che la problematica giuridica sottoposta al suo esame ha dato luogo ad un artocolato orientamento della giurisprudenza, che incide sulla natura sostanziale dell’istituto e sui riflessi processuali conseguenti alle varie ipotesi ricostruttive.

Quanto ai diversi orientamenti giurisprudenziali, il Collegio rileva preliminarmente che la tesi secondo cui è inammissibile il ricorso proposto per l’annullamento della denuncia di inizio attività, intesa come atto avente natura oggettivamente e soggettivamente privata, ha avuto il conforto in sede giurisprudenziale anche di questa Sezione (ex plurimis, da ultimo, Cons. Stato, IV, 13 maggio 2010, n.2919; si veda in tal senso anche Cons. Stato, V, 22 febbraio 2007, n.948).

Tale inammissibilità della impugnativa troverebbe comunque un rimedio nell’azione avverso il silenzio-inadempimento; il terzo che intende opporsi all’intervento, una volta decorso il termine per l’esercizio del potere inibitorio, sarebbe legittimato unicamente a presentare all’amministrazione formale istanza per la adozione dei provvedimenti sanzionatori previsti e ad impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto su di essa formatosi, oppure a impugnare il provvedimento emanato all’esito della avvenuta verifica.

Questa Sezione, però, sempre recentemente, ha sostenuto la opposta tesi (per così dire provvedimentale) che i terzi che ritengano di essere pregiudicati dalla effettuazione di una attività edilizia assentita in modo implicito (nella specie, DIA) possono agire dinanzi al giudice amministrativo per chiedere l’annullamento del titolo abilitativo formatosi per il decorso del termine fissato dalla legge entro cui l’amministrazione può impedire gli effetti della D.I.A. (Cons. Stato; IV, 13 gennaio 2010 n.72).

In altra recente sentenza (4 maggio 2010, n.2558) poi, la stessa IV Sezione, senza prendere specifica posizione sulla natura giuridica dell’istituto ma solo ai fini della risoluzione del problema della tempestività della impugnativa avverso una denuncia di inizio di attività, ha sostenuto che – sia che si aderisca alla tesi privatistica sia che si aderisca a quella del titolo abilitativo implicito – in ogni caso l’azione costituente il rimedio del terzo pregiudicato deve attenersi al termine decadenziale di sessanta giorni ex art. 21 legge 6 dicembre 1971, n.1034, rilevando altresì che la struttura tradizionalmente impugnatoria del giudizio amministrativo può riguardare anche fattispecie a formazione provvedimentale implicita, come la DIA in materia edilizia.

Di recente, poi,la VI Sezione del Consiglio di Stato (sentenza 9 febbraio 2009 n.717) ha concluso per la tesi dell’atto privato, nei confronti del quale il terzo potrebbe agire dinanzi al giudice amministrativo per l’accertamento della inesistenza dei presupposti stabiliti dall’ordinamento.

3. Le diverse tesi sulla natura dell’istituto – della DIA quale provvedimento amministrativo tacito e della DIA quale atto privato sottoposto a controllo dell’amministrazione – possono portare a conclusioni diametralmente opposte sul punto dei rimedi esperibili da parte del terzo nel senso che la qualificazione giuridica dell’istituto sostanziale condiziona l’accesso alle tecniche di tutela della posizione del terzo pregiudicato.

Sul piano strettamente normativo va ricordato che la DIA è stata introdotta in via generale dall’art. 19 della L.n.241 del 1990 (tale articolo in realtà oggi disciplina la segnalazione certificata di inizio attività detta s.c.i.a.,mentre l’art. 20 prevede le ipotesi di silenzio-assenso) e, con riferimento alla materia edilizia, dagli artt. 22 e 23 del D.P.R. 380/2001.

La tesi provvedimentale della dia edilizia è stata argomentata anche sulla scorta dei dati testuali presenti nel testo unico edilizio, in considerazione : 1) dell’art. 23 comma 5 che fa riferimento al titolo; 2) del comma 6 dell’art. 23, che correla al decorso del termine la sussistenza del titolo abilitativo); 3) della estensione ex artt. 38 e 39 della disciplina degli interventi eseguiti in base in base a permesso annullato anche agli interventi realizzati con d.i.a. ; 4) dell’art. 22 co.3 secondo cui la denuncia è in alternativa al permesso di costruire; 5) del TITOLO II del testo unico, dedicato ai “Titoli abilitativi”, tra i quali sono ricompresi sia la denunzia di inizio di attività che il permesso di costruire.

In effetti, in teoria generale, il titolo è l’atto o fatto giustificativo dell’acquisto di un diritto o di una posizione soggettiva e il provvedimento è nella dottrina tradizionale l’atto che costituisce, modifica o estingue (art. 1321 codice civile sul contratto) una posizione giuridica amministrativa.

Come anticipato, anche questo Consesso, (tra le tante, sezione VI, 5 aprile 2007, n.1550 e da ultimo 10 dicembre 2009, n.7730, 4 maggio n.2558 e 24 maggio 2010, n.3263 del 2010) ha affermato che la d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione e privatizzazione della attività (questa invero è la sua ratio, ma non necessariamente la sua natura), ma rappresenta una semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo (sub specie della autorizzazione implicita di natura provvedimentale), a seguito del decorso del termine (30 giorni) dalla presentazione della denunzia, ed è impugnabile dal terzo nell’ordinario termine di decadenza di 60 giorni, decorrenti dalla comunicazione al terzo del suo perfezionamento, ovvero, dalla conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto della stessa.

Nel senso che i terzi che si assumano lesi dal silenzio serbato dall’amministrazione a fronte della presentazione della d.i.a. sono legittimati a gravarsi non avverso il silenzio stesso, ma, nelle forme dell’ordinario giudizio di impugnazione, avverso il titolo che, formatosi e consolidatosi per effetto del decorso del termine, si configura in definitiva come fattispecie provvedimentale a formazione implicita, si sono espresse molte decisioni (senza pretesa di esaustività, Consiglio Stato, IV; 25 novembre 2008, n.5811; 29 luglio 2008, n.3742; 12 settembre 2007, n.4828; sezione VI, 5 aprile 2007, n.1550).

4.La tesi provvedimentale, però, è stata messa in dubbio da altra giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. VI, 9 febbraio 2009, n.717) con la argomentazione secondo cui escogitare un provvedimento implicito che non esiste (a differenza del silenzio-assenso) non risulta di per sé idoneo ad assicurare un più elevato livello di tutela al terzo che si voglia opporre all’intervento; anzi, tale tesi lo esporrebbe alle incertezze interpretative sull’esatto momento in cui egli consegue la piena conoscenza dell’atto lesivo e a partire dal quale decorre il termine per l’eventuale impugnativa.

Secondo tale costruzione, la DIA è atto di parte o atto del privato e ad essa non si applicano le regole tipiche del procedimento amministrativo.

In particolare la suddetta pronuncia della VI Sezione , pur condividendo la preoccupazione di assicurare al terzo la effettività della tutela giurisdizionale, ha osservato tuttavia che tale remora non può portare a stravolgere la natura dell’istituto, trasformando quella che è una dichiarazione del privato in un atto dell’amministrazione o in una fattispecie ibrida (quasi un animale a due teste) che nascerebbe privata e diventerebbe pubblica per effetto del decorso del tempo trascorso e del silenzio).

In realtà, dal punto di vista sostanziale, l’azione di controllo amministrativo sulla DIA si risolve in una funzione di “riscontro”, che consiste nell’accertamento, anche dopo la scadenza del termine assegnato per il controllo inibitorio, della insussistenza delle condizioni legittimanti la intrapresa della attività.

Dal punto di vista processuale, poi, questa impostazione rimette la effettività della tutela del terzo a rimedi diversi dalla tradizionale azione di annullamento; lo strumento idoneo – oltre al ben noto rimedio avverso l’inerzia – consisterebbe nella azione di accertamento autonomo che il terzo può esperire dinanzi al giudice amministrativo per sentire pronunciare che non sussistevano i presupposti per svolgere l’attività sulla base di una semplice denuncia di inizio di attività.

Emanata la sentenza di accertamento, graverà sulla amministrazione l’obbligo di ordinare la rimozione degli effetti sulla base dei presupposti che il giudice ha ritenuto mancanti; nè la mancanza di una norma espressa sulla attribuzione al giudice amministrativo di una cognizione di tipo dichiarativo (azione di accertamento) è preclusiva, in quanto essa costituisce la caratteristica principale e minima dello ius dicere.

5. In sintesi la Sezione rileva che almeno tre sono le tesi che si pongono in campo riguardo ai rimedi giurisdizionali a favore del terzo dinanzi al G.A. avverso la denuncia (o dichiarazione) di inizio attività: 1) la prima è la tesi provvedimentale, della impugnativa tesa all’annullamento giurisdizionale del titolo abilitativo implicito, assimilando tale fattispecie all’atto espresso, quale il permesso di costruire, o il silenzio-assenso, con termine decorrente dal completamento della fattispecie o dalla sua conoscenza e che si esplica a mezzo di una pronuncia di tipo demolitorio- annullatorio sul modello dell’art. 29 CPA; 2) la seconda, che privilegia la consistenza di atto del privato, fa riferimento ad una azione di accertamento autonomo (negativo) della inesistenza dei presupposti per ritenere completata la fattispecie, con effetti che trovano nel momento conformativo il potere e il dovere (da parte dell’amministrazione) di rimuovere gli effetti eventualmente verificatisi; 3) la terza tesi, invece, che pure parte dalla natura privata dell’atto, imporrebbe al terzo, che intenda opporsi all’intervento assentito, una volta decorsi i termini senza l’esercizio del potere inibitorio, di presentare istanza formale e eventualmente impugnare il successivo atto negativo dell’amministrazione o di agire avverso la successiva inerzia amministrativa (silenzio-rifiuto), sul modello del rimedio previsto attualmente dall’art. 31 CPA.

6. La problematica sopra delineata, ad avviso della Sezione, coinvolge quindi i seguenti profili:

A) la qualificazione giuridica sostanziale dell’istituto e quindi natura privata oppure provvedimentale della fattispecie realizzata a mezzo della denuncia di inizio di attività, tenendo presente che il testo unico dell’edilizia la ricomprende tra i titoli abilitativi, anche se atto del denunciante privato;

B) risolta la qualificazione di natura sostanziale, involgente sia i poteri di inibizione che di autotutela successiva (autotutela fatta salva anche nell’istituto recente della s.c.i.a.), conseguente è il problema delle tecniche di tutela, dei risvolti processuali e dei rimedi giurisdizionali ai quali può ricorrere il terzo;

quale che sia il rimedio esperibile, in ogni caso, però, per esigenze di certezza dei rapporti, deve sgomberarsi il campo dai dubbi sulla applicabilità alla fattispecie del termine decadenziale (piuttosto che prescrizionale), individuando il momento dal quale tale termine debba essere fatto decorrere (conoscenza del completamento della fattispecie), sia che si abbracci la tesi della impugnativa demolitoria che quella dell’accertamento autonomo;

C) sulla base della soluzione adottata nella ricostruzione sostanziale dell’istituto, il rimedio giurisdizionale effettivo, comprende anche la eventuale ammissibilità, in tale fattispecie ma anche più in generale, della azione di accertamento da parte del terzo dinanzi a fattispecie che modificano i confini tra pubblico e privato e che esigono, a fini di liberalizzazione e semplificazione, un intervento solo eventuale e successivo dell’amministrazione pubblica nel rapporto tra autorità e libertà.

Da ultimo, non può non tenersi in considerazione la ulteriore evoluzione dell’ordinamento che, nel rapporto permanente tra autorità e libertà, sposta la soglia verso la seconda e prevede una accelerazione degli strumenti di liberalizzazione, consentendo immediatamente la attività (la c.d. s.c.i.a.) a seguito della presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (art. 19 comma 2 su citato, a seguito delle modifiche apportate dal D.L. 78 del 31 maggio 2010 come convertito dalla legge di conversione n.122 del 30 luglio 2010); tale fattispecie ultima, ispirata ad una maggiore celerità nell’avvio della attività che si intende svolgere e concedendo un minore spazio alla pubblica amministrazione, è stata generalizzata dal comma 1 dell’art. 19 (che prevede che ogni atto, permesso, licenza, autorizzazione è sostituito dalla s.c.i.a.).

La s.c.i.a., di cui non è ancora chiara allo stato la ampiezza di applicazione in materia edilizia, enfatizza (in nome di una ulteriore liberalizzazione e semplificazione) ancora di più la natura privatistica dell’atto, ma per converso non può smentire la permanenza della potestà pubblica, che è naturalmente fatta salva in via di autotutela e di divieto di prosecuzione della attività.

7.L’art. 99 cpa prevede che la Sezione cui è assegnato il ricorso, se rileva che il punto di diritto – nella specie, rimedi e tutela del terzo avverso la DIA – sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o di ufficio può rimettere il ricorso all’esame dell’adunanza plenaria.

Il Collegio fa presente che le altre questioni attengono:

-alla violazione o meno del dovere di non aggravare oltremodo il peso della servitù passiva del fondo servente di proprietà [OMISSIS], a mezzo dell’assentimento del passaggio carrabile (prima solo pedonale) sulla vicina servitù passiva a carico di Serma;

-alla assentibilità o meno dell’intervento in relazione al limite del rispetto della larghezza di almeno tre metri e mezzo del passaggio carrabile, limite previsto da precedenti determinazioni comunali e invocato dall’appellato [OMISSIS].

All’esame nel merito della presente controversia qui esposta si potrà addivenire solo se l’Adunanza plenaria fornirà soluzione alle questioni prospettate e alla stregua della impostazione seguita potranno essere valutati i motivi di appello, volti a sostenere la inammissibilità della impugnativa diretta nei confronti della denuncia di inizio di attività, come proposta invece in primo grado dall’appellato.

Pertanto, la Sezione, consapevole della delicatezza delle questioni e del loro evidente carattere di massima, ritiene opportuno deferirne l’esame all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 CPA, allo scopo di assicurare univoci orientamenti giurisprudenziali in materia di tutela del terzo avverso la denuncia di inizio di attività e si rimette alle sue determinazioni in ordine alla trattazione dell’intera causa o delle sole questioni di massima, con la eventuale restituzione degli atti alla Sezione per le ulteriori determinazioni, ai sensi del quarto comma del menzionato art. 99.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), in relazione al ricorso sopra indicato in epigrafe (r.g.n.2694 del 2009) ne rimette l’esame all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Gaetano Trotta, Presidente
Anna Leoni, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere
Sergio De Felice, Consigliere, Estensore
Raffaele Greco, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 05/01/2011

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *