Indennità di malattia – Periodo massimo di 180 giorni e soggetti sottoposti a dialisi – Corte Costituzionale, Sentenza n. 356/2010
dichiara la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2110 del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione, dal Tribunale di Arezzo
Previdenza – Indennità di malattia – Periodo massimo indennizzabile di 180 giorni – Superabilità nel caso di soggetti sottoposti a dialisi per insufficienza renale – Mancata previsione.
Corte Costituzionale, Sentenza n. 356 del 15/12/2010
composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2110 del codice civile promosso dal Tribunale di Arezzo nel procedimento vertente tra S. M. e l’INPS con ordinanza del 16 giugno 2009 iscritta al n. 281 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di costituzione di S. M. e dell’INPS nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 16 novembre 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;
uditi l’avvocato Antonietta Coretti per l’INPS e l’avvocato dello Stato Maria Gabriella Mangia per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di Arezzo, con ordinanza emessa il 16 giugno 2009 nel corso di un giudizio promosso da S. M. contro l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2110 del codice civile, nella parte in cui prevede che al lavoratore sottoposto a dialisi è attribuita l’indennità di malattia nel limite di centottantagiorni in un anno.
Il giudice a quo, in punto di fatto, riferisce che il ricorrente, affetto da insufficienza renale, nel corso dell’anno 2007, dopo aver usufruito del numero massimo di giorni di malattia per i quali è prevista la relativa indennità, si è assentato dal lavoro per sottoporsi al trattamento di dialisi per ulteriori diciassette giorni per i quali l’INPS, in applicazione dell’art. 2110 cod. civ., non ha riconosciuto il suddetto beneficio.
Il suddetto diniego era conseguenza del fatto che l’Istituto, ai fini del calcolo dei giorni per i quali è prevista l’indennità in esame, somma le giornate di assenza dal lavoro per l’esecuzione della terapia dialitica a quelle conseguenti a un’altra eventuale malattia che determina l’incapacità lavorativa.
Così riportata la fattispecie sottoposta al suo esame, il Tribunale ritiene la disciplina contenuta nell’art. 2110 cod. civ. non ragionevole e contraria al principio di uguaglianza, in quanto prevede una tutela attenuata per i lavoratori affetti da insufficienza renale rispetto a quelli colpiti da tubercolosi o da un infortunio sul lavoro che, sottoposti ad una differente e specifica normativa, possono godere dell’indennità di malattia anche oltre il termine di centottanta giorni.
Il remittente ritiene, poi, l’art. 2110 cod. civ. in contrasto con 1’art. 38, secondo comma, Cost. e, in particolare, con i principi di solidarietà sociale da esso previsti a tutela dei lavoratori, volti a garantire a questi ultimi «mezzi adeguati» alle loro esigenze di vita proprio in caso di malattia.
Infine, la norma censurata violerebbe l’art. 32 Cost., rappresentando la salute un diritto fondamentale finalizzato «a garantire le condizioni di integrità psico-fisica delle persone bisognose di cura», soprattutto allorquando ricorrano circostanze di indispensabilità come nei casi in cui, per i dializzati, si è in presenza di trattamenti «salvavita».
Il Tribunale osserva, poi, che la rilevanza «della questione del giudizio a quo risiede nel fatto che essa dipende dall’accoglimento della domanda nel merito».
2. – Si è costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio principale chiedendo l’accoglimento della sollevata questione.
La parte privata, dopo aver riportato le norme che nel tempo hanno disciplinato le prestazioni economiche che spettano al lavoratore in caso di malattia, rileva che dalla formulazione della norma impugnata si evince che solo l’infortunio, la malattia professionale, la gravidanza e il puerperio, in quanto oggetto di trattamenti previdenziali differenziati, non sono sottoposti al limite massimo di periodo indennizzabile da essa previsto.
Il ricorrente nel giudizio a quo ritiene, pertanto, che la mancata inclusione tra tali ipotesi dei trattamenti dialitici si pone in contrasto con i parametri costituzionali indicati dal remittente.
3. – Si è costituito in giudizio l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) chiedendo, in via preliminare, che la Corte dichiari la questione inammissibile.
3.1 – Rileva l’Istituto che il remittente non avrebbe correttamente individuato la norma applicabile nel giudizio a quo, essendo il ricorrente un dipendente di una società che svolge attività di commercio e risultando, pertanto, a lui applicabile l’art. 3 del d.lgs. C.p.S. 31 ottobre 1947, n. 1304 (Trattamento di malattia dei lavoratori del commercio, del credito, dell’assicurazione e dei servizi tributari appaltati), il quale fissa in centottanta giorni il periodo massimo di malattia indennizzabile per il lavoratore.
Sempre in punto di ammissibilità, l’INPS osserva che il rimettente ha omesso di verificare se il contratto collettivo nazionale applicabile nel caso di specie preveda, o meno, un’ulteriore tutela della malattia rispetto a quella previdenziale. Il legislatore, infatti, avrebbe rimesso all’autonomia collettiva la possibilità di porre a carico del datore di lavoro l’eventuale riconoscimento dell’indennità di malattia anche per un periodo superiore a quello fissato in via generale dalla legge.
3.2 – Nel merito l’Istituto di previdenza ritiene la questione non fondata.
Quanto alla presunta violazione dell’art. 3 della Costituzione, l’INPS si limita ad osservare che le fattispecie poste a raffronto sono tra loro eterogenee, in quanto la tutela privilegiata prevista per i casi di tubercolosi si giustifica con il fatto che a tale malattia era collegata un’elevata mortalità e una estrema facilità di trasmissione, tali da fare qualificare questa patologia come malattia sociale.
Analoghe considerazioni valgono per la tutela prevista per i casi di infortunio sul lavoro o malattia professionale, la quale, peraltro, risulta affidata ad un ente diverso dall’INPS, cioè all’INAIL.
Quanto alla presunta violazione degli artt. 32 e 38 Cost., l’Istituto osserva che il remittente ha richiesto alla Corte un intervento lasciato alla discrezionalità del legislatore, derivando proprio dall’eventuale accoglimento della sollevata questione quella irragionevolezza tra situazioni analoghe lamentata dal Tribunale. Resterebbero, infatti, esclusi dalla estensione del periodo massimo indennizzabile i lavoratori sottoposti a trattamenti medici altrettanto rilevanti rispetto a quello oggetto del caso concreto.
4. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per una pronuncia di inammissibilità o infondatezza della questione.
In via preliminare, la difesa erariale rileva che la questione ha ad oggetto l’art. 2110 cod. civ. il quale, però, rimette ad altre fonti la determinazione del periodo massimo indennizzabile in caso di malattia del lavoratore.
Nel merito l’Avvocatura osserva che la disciplina contenuta nell’art. 2110 cod. civ. è frutto dell’esercizio legittimo della discrezionalità del legislatore, potendosi ravvisare una eventuale violazione dei parametri costituzionali indicati dal remittente solo nel caso in cui nella disposizione indicata venga esclusa, ai fini del riconoscimento della menzionata indennità, una qualsiasi forma di malattia.
In particolare, quanto alla presunta violazione dell’art. 3 Cost., non sarebbe irragionevole la scelta del legislatore di riservare una particolare disciplina per le persone affette da tubercolosi, stante la differenza che esiste tra tale patologia e quella da cui è affetto il ricorrente nel giudizio principale.
Anche le censure che hanno come riferimento gli artt. 32 e 38 Cost. sarebbero infondate, in quanto, da un lato, tali parametri rimettono al legislatore la determinazione dell’entità delle cure che devono essere garantite dallo Stato; e, dall’altro, non risulta che quelle di cui ha usufruito il ricorrente nel giudizio principale non abbiano soddisfatto il requisito dell’adeguatezza richiesto dalle indicate norme costituzionali.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Arezzo dubita, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 2110 del codice civile, nella parte in cui limita a centottanta giorni all’anno il riconoscimento dell’indennità di malattia a favore del lavoratore che si sottopone a dialisi.
2. – Il giudizio principale ha ad oggetto il ricorso proposto da una persona affetta da insufficienza renale contro l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) e, in particolare, il diniego da esso opposto al riconoscimento dell’indennità di malattia per i giorni eccedenti il limite sopra indicato.
Il limite in tal senso imposto dall’art. 2110 cod. civ. sarebbe, a parere del remittente, in contrasto con gli evocati parametri costituzionali, in quanto prevede una tutela attenuata per i lavoratori sottoposti a dialisi rispetto a quella garantita al lavoratore in stato di infortunio o colpito da tubercolosi.
Tale disciplina, oltre ad essere irrazionale e in contrasto con il principio di uguaglianza, non garantirebbe il rispetto dei principi fissati dagli artt. 32 e 38 della Costituzione in ordine alla adeguatezza delle cure e al sostegno economico che lo Stato deve garantire ai lavoratori in occasione della malattia.
3. – La questione è inammissibile per l’inesatta identificazione del quadro normativo rispetto al sollevato dubbio di costituzionalità (ex plurimis ordinanza n. 92 del 2009).
L’art. 2110, primo comma, cod. civ. prevede che in caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità.
Tale disposizione si limita a garantire, in caso di malattia del lavoratore, il diritto al trattamento economico ed alla conservazione del posto di lavoro nella misura e nei tempi determinati dalla legge e dalle norme contrattuali. Essa, quindi, non determina il termine massimo indennizzabile per i periodi di malattia dei lavoratori riservando tale disciplina a altre fonti legali, ai contratti collettivi, agli usi e all’equità.
Il Tribunale ha ricostruito il quadro normativo senza tener conto di tali ulteriori fonti applicabili nel caso di specie quale il d.lgs. C.p.S. 31 ottobre 1947, n. 1304 (Trattamento di malattia dei lavoratori del commercio, del credito, dell’assicurazione e dei servizi tributari appaltati), il quale in caso di malattia pone a carico dell’allora Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie (INAM), al quale oggi è subentrato l’INPS, il pagamento della relativa indennità. In particolare, l’art. 3 espressamente stabilisce che «L’indennità giornaliera di malattia è dovuta a decorrere dal quarto giorno di malattia e per un periodo massimo di 180 giorni in un anno».
L’indicazione del periodo massimo indennizzabile è stata poi ripresa dal contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti da aziende del commercio, dei servizi e del terziario, stipulato il 24 luglio 2004, che all’art. 104 prevede che «Durante la malattia, il lavoratore non in prova ha diritto alla conservazione del posto per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare […]», precisando il successivo art. 105 (Trattamento economico di malattia) che «Durante il periodo di malattia, previsto dall’articolo precedente, il lavoratore avrà diritto alle normali scadenze dei periodi di paga […]».
L’inconferenza della disposizione censurata nonché il mancato esame da parte del remittente delle disposizioni indicate e l’incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento compromettono l’iter logico argomentativo posto a fondamento della sollevata censura e ne determinano l’inammissibilità precludendone lo scrutinio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2110 del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione, dal Tribunale di Arezzo con l’ordinanza indicata in epigrafe;
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’1 dicembre 2010.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Maria Rita SAULLE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2010.