Confisca per l’impresa del marito che opera anche dopo lo scioglimento della comunione legale – Casazione Penale, Sentenza 42182/2010
L’immobile utile all’esercizio d’impresa non può essere rivendicato dall’ex coniuge che vanta un credito personale.
In un caso relativo a un’istanza di restituzione pro quota di un terreno e di un opificio avanzata dal coniuge di un imprenditore, la Cassazione ha spiegato che è soggetta a confisca l’intera impresa intestata solo al marito che continua a operare anche dopo lo scioglimento della comunione legale. Questo perché, se il reato è avvenuto in epoca successiva alla fine del matrimonio, la funzione primaria è quella di soddisfare immediatamente i creditori (sentenza n. 42182 del 29 novembre).
Confisca
Si premette che la confisca è prevista dall’articolo 240 del codice penale, mentre il particolare istituto della “confisca per equivalente”, disciplinato dall’articolo 322-ter dello stesso codice, trova applicazione nell’ambito dei reati tributari previsti dal Dlgs 74/2000 (articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11), in forza dell’articolo 1, comma 143, della legge 244/2007 (Finanziaria 2008). Si tratta, in generale, dei reati di dichiarazione fraudolenta, dichiarazione infedele, omessa dichiarazione, emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, omessi versamenti, indebite compensazioni.
L’articolo 322-ter sancisce che, in caso di condanna o di patteggiamento, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando questo non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo (cfr Cassazione, sentenza n. 42462/2010).
Vicenda processuale
Lo sviluppo della vicenda, risolta con la sentenza n. 42128/2010, ha inizio con l’opposizione della moglie di un imprenditore all’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari, con la quale era stata rigettata l’istanza di restituzione, pro-quota, di un terreno e di un opificio industriale, dei quali era stata disposta la confisca per effetto di sentenza passata in giudicato emessa in precedenza nei confronti del coniuge per reati fiscali.
Nel provvedimento di diniego il giudice motivava:
•che i beni oggetto di confisca sono soggetti alla disciplina di cui all’articolo 178 cc, e fanno quindi parte della comunione dei beni tra i coniugi “de residuo”
•che avendo i coniugi posto in essere la convenzione di separazione dei beni, è sorto in capo alla moglie dell’imprenditore un diritto di credito di natura personale e non reale, per cui non può essere soggetto ad azione di rivendicazione (articoli 948, 619 e seguenti cpc), che invece presuppone l’esistenza di un diritto reale.
L’impugnazione, rigettata dal Gip, è stata poi opposta in Cassazione per violazione degli articoli 178 e 179 cc, insistendosi per la natura reale del diritto della moglie dell’acquirente. A parere della ricorrente, in virtù dello scioglimento della comunione, si sarebbe prodotta automaticamente la contitolarità tra i coniugi dei beni residui, successivamente soggetti alla divisione della comunione (ex articolo 194 cc). Inoltre, poiché i coniugi all’epoca dell’acquisto erano in regime di comunione (articoli 228 legge 151/1975 e 177 cc), l’immobile doveva considerarsi de plano oggetto della comunione legale ai sensi dell’articolo 179, comma 2, del codice civile.
La decisione
Il ragionamento della ricorrente non convince però la sezione penale, la quale, respingendo il ricorso, ha chiarito alcuni punti importanti di questa complessa disciplina.
Infatti, come correttamente ritenuto dal primo giudice, nel regime della comunione legale, i beni, inclusi quelli immobili, che vengono acquistati da uno dei coniugi e destinati all’esercizio, da parte sua, dell’impresa costituita dopo il matrimonio, fanno parte della comunione “de residuo”, e quindi si considerano oggetto di comunione solo se sussistono al momento del suo scioglimento.
A tali acquisti, la cui compiuta disciplina è nell’articolo 178 cc che considera in comunione tutti gli incrementi dell’azienda, non si applica la previsione contenuta nel secondo comma dell’articolo 179 cc – che consente l’esclusione di immobili e mobili registrati dalla comunione, purché all’atto di acquisto abbia “partecipato” anche il coniuge non acquirente e questi abbia rilasciato una dichiarazione di assenso ai fini dell’esclusione – giacché detta previsione si riferisce soltanto alle diverse ipotesi contemplate dal primo comma del medesimo articolo 179, lettere c) (“beni di uso strettamente personale”), d) ed f) (“beni acquistati con il presso del trasferimento di beni personali”, fra cui è compresa, ai sensi della lettera d), quella dei beni destinati all’esercizio della professione, non equiparabili a quelli destinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale – cfr Cassazione, sentenze nn. 4533/1986, 18456/2005 e 6120/2008).
In ultima analisi, i beni di cui all’articolo 178 cc devono qualificarsi sulla base dell’oggettivo criterio della loro effettiva finalizzazione, dopo il matrimonio, all’attività imprenditoriale di uno dei coniugi (non di entrambi, nel qual caso si applica l’articolo 177, lettera d), mentre i beni ex articolo 179 cc si caratterizzano per la loro stretta appartenenza alla sfera “personale” di un coniuge e sono, in alcuni casi, strumentali rispetto all’estrinsecazione della sua personalità, come nell’ipotesi dei beni “che servono all’esercizio della professione” (cfr Cassazione, sentenza n. 22755/2009).
Ma non basta. Secondo il Collegio, vanno salvaguardati, in questi casi, anche e soprattutto i diritti dei creditori dell’azienda che, normalmente, fanno affidamento sulla consistenza dei beni strumentali allo svolgimento dell’attività aziendale per valutarne l’affidabilità e che, pertanto, possono aggredire integralmente i beni, acquistati dal coniuge imprenditore e destinati all’esercizio dell’impresa, per il soddisfacimento delle loro pretese (cfr Cassazione, sentenze nn. 7060/2004 e 41182/2010).
Salvatore Servidio
nuovofiscooggi.it