Previdenza – Indennità fine servizio per direttore generale, amministrativo e sanitario delle A.S.L. – Corte Costituzionale, Sentenza n. 351/2010
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Ancona
Previdenza – Indennità premio di fine servizio per direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario delle A.S.L. – Determinazione dei contributi previdenziali sulla base del trattamento economico corrisposto per l’incarico conferito, anziché sulla base del trattamento stipendiale spettante (retribuzione “virtuale”), come stabilito dall’art. 3, comma 8, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, abrogato dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 229/1999.
Corte Costituzionale, Sentenza n. 351 del 03/12/2010
composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 3, commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), promosso dalla Corte d’appello di Ancona con ordinanza del 9 aprile 2009, iscritta al n. 214 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di costituzione dell’INPDAP e di M.A.L.;
udito nell’udienza pubblica del 16 novembre 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;
uditi gli avvocati Dario Marinuzzi per l’INPDAP e Rosaria Russo Valentini per M.A.L.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 9 aprile 2009, la Corte d’appello di Ancona ha sollevato, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), nella parte in cui, rispettivamente, abroga la disposizione di cui all’art. 3, comma 8, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), ed aggiunge l’art. 3-bis, comma 11, al medesimo d.lgs. n. 502 del 1992, prevedendo che i contributi previdenziali – da versarsi da parte dall’amministrazione di appartenenza del dipendente collocato in aspettativa senza assegni, in quanto nominato direttore generale di azienda sanitaria locale – siano calcolati sul trattamento economico corrisposto per l’incarico conferito.
1.1. – Il giudice a quo è chiamato a decidere sull’impugnazione proposta dall’INPDAP (Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica) avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Macerata, in funzione di giudice del lavoro, che ha condannato l’Istituto a pagare l’importo di 136.374,73 euro oltre interessi, quale differenza tra la minor somma corrisposta e quella dovuta a titolo di liquidazione del trattamento di fine servizio, in favore di M.A.L., già dipendente della azienda unità sanitaria locale n. 9 di Macerata, successivamente nominato direttore generale dell’azienda sanitaria locale n. 4 di Terni, infine collocato in quiescenza con decorrenza 1° ottobre 2002.
Riferisce il rimettente che l’istituto appellante ha articolato vari motivi di impugnazione, oltre a richiedere l’integrazione necessaria del contraddittorio nei confronti dell’azienda sanitaria n. 9 di Macerata, ed ha sollevato eccezione di legittimità costituzionale delle disposizioni contenute nell’art. 3, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 229 del 1999, per violazione degli artt. 3 e 76 Cost.
1.2. – Il giudice a quo reputa non sussistente la necessità di disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti della azienda sanitaria locale n. 9 di Macerata, «stante la natura previdenziale dell’indennità premio di fine servizio, affermata dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sez. unite n. 11329 del 2005)», mentre ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni contenute nell’art. 3, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 229 del 1999, in riferimento al solo art. 76 Cost.
1.3. – Il rimettente richiama gli aspetti essenziali della vicenda in esame, precisando come sia pacifico in atti che l’appellato, al tempo del collocamento in quiescenza (1° ottobre 2002), si trovasse in aspettativa senza assegni in quanto nominato direttore generale della azienda unità sanitaria locale n. 4 di Terni, in applicazione dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 502 del 1992. Per tale incarico il trattamento economico onnicomprensivo annuo, inizialmente stabilito in 200 milioni di lire, era stato elevato, con decorrenza 1° gennaio 2002, ad euro 132.212,97. La liquidazione del trattamento di fine servizio era stata attuata dall’INPDAP della provincia di Macerata in base alle disposizioni della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), sulla retribuzione che l’appellato avrebbe continuato a percepire, come lavoratore dipendente dell’azienda sanitaria di appartenenza, se non fosse stato collocato in aspettativa senza assegni.
Peraltro, osserva il rimettente, il chiaro disposto dell’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992 prevede che il versamento dei contributi previdenziali, da parte dell’amministrazione o ente privato di appartenenza del lavoratore collocato in aspettativa senza assegni in quanto nominato direttore generale (sanitario o amministrativo) di asl o azienda ospedaliera, sia commisurato al trattamento economico effettivamente corrisposto per l’incarico conferito, e non già al trattamento stipendiale del rapporto di lavoro in stato di quiescenza, ancorché nel limite del massimale di cui all’art. 3, comma 7, del decreto legislativo 24 aprile 1997, n. 181 (Attuazione della delega conferita dall’articolo 2, comma 22, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di regime pensionistico per gli iscritti all’Istituto nazionale di previdenza per i dirigenti di aziende industriali), e in tal senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità (sono richiamate le sentenze della Corte di cassazione n. 11925 e n. 12325 del 2008).
Ma le disposizioni con cui è stata introdotta nell’ordinamento la censurata previsione contrasterebbero, a parere del giudice a quo, con i principi e criteri direttivi contenuti nella legge 30 novembre 1998, n. 419 (Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502), in particolare con l’art. 2, comma 1, lettera t), che impegnava il Governo a «rendere omogenea la disciplina del trattamento assistenziale e previdenziale dei soggetti nominati direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario di azienda, nell’ambito dei trattamenti assistenziali e previdenziali previsti dalla legislazione vigente, prevedendo altresì per i dipendenti privati l’applicazione dell’articolo 3, comma 8, secondo periodo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni».
Il rimettente si sofferma sul contenuto della disposizione (oggi abrogata) di cui al richiamato art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992, ove era stabilito, al primo periodo, che per i pubblici dipendenti la nomina a direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario determinasse il collocamento in aspettativa senza assegni e che il periodo di aspettativa fosse utile ai fini del trattamento di quiescenza e di previdenza e dell’anzianità di servizio, mentre, al secondo periodo, era previsto che «Le amministrazioni di appartenenza provvedono ad effettuare il versamento dei relativi contributi, comprensivi delle quote a carico del dipendente, nonché dei contributi assistenziali, calcolati sul trattamento stipendiale spettante al medesimo ed a richiedere il rimborso del correlativo onere alle unità sanitarie locali interessate, le quali procedono al recupero delle quote a carico dall’interessato».
Ad avviso della Corte d’appello di Ancona, era questa la disciplina che, in base al criterio di delega, doveva essere estesa ai dipendenti privati. In essa si faceva chiaramente riferimento, ai fini del calcolo dei contributi assistenziali e previdenziali, al trattamento stipendiale spettante al dipendente in aspettativa, e dunque, inequivocabilmente, al compenso “virtuale” che sarebbe stato corrisposto dall’amministrazione di appartenenza qualora il dipendente non fosse stato collocato in aspettativa senza assegni per assumere l’incarico dirigenziale.
Diversamente, osserva il rimettente, il d.lgs. n. 229 del 1999, nell’attuare la delega ha proceduto, con l’art. 3, comma 2, ad abrogare il richiamato art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992 e con il successivo comma 3 del medesimo art. 3, ad aggiungere nel d.lgs. n. 502 del 1992, l’art. 3-bis, comma 11, nel quale è stabilito che «La nomina a direttore generale, amministrativo e sanitario determina per i lavoratori dipendenti il collocamento in aspettativa senza assegni e il diritto al mantenimento del posto. L’aspettativa è concessa entro sessanta giorni dalla richiesta. Il periodo di aspettativa è utile ai fini del trattamento di quiescenza e di previdenza. Le amministrazioni di appartenenza provvedono ad effettuare il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali comprensivi delle quote a carico del dipendente, calcolati sul trattamento economico corrisposto per l’incarico conferito nei limiti dei massimali di cui all’art. 3, comma 7, del decreto legislativo 24 aprile 1997, n. 181, e a richiedere il rimborso di tutto l’onere da esse complessivamente sostenuto all’unità sanitaria locale o all’azienda ospedaliera interessata, la quale procede al recupero della quota a carico dell’interessato».
La disposizione così introdotta, secondo il giudice a quo, presenterebbe contenuto innovativo nella parte in cui adotta un criterio diverso – più oneroso per l’amministrazione di appartenenza – rispetto a quello espressamente richiamato dalla legge di delegazione ai fini della estensione ai dipendenti privati del trattamento già previsto per i dipendenti pubblici.
Il diverso e innovativo criterio di calcolo dell’imponibile contributivo non troverebbe legittimazione, secondo il rimettente, in altre disposizioni di legge, quali l’art. 10, comma 2, secondo periodo, della legge 13 maggio 1999, n. 133 (Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale), che ha previsto l’emanazione di disposizioni correttive e integrative entro un anno dalla data di entrata in vigore dei decreti attuativi della legge di delega n. 419 del 1998, e ciò sia in ragione del richiamo ai principi e criteri contenuti nella delega originaria, sia in quanto la delega, di cui al comma 1 del medesimo art. 10, non ha alcuna attinenza con la materia della razionalizzazione del servizio sanitario nazionale.
Neppure varrebbe a legittimare l’operato del legislatore delegato, l’esito della valutazione congiunta dei criteri di delega espressi nell’art. 2, comma 1, lettere t) ed u), della legge n. 419 del 1998, come pure prospettato nel giudizio principale dalla difesa dell’appellato. In proposito, il rimettente osserva come l’obiettivo della “omogeneizzazione ai fini retributivi” della dirigenza sanitaria non possa riguardare il trattamento di fine servizio, al quale la giurisprudenza di legittimità riconosce natura previdenziale e non retributiva (è richiamata la già citata sentenza della Corte di cassazione, n. 11329 del 2005).
In tal senso, conclude il giudice a quo «si deve dubitare della legittimità costituzionale delle predette disposizioni del decreto delegato n. 229 del 1999 ovvero, in via gradata, si deve dubitare della legittimità costituzionale della disposizione di cui al comma 11 dell’art. 3-bis del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, nella parte in cui dispone che il versamento dei contributi debba essere calcolato “…sul trattamento economico corrisposto per l’incarico conferito…”».
1.4. – Quanto, infine, alla rilevanza della questione, il rimettente evidenzia come solo in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate, e di conseguente ripristino della disciplina previgente, contenuta nell’art. 3, comma 8, secondo periodo, del d.lgs. n. 502 del 1992, «risulterebbe conforme a legge l’interpretazione dell’INPDAP, cioè il calcolo dei contributi previdenziali sul trattamento stipendiale spettante al dipendente in aspettativa in ragione del rapporto di lavoro subordinato con l’amministrazione di appartenenza», con la conseguente possibilità di accogliere l’appello.
2. – Con atto depositato il 18 settembre 2009, si è costituito nel giudizio di legittimità costituzionale l’INPDAP, appellante nel procedimento principale, per chiedere l’accoglimento della questione.
La difesa dell’Istituto appellante osserva in primo luogo come l’indennità premio di servizio venga corrisposta a favore degli ex dipendenti degli Enti locali ovvero del Servizio Sanitario Nazionale, secondo le previsioni della legge n. 152 del 1968, che considera – ai fini previdenziali – soltanto la retribuzione assoggettata a contribuzione (in particolare, sono richiamati gli artt. 4 e 11).
Quanto all’indennità premio di servizio spettante a coloro i quali, come nella specie, abbiano svolto l’incarico di direttore generale di asl, la stessa difesa osserva come sia necessario valutare se esista continuità tra le posizioni assunte dal lavoratore, tenuto conto della natura di lavoro autonomo propria del rapporto che si instaura tra il direttore generale e l’azienda sanitaria.
Invero, prosegue la difesa dell’Istituto, e in linea generale, il lavoratore dipendente, sia pubblico sia privato, una volta nominato direttore generale di una azienda sanitaria locale o azienda ospedaliera, viene collocato in aspettativa senza assegni dall’ente di provenienza. Il periodo di aspettativa, in quanto si caratterizza per la sospensione degli obblighi tipici del rapporto di lavoro, con ricadute anche sul rapporto giuridico previdenziale (che nel primo trova il suo presupposto), non dovrebbe risultare “utile” ai fini previdenziali. Nondimeno, allo scopo di salvaguardare la posizione previdenziale del lavoratore per tutta la durata dell’aspettativa senza assegni, l’ordinamento consente di considerare quest’ultima utile ai fini previdenziali, in alcuni casi condizionatamente al pagamento di un contributo da riscatto (così per le aspettative non retribuite per motivi privati del lavoratore).
Ciò posto, l’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992, introdotto dal d.lgs. n. 229 del 1999, non si è limitato ad estendere l’utilità del periodo di aspettativa senza assegni al dipendente privato il quale sia nominato direttore generale (sanitario o amministrativo) di azienda sanitaria, ma prevede altresì, con valenza generalizzata, che debba essere assoggettato a contribuzione l’importo percepito per lo svolgimento dell’incarico dirigenziale.
La disposizione censurata risulterebbe incoerente rispetto alla ratio che giustifica la previsione dell’utilità dei periodi di aspettativa senza assegni ai fini previdenziali: mentre lo scopo di quest’ultima è di evitare soluzioni di continuità nella posizione previdenziale del lavoratore, il risultato cui è giunto il legislatore delegato è l’attribuzione di un ingiusto privilegio attraverso «una riliquidazione del trattamento previdenziale parametrato, per tutti gli anni di servizio svolti, al ben più vantaggioso compenso percepito solamente nell’ultimo periodo di lavoro in cui è stato svolto l’incarico» dirigenziale.
La difesa dell’Istituto prosegue osservando che il rapporto di lavoro del direttore generale è qualificato dalla giurisprudenza di legittimità come lavoro autonomo (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza n. 3882 del 1998), distinto da quello di natura subordinata (presso ente pubblico o datore di lavoro privato) in essere al momento del collocamento in aspettativa, che solo giustifica la tutela previdenziale. Ciò che del resto trova riscontro nella previsione contenuta nell’art. 1, comma 6, del d.P.C.m. 19 luglio 1995, n. 502, secondo cui «nulla è dovuto, a titolo di indennità di recesso, al direttore generale nei casi di cessazione dell’incarico per decadenza, mancata conferma, revoca o risoluzione del contratto nonché per dimissioni».
Proprio in ragione di tale ricostruzione del sistema – secondo cui oggetto esclusivo di tutela è la continuità della posizione previdenziale del lavoratore in aspettativa senza assegni – l’Istituto ha costantemente interpretato l’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992, nel senso che il versamento contributivo debba essere effettuato (dall’amministrazione di appartenenza) sulla retribuzione che il dipendente percepiva all’atto di collocamento in aspettativa o alla quale avrebbe avuto diritto, secondo la normale progressione economica all’interno dell’ente, se fosse rimasto in servizio (è richiamata l’Informativa INPDAP n. 4 del 15 gennaio 2002).
2.2. – La difesa dell’Istituto appellante osserva come la delega contenuta nell’art. 2, comma 1, lettera t), della legge n. 419 del 1998 avesse il chiaro scopo di eliminare una «evidente e ingiustificata discriminazione» in ambito previdenziale tra lavoratori pubblici, da un lato, e lavoratori privati, dall’altro, nell’eventualità di nomina a direttori generali di azienda sanitaria. L’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992 assicurava solo ai primi l’utilità ai fini previdenziali del periodo di aspettativa senza assegni; i lavoratori dipendenti privati potevano soltanto riscattare tale periodo.
La legge di delega n. 419 del 1998, oltre ad indicare la finalità di rendere omogeneo il trattamento previdenziale dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, nominati ai vertici delle aziende sanitarie ed ospedaliere, avrebbe anche tracciato in modo puntuale il cammino da seguire per realizzare la finalità predetta, attraverso cioè l’estensione ai dipendenti privati della previsione contenuta nell’art. 3, comma 8, secondo periodo, del d.lgs. n. 502 del 1992.
Diversamente, il decreto delegato n. 229 del 1999 avrebbe violato la delega in duplice senso: dapprima con l’abrogazione – ad opera dell’art. 3, comma 2 – della previsione che doveva essere estesa, e successivamente con l’introduzione – ad opera dell’art. 3, comma 3 – dell’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992, che ha dettato una nuova disciplina dei versamenti previdenziali, individuando quale retribuzione utile a tal fine il compenso percepito per l’incarico dirigenziale anziché lo stipendio spettante al momento in cui il lavoratore è collocato in aspettativa senza assegni.
2.3. – Dopo aver richiamato numerose pronunzie della Corte costituzionale in tema di eccesso di delega, la difesa dell’INPDAP evidenzia come, nel caso oggi sottoposto all’esame della Corte, la volontà del legislatore delegante non fosse quella di disciplinare ex novo, peraltro con costi aggiuntivi e senza copertura finanziaria, il regime previdenziale applicabile ai lavoratori dipendenti che vengono nominati direttori generali di aziende sanitarie; nel caso contrario, la legge di delega non avrebbe richiamato espressamente l’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992.
3. – Con atto depositato il 18 settembre 2009, si è costituito nel giudizio incidentale M.A.L., appellato nel procedimento principale, il quale ha concluso per il rigetto della questione, riservandosi di esporre le relative argomentazioni con successiva memoria.
In prossimità dell’udienza, la difesa dell’appellato depositava memoria illustrativa nella quale riepilogava i dati riguardanti la posizione lavorativa del predetto.
3.1. – La difesa della parte privata reputa la questione infondata, essendo erroneo il presupposto sul quale la Corte d’appello rimettente ha sviluppato il proprio ragionamento. Secondo il giudice a quo, infatti, poiché l’incarico di direttore generale di azienda sanitaria è considerato prestazione di opera professionale da lavoro autonomo, il trattamento stipendiale indicato nell’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992 non poteva riferirsi agli emolumenti ricevuti per l’attività di direttore generale, bensì alla retribuzione che il soggetto percepiva da lavoratore subordinato.
In realtà, prosegue la difesa del lavoratore appellato, secondo l’art. 1, comma 1, lettera d), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), il direttore generale «è assunto» con contratto di diritto privato a termine. Ciò non significa necessariamente che sia un lavoratore autonomo, tanto più che quella stessa legge di delega, all’art. 2, imponeva al Governo di prevedere l’applicazione del diritto civile a buona parte del pubblico impiego; né la previsione del termine esclude che si tratti di lavoro dipendente, essendo ammessa anche la “tutela reale” di natura ripristinatoria, in sé incompatibile con il lavoro autonomo (è richiamata l’ordinanza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 3069 del 2007).
In definitiva, perciò, la locuzione utilizzata nell’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992, doveva essere interpretata come indicativa della retribuzione percepita dal lavoratore per l’incarico di direttore generale, sicché il d.lgs. n. 229 del 1999 non sarebbe sul punto innovativo.
Al contrario, la locuzione predetta fu interpretata dagli Istituti di assicurazione nel senso che l’INPDAP effettuava il prelievo contributivo sulla retribuzione virtuale che il pubblico dipendente avrebbe percepito se non fosse stato posto in aspettativa senza assegni dall’amministrazione di appartenenza, e l’INPS effettuava il rimanente prelievo sulla retribuzione percepita in qualità di direttore generale (è richiamata in proposito la Circolare INPS n. 201 del 17 ottobre 1996). Ciò determinava, tra l’altro, trattamenti ingiustificatamente differenziati tra soggetti che esercitavano la medesima attività, a seconda del compenso “virtuale” che ciascuno avrebbe ricevuto dall’originario ente di appartenenza, tenuto conto che nel settore pubblico esistono nove aree dirigenziali, ciascuna con diverso trattamento economico. Inoltre, non potendosi calcolare le indennità correlate alla effettiva presenza in servizio, la retribuzione virtuale risultava significativamente ridotta, sicché i dirigenti venivano collocati a riposo con un trattamento economico nettamente inferiore a quello che sarebbe loro spettato se fossero rimasti in servizio effettivo presso l’ente di appartenenza.
Per i dirigenti provenienti dal settore privato, poi, mancava del tutto una disciplina riguardante il trattamento previdenziale (è richiamata la sentenza della Cassazione n. 12325 del 2008).
I profili di disomogeneità che discendevano da tale assetto normativo erano a dir poco eclatanti: ciò avrebbe dovuto portare, secondo la difesa dell’appellato, a ritenere che la locuzione trattamento stipendiale, di cui all’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992, dovesse riferirsi a quanto percepito dal lavoratore per l’incarico di direttore generale (sanitario o amministrativo) di asl o di aziende ospedaliere.
In questo era intervenuta la legge di delega n. 419 del 1998, che all’art. 2, lettera t), dava mandato al Governo di procedere in primo luogo alla omogeneizzazione del trattamento, fissando, come secondo obiettivo, di estendere ai lavoratori dipendenti privati la copertura previdenziale.
Secondo la difesa della parte privata, la lettura del criterio di delega assunta dal rimettente, e prima di esso dalla parte appellante, sarebbe erroneamente restrittiva, in quanto riduce all’estensione della previsione contenuta nell’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992, l’intero, e più ampio, obiettivo di rendere omogeneo il trattamento previdenziale dei soggetti nominati ai vertici delle aziende sanitarie o ospedaliere, nel quale la disposizione introdotta dall’avverbio «altresì» andrebbe intesa come riferita all’applicazione anche ai dipendenti privati della copertura previdenziale, essendone costoro fino a quel momento sprovvisti.
3.2. – La difesa dell’appellato evidenzia infine che a partire dalla entrata in vigore della nuova normativa, vale a dire da circa dieci anni, l’INPDAP non ne ha mai contestato l’applicazione con riferimento al trattamento di quiescenza, avendo riscosso contribuzione piena su tutta la retribuzione percepita dai direttori generali provenienti dal settore pubblico, mentre con riferimento all’indennità premio di servizio lo stesso Istituto ha continuato ad utilizzare la base di calcolo del trattamento retributivo “virtuale” (così la Circolare n. 2 del 2000, che distingue tra il trattamento onnicomprensivo, proprio della pensione, e il trattamento di indennità premio di servizio), sul presupposto che l’indennità predetta abbia natura di retribuzione differita e non previdenziale, e ciò in contrasto con la più volte richiamata giurisprudenza di legittimità che ha ricondotto l’indennità premio di servizio nell’ambito dei trattamenti di previdenza e assistenza da calcolarsi, ai sensi dell’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs n. 502 del 1992, sul trattamento economico effettivamente percepito dal lavoratore.
La parte privata conclude, quindi, per il rigetto della questione, rappresentando che l’INPDAP ha introitato per dieci anni i maggiori contributi in virtù della norma oggi censurata, sicché l’accoglimento della tesi propugnata dall’Istituto e fatta propria dal rimettente finirebbe per ledere l’affidamento di quei soggetti i quali hanno deciso di accettare l’incarico di direttore generale, sanitario, amministrativo, di aziende sanitarie o aziende ospedaliere.
Considerato in diritto
1. – La Corte d’appello di Ancona ha sollevato, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), nella parte in cui, rispettivamente, abroga la disposizione di cui all’art. 3, comma 8, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), ed aggiunge l’art. 3-bis, comma 11, al medesimo d.lgs. n. 502 del 1992, prevedendo che i contributi previdenziali – da versarsi da parte dell’amministrazione di appartenenza del dipendente collocato in aspettativa senza assegni, in quanto nominato direttore generale di azienda sanitaria locale – siano calcolati sul trattamento economico corrisposto per l’incarico conferito. La disposizione censurata sarebbe in contrasto con l’art. 2, comma 1, lettera t), della legge 30 novembre 1998, n. 419 (Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al D.Lgs. 30 dicembre 1992 n. 502) e pertanto eccederebbe dai principi e criteri direttivi stabiliti dal legislatore delegante.
2. – La questione non è fondata.
2.1. – La legge di delega n. 419 del 1998, intervenendo in materia di trattamento assistenziale e previdenziale dei soggetti nominati direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario di azienda sanitaria locale, dava mandato al Governo di «rendere omogenea la disciplina» di tale trattamento, «nell’ambito dei trattamenti assistenziali e previdenziali previsti dalla legislazione vigente, prevedendo altresì per i dipendenti privati l’applicazione dell’articolo 3, comma 8, secondo periodo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 502, e successive modificazioni».
Il d.lgs. n. 229 del 1999, attuativo della delega, ha abrogato il citato art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992, sostituendolo con l’art. 3-bis, comma 11, che così dispone: «La nomina a direttore generale, amministrativo o sanitario determina per i lavoratori dipendenti il collocamento in aspettativa senza assegni e il diritto al mantenimento del posto. L’aspettativa è concessa entro sessanta giorni dalla richiesta. Il periodo di aspettativa è utile ai fini del trattamento di quiescenza e di previdenza. Le amministrazioni di appartenenza provvedono ad effettuare il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali comprensivi delle quote a carico del dipendente, calcolati sul trattamento economico corrisposto per l’incarico conferito nei limiti dei massimali di cui all’art. 3, comma 7, del decreto legislativo 24 aprile 1997 n. 181, e a richiedere il rimborso di tutto l’onere da esse complessivamente sostenuto all’unità sanitaria locale o all’azienda ospedaliera interessata, la quale procede al recupero della quota a carico dell’interessato».
A sua volta, l’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992 così statuiva: «Per i pubblici dipendenti la nomina a direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario determina il collocamento in aspettativa senza assegni; il periodo di aspettativa è utile ai fini del trattamento di quiescenza e di previdenza e dell’anzianità di servizio. Le amministrazioni di appartenenza provvedono ad effettuare il versamento dei relativi contributi, comprensivi delle quote a carico del dipendente, nonché dei contributi assistenziali, calcolati sul trattamento stipendiale spettante al medesimo ed a richiedere il rimborso del correlativo onere alle unità sanitarie locali interessate, le quali procedono al recupero delle quote a carico dell’interessato. Qualora il direttore generale, il direttore sanitario ed il direttore amministrativo siano dipendenti privati sono collocati in aspettativa senza assegni con diritto al mantenimento del posto».
3. – La questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo si fonda essenzialmente sulla considerazione che il legislatore delegante avrebbe perseguito l’obiettivo di rendere omogenea la disciplina del trattamento assistenziale e previdenziale dei soggetti di cui sopra «attraverso la previsione della estensione anche ai dipendenti privati della disciplina omogenea del trattamento assistenziale e previdenziale» già prevista per i dipendenti pubblici e fondata sul «comune presupposto del calcolo dell’imponibile contributivo sulla base del livello stipendiale del rapporto di lavoro quiescente con conseguente esclusione del criterio alternativo del calcolo sulla base dei compensi (da lavoro autonomo) spettanti per l’incarico di direzione».
Tale argomentazione non è compatibile con la lettera e con la ratio della sopra trascritta disposizione contenuta nella legge di delega.
Quest’ultima infatti rivolge al Governo due distinti criteri direttivi, che trovano la loro base comune in un unico principio, consistente nella finalità di eliminare le differenziazioni di trattamento assistenziale e previdenziale tra tutti i soggetti che, pur provenienti da settori diversi, pubblici e privati, si trovino ad espletare le funzioni di vertice di aziende sanitarie. Nell’ambito di tale principio a carattere generale, il primo di detti criteri è quello di individuare una base comune di calcolo, per evitare il perpetuarsi delle sperequazioni derivanti dalla diversa provenienza degli interessati; il secondo è quello di estendere anche ai dipendenti privati la “utilità”, ai fini previdenziali, del periodo trascorso nell’incarico, fino a quel momento prevista per i soli dipendenti pubblici. Accanto al censurato comma 11 dell’art. 3-bis, è stato inserito, inoltre, un comma 12, che estende ulteriormente il principio dell’unificazione di trattamento previdenziale anche ai lavoratori autonomi, completando in tal modo l’attuazione del principio stesso, mediante un terzo criterio direttivo, che non viene direttamente in considerazione nel presente giudizio, ma tuttavia si lega strettamente ai primi due.
3.1. – Il dato letterale, che sostiene la corretta lettura, illustrata al paragrafo precedente, della disposizione della legge di delega, è costituito dalla presenza dell’avverbio «altresì», che non avrebbe alcun senso se tra omologazione dei trattamenti previdenziali ed estensione anche ai dipendenti privati dell’efficacia delle norme dettate per i dipendenti pubblici vi fosse un rapporto esaustivo tra fine e mezzo, come ritiene invece il rimettente, che lo considera l’unico mezzo ammesso dalla delega per realizzare l’omologazione delle tutele previdenziali.
Al legislatore delegato viene prescritto invero di «rendere omogenei» i trattamenti ed inoltre («altresì») di estendere gli stessi, una volta unificati, ai lavoratori privati, allo scopo di completare il quadro della parificazione della copertura previdenziale.
Sarebbe stato peraltro in contraddizione con la ratio della delega, se la omologazione dei trattamenti previdenziali si fosse limitata ad estendere, puramente e semplicemente, il trattamento preesistente, fonte di disparità – dovute alle diverse carriere e status dei soggetti – anche ai dipendenti privati. Questi ultimi avrebbero superato la ingiustificata diversificazione rispetto ai pubblici dipendenti, dovuta all’assenza di contribuzione per la durata dell’ incarico, ma avrebbero condiviso con i primi una situazione sicuramente non omogenea, in contrasto con il chiaro indirizzo manifestato dal legislatore delegante.
4. – La delega imponeva al Governo di mantenersi nell’ambito della legislazione vigente in materia previdenziale. Ciò significa che non era consentito creare, con il decreto delegato, forme nuove e diverse di previdenza, sia con riguardo al trattamento di quiescenza, sia con riferimento all’indennità premio di servizio. Si deve in proposito rilevare che nessuna innovazione è stata introdotta sia nel metodo di determinazione della pensione, previsto dalle leggi vigenti per i pubblici dipendenti, sia per il criterio di calcolo della misura dell’indennità premio di servizio, che rimane quello fissato dall’art. 4 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali).
Posto quanto sopra, l’individuazione della base di calcolo nella retribuzione goduta per l’incarico di direttore generale, amministrativo e sanitario di azienda sanitaria, e non invece sul compenso “virtuale” legato all’ultima prestazione lavorativa effettuata presso l’ente di provenienza, è stata operata dal legislatore delegato scegliendo uno dei mezzi possibili per realizzare quell’unificazione delle tutele imposta dalla legge di delega.
Né varrebbe, a sostegno della tesi dell’eccesso di delega, rilevare la “specialità” della disciplina dettata dalla norma censurata, che si rifletterebbe in un indebito incremento dell’indennità premio di servizio, giacché, come ha osservato il giudice della legittimità, proprio con riguardo alla norma censurata nel presente giudizio, «il riferimento dell’art. 4 l. n. 152/1968 alla retribuzione dell’ultimo anno di servizio ben consente, in generale, il computo di aumenti retributivi conseguiti in prossimità della cessazione del rapporto di lavoro» (Corte di cassazione, sentenza n. 11925 del 2008). La normativa speciale, che stabilisce la permanenza del rapporto di lavoro dipendente, mediante l’aspettativa senza assegni, e la “utilità” del periodo trascorso in tale situazione ai fini assistenziali e previdenziali, è preesistente al d.lgs. n. 229 del 1999. Da essa deriva una linea di continuità, ai fini previdenziali, tra status precedente del soggetto ed incarico svolto, in regime contrattuale, a tempo determinato.
Il legislatore, sin dalla riforma generale del Servizio sanitario nazionale del 1992, non ha voluto scoraggiare la disponibilità di soggetti dotati di esperienza e professionalità adeguate ad assumere i delicati e rilevanti incarichi di dirigenza delle aziende sanitarie. La norma censurata ha soltanto inteso eliminare la scissione tra “valore” della prestazione lavorativa attuale, segnato dal compenso contrattuale contenuto entro i massimali fissati dalla legge, e misura della contribuzione previdenziale, rapportata ad un lavoro non attualmente svolto, legato a diverse funzioni e responsabilità. In particolare, nel solco della delega, ha voluto eliminare situazioni di ingiustificata disparità di trattamento, in base alle quali per lo stesso lavoro, ed a parità di retribuzione in atto percepita, le contribuzioni previdenziali presentavano livelli anche molto differenziati, la cui divaricazione si manifestava palesemente irragionevole, al punto da indurre il legislatore delegante a dare mandato al Governo di «rendere omogenei» i trattamenti.
Del resto, la norma generale contenuta nell’art. 31 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), che si riferisce all’aspettativa dei lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali, pone, al quinto comma, il divieto di ogni duplicazione contributiva, ritenendo interamente sostitutivo il trattamento previdenziale previsto in relazione alla carica ricoperta. In tal caso la contribuzione sarà ovviamente commisurata all’indennità percepita per la carica e si rifletterà sul trattamento previsto «in relazione all’attività espletata durante il periodo di aspettativa».
Per quanto riguarda i dipendenti delle pubbliche amministrazioni eletti al Parlamento nazionale, al Parlamento europeo e nei Consigli regionali, essi possono optare per l’indennità di carica, in luogo della retribuzione percepita per il lavoro precedente. Anche in tale ipotesi, la contribuzione sarà reale ed a carico del soggetto istituzionale, nel cui ambito vengono svolte le funzioni inerenti alla carica.
Analogamente, i soggetti provenienti dalle pubbliche amministrazioni, che assumono le cariche di direttore generale, amministrativo e sanitario di aziende sanitarie sono “coperti”, a fini previdenziali, ai sensi della norma censurata, dai contributi reali, gravanti sull’ente nell’ambito del quale vengono esercitate le relative funzioni. La soluzione, individuata dal legislatore delegato, al problema della omologazione dei trattamenti previdenziali e assistenziali non è pertanto eccentrica nell’ordinamento, giacché essa tende a comparire tutte le volte in cui un soggetto svolge temporaneamente funzioni diverse e gli si attribuisce il diritto a fruire di contribuzioni commisurate alla retribuzione effettiva in atto percepita, secondo un principio di tendenziale corrispondenza proporzionale tra entità della retribuzione ed entità della contribuzione, che trova attuazioni diverse, a seconda della specificità delle situazioni.
5. – Il principio di cui sopra, peraltro, è stato per un decennio accettato dall’INPDAP, che ha regolarmente introitato i maggiori contributi versati in relazione agli incarichi in oggetto, che sono entrati, senza contestazioni, nel calcolo del trattamento di quiescenza. L’accoglimento della presente questione determinerebbe pertanto un ulteriore squilibrio fra trattamento di quiescenza e indennità premio di servizio, che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, ha ugualmente natura previdenziale. È appena il caso di aggiungere che il pensionamento, e quindi il diritto all’indennità di cui sopra, del lavoratore pubblico dipendente in costanza dell’incarico esterno è una evenienza di fatto, che determina coerenti conseguenze giuridiche ed economiche, mentre diversa è la situazione di chi rientri nell’amministrazione di provenienza, una volta cessato dall’incarico, cui ugualmente si applica l’art. 4 della legge n. 152 del 1968.
6. – L’intervenuta abrogazione dell’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992 non è significativa ai fini della valutazione del denunciato eccesso di delega. Difatti, il contenuto di tale disposizione è stato trasfuso nel nuovo art. 3-bis, comma 11, con l’unica variante della precisazione della base di calcolo dei contributi previdenziali, resa necessaria, come s’è visto, per adempiere al mandato della legge di delega, di rendere omogenei i trattamenti.
In definitiva, si deve ritenere che la norma contenuta nell’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 229 del 1999, non si pone in contrasto con l’art. 2, comma 1, lettera t), della legge di delega n. 419 del 1998, in quanto, nel rispetto della ratio di quest’ultima, è il frutto dell’esercizio della discrezionalità del legislatore delegato nell’ambito dei principi e criteri direttivi stabiliti dalla delega, in coerenza con la giurisprudenza di questa Corte in tema di limiti posti dall’art. 76 Cost. (ex plurimis, tra le più recenti, sentenze n. 293 del 2010, n. 340 del 2007, n. 426 del 2006 e n. 280 del 2004).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Ancona con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 novembre 2010.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Depositata in Cancelleria il 3 dicembre 2010.