Prove penali nel giudizio tributario: utilizzo anche senza autorizzazione – Cassazione Civile, Sentenza n. 25617/2010
La sua mancanza non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi al fisco né la validità dell’atto impositivo
Valido l’accertamento fiscale basato sulle fatture per operazioni inesistenti anche se non è stato provato l’accordo simulatorio o rapporti commerciali con società fittizie nel ruolo di cartiera. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 25617 del 17 dicembre 2010, ha respinto alcuni motivi presentati dal contribuente, accusato di essere socio occulto di un’azienda che aveva ricevuto, fra l’altro, un avviso di accertamento basato sulle contestazioni della Guardia di finanza (per fatture false).
La vicenda
Lo svolgimento del fatto riguarda un contribuente/ditta individuale assoggettato a due accertamenti dei redditi, i cui presupposti hanno trovato ingresso in altrettanti recuperi di imposta effettuati:
•uno in capo a una società a responsabilità limitata, partecipata dal contribuente, per l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti
•l’altro dalla rettifica del reddito di partecipazione dello stesso contribuente a una società in nome collettivo, in conseguenza dell’accertamento con adesione definito da quest’ultima.
In sede contenziosa, le eccezioni di parte azionavano sia la pretesa inestensibilità al socio dell’accordo concordatario con l’ufficio sia, sotto svariati profili (quali carenza di motivazione, illegittima presunzione di distribuzione di utili, violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, eccetera), la presunta illegittimità dell’accertamento derivante dalla partecipazione alla Srl.
A seguito di parziale accoglimento dei ricorsi in primo grado (relativamente ai recuperi derivanti dall’estensione dell’accertamento con adesione al socio), in Commissione regionale veniva accolto l’appello dell’ufficio. Ne è seguito ricorso per cassazione del soccombente, basato su una serie articolata di motivi concernenti le questioni sopra ricordate.
Il giudizio della Cassazione
Decidendo nel merito, con la sentenza n. 25617/2010, la Suprema corte ritiene il ricorso fondato in parte, con accoglimento soltanto delle censure relative alla congruità logica della ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza impugnata, confermando nel resto il giudizio allo stesso sfavorevole.
In particolare, la Corte ha esaminato la questione concernente la pretesa illegittimità della sentenza impugnata per violazione dell’articolo 42 del Dpr 600/1973, in quanto l’avviso di accertamento relativo alla società, nonostante la regolare notifica al ricorrente, faceva comunque riferimento ad altri atti istruttori non conosciuti e non notificati al medesimo, come il processo verbale di constatazione della Guardia di finanza redatto a carico della società di capitali.
Al riguardo, la pronuncia conferma il consolidato principio che in tema di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria motivato “per relationem”, nella disciplina anteriore all’articolo 7 dello Statuto del contribuente di cui alla legge 212/2000 (che impone all’Amministrazione l’obbligo di allegazione), la legittimità dell’avviso postula la conoscenza o la conoscibilità da parte del contribuente dell’atto richiamato, purché il suo contenuto serva a integrare la motivazione dell’atto impositivo, con esclusione, quindi, dei casi in cui essa, eventualmente integrata anche con gli atti (noti) cui rinvia “per relationem”, sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia pertanto solo valore narrativo), ovvero in cui il contenuto di ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo o di quello cui esso rinvia “per relationem”) sia già riportato nell’atto noto. Ai fini dell’annullamento, pertanto, il contribuente deve provare non solo che gli atti ai quali fa riferimento l’atto impositivo (o quelli cui esso rinvia) sono a lui sconosciuti, ma anche che almeno una parte del contenuto di essi sia necessaria a integrare (direttamente o indirettamente) la motivazione del suddetto atto impositivo, e che quest’ultimo (ovvero quelli cui esso rinvia) non la riporta, per cui non è comunque venuta a sua conoscenza (Cassazione 2780/2001, 8690/2002, 10205/2003, 25146/2005, 30504/2008, 2749/2009, 26683/2009, 10137/2010).
Altrettanto dicasi per l’utilizzabilità tributaria delle informazioni acquisite in sede penale, atteso che tali elementi trovano ingresso nel procedimento fiscale anche in assenza dell’autorizzazione del procuratore della Repubblica: l’autorizzazione è infatti posta a tutela della riservatezza delle indagini penali e non dei soggetti coinvolti nel procedimento o di terzi (così Corte costituzionale 51/1992). Pertanto, la mancanza dell’autorizzazione dell’autorità giudiziaria può avere rilievi sanzionatori per chi trasmette i dati al fisco, ma non tocca comunque l’efficacia probatoria degli stessi né la validità dell’atto impositivo.
Il giudice di legittimità si sofferma poi sul punto centrale della vicenda di merito, sottolineando, in tema di componenti negativi di reddito afferenti operazioni inesistenti (articoli 19 e 21 del Dpr 633/1972, e 75 del Dpr 917/1986, vigente all’epoca dei fatti), che i costi relativi a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili dal reddito d’impresa, purché legati a elementi certi e precisi, a condizione che il contribuente ne dimostri effettiva sussistenza, ammontare e inerenza.
In ultima analisi, quindi, la sentenza 25617/2010 stabilisce la legittimità dell’accertamento a carico del contribuente, in quanto l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti non presuppone necessariamente un accordo generale o l’apposita costituzione di società fittizie (cosiddette cartiere). Di talché, la prova dell’inesistenza soggettiva o oggettiva delle operazioni fatturate può essere ricavata da elementi di fatto di vario tipo (ad esempio, la mancata copertura finanziaria, la confessione dell’utilizzatore o dell’emittente, la manifesta non genuinità della fattura, et similia), considerato che – comunque – non sono soltanto le cartiere a emettere fatture false. Anche una società che opera regolarmente può, occasionalmente e/o sistematicamente (parallelamente alle attività lecite), emettere fatture false.
La Cassazione ha anche assunto a riguardo che, comunque, i costi fittizi in questione sono per definizione indeducibili in virtù dell’articolo 14, comma 4-bis, della legge 537/1993 (secondo cui non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato), in quanto coperti da fatture false, perciò afferenti diretta espressione di un comportamento costituente reato ex articoli 1, comma 1, lettera a), e 8, Dlgs 74/2000.
Sulla stessa linea di demarcazione della sentenza in esame si era tendenzialmente già posta la Cassazione con la pronuncia 867/2010, secondo la quale, nelle “frodi carosello” (fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società cartiere a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro), il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone fanno presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale.
Così, la decisione 25617/2010 si allinea a un preciso orientamento di legittimità (per tutte, Cassazione 15395/2008), secondo cui grava sull’Amministrazione fiscale l’onere di provare che le operazioni, oggetto delle fatture, in realtà non sono state mai poste in essere; ma se l’ente impositore fornisce validi elementi per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni anche solo parzialmente inesistenti, “passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate” ex articolo 2697 cc.
A questo riguardo, è richiesta al contribuente una prova più rigorosa (Cassazione 24980/2010) della semplice documentazione per superare i rilievi del fisco sulla detrazione. Infatti, in materia di diritto alla detrazione Iva, l’onere della prova può essere normalmente assolto mediante la documentazione contabile; questo sistema non è tuttavia incontestabile dal momento che lo stesso meccanismo elusivo consistente nella contabilizzazione di operazioni inesistenti presuppone la predisposizione di una regolare documentazione formale. L’Amministrazione finanziaria può superare queste risultanze, contrapponendo circostanze ed elementi di fatto comprovanti la fittizietà di tali operazioni, e, in tal caso, l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle stesse si sposta a carico del contribuente, il quale non potrà limitarsi a opporre la regolarità formale dell’“apparato formale”, ma dovrà allegare elementi più concreti (Cassazione 21953/2007, 19109/2005).
Salvatore Servidio
nuovofiscooggi.it